La Madonna ci costringa a rendere il nostro esistere coincidente con il nostro essere

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Luigi Giussani

Appunti da due interventi agli Esercizi spirituali dei Memores Domini (La Thuile,
6 agosto 2004) e dei Novizi dei Memores Domini (9 agosto 2004)


Se qualcosa rimane di ciò che ci ha raggiunto - l’essere alle nostre
orecchie e l’amore al nostro cuore -, a che condizione l’abbiamo
salvato? A quale condizione questa salvezza, questa continuità, questo
essere si è salvato? Abbiamo salvato qualche cosa del nostro essere e
della nostra vita?

Vi ha accennato adesso il predicatore, quando si è soffermato brevissimamente
sul soggetto di tutto, su ciò che è stato destinato a essere soggetto
di tutto…

L’Essere è soggetto di tutto.

Se qualcosa si è salvato, è perché qualche cosa, almeno,
di quello che è stato riconosciuto è, c’è, e quindi è contemplato
e amato: questo urto che ha toccato in un certo momento tutto il retaggio del
nostro godimento, della nostra iperbole, della nostra impossibilità -
quella impossibilità per cui non esiste più nulla che sia vero;
e non è vero, non in quanto noi non lo comprendiamo, ma perché è come
un rischio continuamente sentito -. Sul giornale abbiamo visto ripetute cose
atroci, guerre senza possibilità di recupero. E dapprima anche noi ci
siamo arenati, bloccati, abbiamo sentito quell’esserci secondo tutte le
riviere, gli orizzonti, gli anni, il tempo… Ma il nesso è Cristo. È Cristo
il nesso che ciò che è accaduto stabiliva con altre persone, il
nesso che qualcuno tormentosamente si sentì scivolare addosso.

Insomma, è questa parola, è questa la parola, con tutto ciò che
essa implica scivolando nel mare misterioso e grande del tempo e dello spazio.
Possiamo dire tutte le cose che nascono mentre si sentono certe cose, mentre
si sente il miracolo del mistero dell’essere nei termini che per tutti
si stabiliscono: recondite armonie o insopportabili passatempi.

Dobbiamo correre dietro, rincorrere questo fuoco, questo fuoco eccezionale e
strano. Altrimenti, chi sono gli amici, chi sono i compagni, chi sono gli amori,
chi sono gli odi, chi sono gli impossibili uragani nel silenzio o nella disperazione?
Sono come tante cose che ieri c’erano e adesso mi scappano.



Bisogna che ci abituiamo a compiere quello per cui siamo stati fatti. Perché non
c’è possibilità di regola senza la crocifissione della regola
che fa del cuore nostro il centro del tempo e dello spazio, del mondo e della
storia. Questo è condizione, il far così è inevitabilità condizionale
per capire, per sentire la mano sulla spalla o attorno alle spalle, per capire
come è questo nostro essere, questo essere smarginatore, o secondo la
disperazione o secondo la presunzione.

A questo essere noi dobbiamo abituarci, rassegnarci. Sono due parole che lo dicono
in modo negativo, ma bisogna ritornarci tutti i giorni, altrimenti non sappiamo
dove mettere la nostra posizione di persone, di personaggi, di quell’ultimo
affaticato, stentoreo tentativo di fare qualche cosa che si chiama “io”.

Ma pensiamo: c’è una donna in cui tutto questo avveniva; cominciava
con lei! C’è una donna, madre. Madre, perché la parola “madre” incarna
fino in fondo, è un abisso che fino in fondo fa intuire la presenza di
qualcosa che è. «Madonna. Mia donna». Tra poche settimane,
a Loreto, potremo “riesumare” tratti di tutto questo che, arcanamente,
rabbiosamente o con pazienza, o senza nessuna attesa, abbiamo sentito. Questa
parola: Madonna. Chissà, chissà quando usciva di casa, quando andava
per le strade, quando andava a comperare qualcosa da servire. È questa
la parola con cui incomincia il nostro input, la nostra scelta verso l’Essere,
verso l’Essere! È questa la parola: Madonna, la Madonna. Diciamo
un’Ave Maria alla Madonna perché ci aiuti, ci costringa, ci costringa
a rendere il nostro esistere coincidente con il nostro essere. Ave Maria…



(Ai Memores Domini)***

Carrón, credo che le nostre facce ripetano a te, ti offrano, quello che
di più bello, di più affascinante, di più creativo, di più compagno
della vita si possa ripetere, si possa ridire. Tu lo hai ridetto con una forza,
persuasivo - come la nostra debolezza non potrebbe mai dire -, riempiti dall’abbraccio
tuo e attraverso te di chi è Cristo, di che cosa è Cristo.

Per questo non resta, a me, da aggiungere qualche parola, ma riscuotere dal fondamento
del nostro cuore quell’indifferenza con cui, normalmente, noi rendiamo
ogni istante di preghiera un vuoto, misterioso - misterioso sì, ma un
vuoto -, invece che un pieno di essere.

È la più bella meditazione che abbia trovato da sottoporre ai denti stretti
del mio cuore, alla “impudenza” magnifica con cui, ripetendo le frasi
che hai usate - non ce n’è una da cambiare, non ce n’è una
da sospendere -, il nostro sguardo penetra, penetra con una furbizia, con una
riscoperta. Marco, ti vedo - ti fisso! -, non puoi negare neanche una parola
del mio riconoscimento e della mia ripetizione, del mio ripetersi di fronte a
quello che ci è stato detto come di fronte all’eterno, questa ripetizione
di fronte all’eterno. Questa ripetizione di fronte all’eterno!

Meno male che abbiamo uno spazio per ripetere quello che ci è risuonato
in cuore, per ridirci quello che è risuonato nella mente. Per ridirci
queste parole che abbiamo sentito oggi, secondo la lunghezza d’onda, la
lunghezza di cuore, di destino, secondo un destino a cui noi siamo stati legati,
per cui nostra madre ci ha fatti nascere! Che ci ripeteremo oggi, oggi pomeriggio,
questa sera, domani mattina, domani pomeriggio, con una eco che nella valle immensa
del nostro cuore troverà riscontro in ogni ora della nostra vita.

Grazie. Però dovete ammettere che io sono stato bravo a sceglierlo - al
vostro riconoscimento ha partecipato per primo Vittadini che mi ha telefonato
immediatamente prima di partire e prima che si aprisse la nostra compagnia -!
Grazie, fratello, che ci seguirai - perché questo è detto dalle
parole che tu hai ripetute -, che ci seguirai nel nostro cammino.

Grazie.

(Ai Novizi dei Memores Domini)