L'impegno di Dio con la solitudine brutale dell'uomo

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Gian Guido Vecchi - Intervista a Luigi Giussani

Proponiamo l’intervista di Gian Guido Vecchi a don Luigi Giussani, pubblicata
sul Corriere della Sera il 15 ottobre 2004 per i cinquant’anni della nascita
di Comunione e Liberazione, col titolo: «Giussani. Io e i ciellini. La
nostra fede in faccia al mondo»




«Ricordo che la scelta del Berchet fu assolutamente casuale, come un sasso
lanciato nel cielo. Mentre salivo i gradini che portavano all’interno del
liceo, non avevo idea di chi mi sarei trovato davanti. Vi erano raccolti i giovani
rampolli della Milano bene, che non conoscevo e di cui nessuno si occupava allora...».
La voce di monsignor Luigi Giussani è roca e fragile come un sospiro ma
lo sguardo è sempre quello che i ragazzi del «don Gius» conoscono
bene, gli stessi occhi che nelle immagini in bianco e nero di cinquant’anni
fa spuntavano da sotto il basco di quel sacerdote trentenne, brianzolo di Desio,
che un bel momento decise di lasciar perdere l’insegnamento nel seminario
di Venegono e di gettarsi nella mischia, la grande città dei «fabbriconi» di
Testori. Sarà stata la fede di mamma Angela o il temperamento di papà Beniamino,
intagliatore di legno, restauratore e socialista anarchico. Fatto sta che «il
Gius» compie oggi ottantadue anni e i suoi ragazzi festeggeranno domani,
con un pellegrinaggio a Loreto, il mezzo secolo del movimento nato nel liceo
milanese e oggi diffuso in settanta Paesi. Perché i giovanotti sui gradini
del Berchet formarono Gioventù Studentesca che poi divenne Comunione e
Liberazione. Lui, per la verità, ha scritto al Papa: «Non solo non
ho mai inteso “fondare” niente, ma ritengo che il genio del movimento
che ho visto nascere sia di avere sentito l’urgenza di proclamare la necessità di
tornare agli aspetti elementari del cristianesimo, vale a dire la passione del
fatto cristiano come tale nei suoi elementi originali, e basta».



Monsignor Giussani, la scelta del Berchet fu casuale...

... Almeno quanto l’incontro improvvisato con un gruppo di giovani, qualche
tempo prima, su un treno per Rimini. Parlando con loro, li avevo trovati profondamente
ignoranti di che cosa fosse il cristianesimo. Così quell’incontro
provocò in me la richiesta ai superiori di lasciare la docenza nel seminario
per l’insegnamento liceale. Mi fu assegnata scuola di religione nel Berchet
di Milano.



E lei come si regolò, da quel primo giorno in prima E?


Il criterio ultimo che adottai in classe fu di esaltare un rinnovato fervore
in quei giovani, tentando di comunicare la fede di un popolo cui io avevo partecipato.
Questo dicevo a me stesso inoltrandomi in quel primo giorno di scuola. Da parte
dei ragazzi ho subito notato un interessamento franco e, specialmente in taluni,
anche agitato.



Agitato?

Sì, ascoltandomi parlare a lezione, l’animo di certi studenti risultò sorpreso
dal fatto che la religione potesse acquistare una vivacità sorprendente
di fronte a interrogativi sul significato esauriente dell’esistenza, normalmente
ignorato da un punto di vista precario e pur sincero, quale era il loro in quel
momento. Domandavo alla Madonna di farmi la grazia di poter mostrare a quei ragazzi
in che modo la religiosità raggiunge l’uomo a una profondità inimmaginabile
dell’esperienza umana.



E incontrò diffidenze?


Ricordo ancora, come fosse ieri, la prima esplosione di spregio e di dispetto
portata a galla dalla prima domanda a sorpresa, in realtà si trattava
di un’obiezione che un ragazzo all’ultimo banco aveva fatto propria
dicendo: «Fede e ragione rappresentano due ambiti profondamente differenti,
esistenzialmente ostili». Parlò di rette sghembe su piani paralleli
che non si sarebbero mai potute incontrare...



In che modo risponde a obiezioni del genere?


La mia partenza ha preso le mosse da un modo di guardare le cose come “passione
per”, come “amore”, un atteggiamento di apertura che non lascia
partire da soli e mette in moto la vicenda di un rapporto. È impossibile
affrontare una situazione in cui c’entra la vita senza che questo contesto
operi uno scardinamento, una sorpresa. Se accade questo stupore, diventerà logico
l’entusiasmo nel parlare ai ragazzi, tutto l’impegno sarà subordinato
al lavoro dell’intelligenza: sarebbe infatti un errore seguire qualcuno
senza un perché, nel cervello dell’uomo c’è una chiave
di volta che esige la spiegazione del perché. In altre parole, senza la
sorpresa della realtà come punto di abbrivio, l’uomo resterebbe
bloccato, poco o tanto, dalla pura necessità di fare - ma fare cosa? -
e sentirebbe inutile qualsiasi tentativo.



Eppure si dice che l’Europa sia sempre più secolarizzata. Come si
può parlare di fede oggi?


Anzitutto bisognerebbe correggere l’impostazione solita con cui si concepisce
la fede. Tutto l’inizio nuovo dell’esperienza cristiana - e quindi
di ogni rapporto - non si genera da un punto di vista culturale, quasi fosse
un discorso che si applica alle cose, ma avviene sperimentalmente. È un
atto di vita che mette in moto tutto. L’inizio della fede non è una
cultura astratta, ma qualcosa che viene prima: un avvenimento. La fede è presa
di coscienza di qualcosa che è accaduto e che accade, di una cosa nuova
da cui tutto parte, realmente. È una vita e non un discorso sulla vita,
perché Cristo ha cominciato a “balzare” nell’utero di
una donna!



Ed è questo che non si riesce a trasmettere?


Sì, è questa percezione del cristianesimo e della Chiesa come vita
che si è persa negli ultimi secoli e così si è smarrita
la possibilità dell’inizio di una risposta alle domande dei giovani.
Se manca l’inizio, non c’è l’attacco al problema posto
dalla natura dell’uomo: la necessità di una risposta alle esigenze
della sua ragione. Per cui parlare della fede ai ragazzi, ma anche ai grandi, è dire
un’esperienza e non ripetere un discorso pur giusto sulla religione.



C’è una sorta di diffidenza reciproca tra cultura laica e religiosa?


Da parte nostra non c’è nessuna diffidenza, ma la fondata coscienza
di una situazione assai problematica che trovo espressa da una poesia di Carducci,
Su Monte Mario: «Fin che ristretta sotto l’equatore / dietro i richiami
del calor fuggente / l’estenuata prole abbia una sola / femina, un uomo,
/ che ritti in mezzo a’ ruderi de’ monti, / tra i morti boschi, lividi,
con gli occhi / vitrei te veggan su l’immane ghiaccia, / sole, calare».



È un’immagine desolata...


In queste parole è segnata la fine dell’uomo. È una posizione
dovuta alla negatività della concezione di cosa sia l’uomo, e a
uno sviluppo non completo della sua sensibilità e intelligenza.



Vede anche lei, come dicono alcuni, una tendenza ostile al cattolicesimo in Europa?


Oggi l’uomo vive una sorta di dispepsia esistenziale, un’alterazione
delle funzioni elementari che lo rende diviso, come il rapporto uomo-donna citato
da Carducci: quando non si considerano insieme all’origine, sono divisi,
due entità separate che non si incontreranno nemmeno alla fine. Può risultare
facile concepire ad esempio il prodotto di una pagina d’arte soltanto come
l’esito di una propria capacità. Così il lavoro, così l’amore
alla donna. E questo è un dato di fatto diffuso.



E invece?


Ciò che fa diventare diversa la percezione dell’uomo è l’incombente
dipendenza che si attribuisce alla natura di ogni cosa prima di partire in ogni
impresa: «Dolcissimo, possente / Dominator di mia profonda mente»,
cantava Leopardi. Così, alla solitudine brutale cui l’uomo chiama
se stesso, quasi per salvarsi da un terremoto, si offre come risposta il cristianesimo.
Il cristiano trova risposta positiva nel fatto che Dio è diventato uomo:
questo è l’avvenimento che sorprende e conforta l’altrimenti
malasorte. E per Dio non è concepibile il proprio agire verso l’uomo
se non come una “sfida generosa” alla sua libertà. L’obiezione
moderna che il cristianesimo e la Chiesa ridurrebbero la libertà dell’uomo è nullificata
dall’avventura del rapporto con l’uomo da parte di Dio. E invece,
a causa di una idea limitata della libertà, per l’uomo di oggi è inconcepibile
pensare che Dio si impegni nell’angustia di un rapporto con l’uomo,
quasi negandosi. Questa è la tragedia: l’uomo sembra più preoccupato
di affermare la propria libertà che di riconoscere questa magnanimità di
Dio, la sola che fissa la misura della partecipazione dell’uomo alla realtà e
così lo libera realmente.