Nel grande mare della vita solita, una continua novità

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Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani in occasione di un ritiro dei Memores Domini. Gudo Gambaredo, 13 giugno 1971



1. «Sancta Trinitas, unus Deus».

La vita come offerta


È il mistero della Trinità che domina la vita dell’uomo e del mondo. Il tempo liturgico dopo Pentecoste significativamente si apre con la domenica della Santissima Trinità, che è come il simbolo di tutte le domeniche. Domenica: il giorno del Signore. Ma la domenica è il segno per tutta la settimana, per tutti i giorni, perché ogni giorno è del Signore - come ho visto “appuntato” al muro della camera di uno di voi: «Ogni giorno di mia vita» -. Ogni giorno di nostra vita è dominato, deve essere dominato dal mistero della Trinità. Il mistero della Trinità è il «Dominus», è veramente il Signore, il padrone, ciò da cui siamo posseduti, così che anche i capelli del nostro capo sono numerati1: non c’è un palpito dell’animo o un sentimento del cuore che non traggano la loro energia e la loro consistenza da esso.

«Sancta Trinitas, unus Deus». Credo che questo debba essere il tema della nostra meditazione e il punto di richiamo, la formula di richiamo, per tutto questo tempo, fino a quando la liturgia ci riprenderà alla fine dell’estate. Questo brano della liturgia, quello dopo la Pentecoste, così lungo, è proprio il simbolo della vita, per riassumere tutti gli accenni fatti prima. Questo pezzo di liturgia è come il segno della vita, del lungo cammino della vita, come le lunghe domeniche dopo Pentecoste. Non c’è nessun periodo dell’anno più lungo di questo nella liturgia: è proprio il cammino o il mare della vita su cui navigare.

Il tema che domina, il «Dominus», è proprio questo: «Sancta Trinitas, unus Deus». Del resto, dovrà o potrà essere, questo richiamo, questo tema - collocato all’inizio dell’estate, del lungo periodo dopo la Pentecoste e aperto dalla domenica della Santissima Trinità -, anche un motivo perché abbiamo a essere vigilanti e a riprendere con consapevolezza, sempre, il segno della santa croce: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. «Sancta Trinitas, unus Deus».

L’orazione sopra le offerte del giorno della Santissima Trinità è una preghiera che mi ha colpito fin da quando ero in liceo, in seminario, e l’avevo trascritta anch’io sul mio banco. Dice: «Signore, ti preghiamo, consacra per l’invocazione del tuo nome questa oblazione sacrificale, et per eam nosmetipsos, tibi perfice munus aeternum»2, e attraverso la grazia di Cristo, per la croce e la risurrezione di Cristo, compi noi stessi, rendi noi stessi una oblazione eterna a te, una offerta («munus») “accettevole”, una offerta a te. La vita come offerta a te, «ogni giorno di mia vita»: la vita come offerta a te, la vita come il sacrificio, tutta come un sacrificio a te, sacrificio di lode. Potremmo anche dire: la vita tutta come una preghiera. Oramai sappiamo quale sia il significato, la definizione della preghiera cristiana, ciò che distingue e in un certo senso separa la preghiera cristiana da tutta la preghiera che l’uomo fa - muovendosi a tastoni col desiderio e con l’attesa che per natura ha dentro, ma senza la grazia di Cristo - secondo la pienezza che è data a chi è chiamato: la preghiera cristiana è la memoria del fatto di Cristo. Ma che cos’è la memoria del fatto di Cristo? È la rivelazione della Trinità. Cristo è lo strumento - «medium», mediatore - attraverso cui si rivela a noi la Trinità, in cui il Mistero che fa tutte le cose si rivela a noi: «Non vi chiamo più servi, vi chiamo amici, perché tutto quello che io so ve l’ho detto»3.

La liturgia del Battesimo - che abbiamo celebrata ancora ieri nella nostra comunione, anche se nella distrazione e nell’indifferenza di molti, che si guardano bene dal sacrificare il tempo per questi che sono gli unici gesti totalmente puri e capaci veramente di rinnovare la nostra fede - dice: «Questi bambini entreranno nella comunione cristiana, nella comunità della Chiesa e si rivolgeranno a Dio chiamandolo “Padre”». «Nessuno può dire a Dio “Padre” come noi», esclamava san Paolo4.

Allora, se la Trinità è il Signore della vita nostra, a cui non sfugge una parola oziosa5 o a cui non sfugge neanche un capello del nostro capo - mentre noi non sappiamo, come diceva il vangelo l’altro giorno, rendere bianco o nero un solo capello del capo6 -, se la Trinità è il Signore, il Dio, il Signore della nostra esistenza, della nostra vita, come della vita del mondo, allora veramente la nostra vita ha consistenza e significato solo come «munus», come «munus» a Lui, per Lui. «Munus aeternum», un’offerta eterna. La verità permanente, la verità reale della nostra vita è di essere posseduta da Dio, cioè, dal nostro punto di vista, è offerta, sacrificio, preghiera, esattamente come è stato supremamente dimostrato dalla coscienza di Cristo nella sua morte. L’offerta della nostra vita, il riconoscimento di essere totalmente possesso di un Altro, di essere totalmente soggetti a un Altro, non può avvenire, infatti, se non attraversando la sembianza di morte, se non attraversando la croce, attraversando l’esperienza della croce.

Sia la Trinità unico Dio, «Sancta Trinitas, unus Deus», sia, dal punto di vista della conseguenza etica, della conseguenza nel modo di concepirci e di agire, la vita come offerta, come offerta sacrificale, come l’offerta dell’altare, questi devono essere i pensieri che dominano tutti questi mesi.

Del resto, forse noi non pensiamo mai alla cosa grandiosa che è, nel nuovo canone della messa, quello che il sacerdote, all’inizio della preghiera eucaristica, dice stendendo le mani: «Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito, perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore»7. Quello che abbiamo davanti è un segno efficace. Ma di che cosa? Segno, segno efficace; “efficace”, perciò radice di quello che stiamo per dire, perché contiene Cristo. Ma quello che abbiamo davanti con le mani distese è segno di noi. Che cosa sono questi doni? Lì ci sono il pane e il vino, che devono diventare realmente corpo e sangue di Cristo; rimangono pane e vino, ma diventano corpo e sangue di Cristo; nello stesso tempo, almeno l’apparenza mantiene questa contraddizione: ma è il corpo mistico di Cristo, è la totalità di Cristo, di cui quello che abbiamo davanti nella messa è segno. E questi doni che devono essere santificati perché diventino corpo mistico di Cristo siamo noi, ognuno di noi, è la nostra vita, insomma. È la nostra vita, ogni giorno di tua vita, ogni giorno di mia vita, tutta la carne e le ossa, il cuore e lo spirito, che è corpo di Cristo e perciò offerta, sacrificio, nel senso letterale della parola, al Mistero che domina tutte le cose: «Sancta Trinitas, unus Deus».

Se non possiamo concepire la nostra persona che come memoria di Cristo, non possiamo concepire la nostra vita che come offerta. E per questo non possiamo avere coscienza della nostra esistenza che come missione. Non possiamo, sia pure tra parentesi, non ricordarci con gratitudine («Magnificat anima mea Dominum»8) la ricchezza, la pienezza, l’intensità e l’utilità - la ricchezza come pienezza, intensità e utilità - della nostra vita, fin nei suoi momenti più segreti. Non esiste un solo respiro che sfugga a questa grandezza. La coscienza di questo genera lentamente la grandezza dello spirito o magnanimità, di cui la vita ha assolutamente e soprattutto bisogno - ha, almeno, assolutamente bisogno - per potere portare il tempo e le cose. Ed è da tutto questo che viene la vera autonomia della persona, la vera consistenza in se stessi, a imitazione di Dio, che consiste di Sé.

«Santifica questi doni, perché diventino corpo e sangue di Cristo». Che cosa vuole dire «santifica questi doni»? Forse sarà chiaro quel che la parola significa introducendo la spiegazione col prefazio di domenica scorsa nel rito ambrosiano, quando dice (i prefazi dopo Pentecoste sono tra le cose più belle della liturgia ambrosiana, che la liturgia romana, posteriore, non ha saputo creare): «Tu istruisci senza posa i figli della tua Chiesa e non manchi mai di aiutarli, perché abbiano la coscienza del bene da fare e la capacità di compierlo»9. Questa è la santificazione: la coscienza di quello che siamo - possesso di Dio -, la coscienza di quello che è il nostro essere, e l’energia di vivere tale coscienza, la capacità di compiere (di compiere: «Consummatum est»10, disse Gesù prima di esalare l’ultimo respiro), che è la verità: realizzare la propria esistenza, la propria vita, secondo la coscienza chiara che si ha di quello che il nostro essere è, vuole dire essere veri, non essere menzogna. «E la verità del Signore rimane in eterno»11.
2. Lo Spirito di Cristo

«rinnova la faccia della terra»

Dice, dunque, il prefazio: «Istruisci senza posa i figli della tua Chiesa e non manchi mai di aiutarli»; cioè, istruisci dando la forza d’essere veri di fronte all’istruzione avuta, cioè di compierla. Istruisci. Ma qual è il nome del mistero di Dio che subito ci viene in mente di fronte alla parola “istruzione”? Attraverso che cosa il Mistero che fa tutte le cose istruisce gli eletti? «È meglio per voi che io me ne vada, perché se io me ne vado vi manderò il Paraclito, e allora egli svelerà [vi disvelerà] ogni cosa»12, vi farà capire ogni cosa. E, infatti, nella liturgia della Pentecoste c’è un’altra bellissima preghiera, che dice così: «Ti preghiamo, Signore, fa’ che secondo la promessa del Figlio tuo, Signore nostro Gesù Cristo, lo Spirito Santo ci riveli più apertamente il mistero di questo sacrificio [ci faccia capire il mistero di questo sacrificio, il sacrificio di Cristo morto e risorto, il sacrificio dell’Eucaristia, che è il sacrificio di Cristo morto e risorto - «fate questo in memoria di me» -, che è il segno quindi del mistero del corpo mistico di Cristo, di Cristo nel suo corpo mistico] e ci dischiuda ogni verità benignamente [perché tutte le verità sono in funzione di questo uomo nuovo che è nel mondo, di questo principio del mondo nuovo, dei cieli nuovi e della terra nuova, che è il corpo mistico di Cristo, che è Cristo che si rivela nella sua Chiesa]»13.

È lo Spirito Santo il principio della coscienza del bene da fare, il principio della coscienza nuova di sé e della vita, ciò che ci fa capire che cos’è la Trinità per noi, ciò che ci dà e che ci mette nel cuore l’energia per obbedire («facendosi obbediente fino alla morte»14, «ogni giorno di mia vita»). Ciò che ci mette l’energia nel cuore per obbedire è lo Spirito Santo. È come la Pentecoste, che genera la lunga serie delle domeniche dell’estate, simbolo della vita invasa, investita, dominata dalla Trinità.
Il Signore Gesù diceva ai suoi discepoli: «Se mi amate, custodirete i miei comandamenti. Io pregherò il Padre, ed egli vi darà un altro dono [Paraclito] che rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità, che il mondo è incapace di accogliere, perché non vi presta attenzione, né lo conosce. Voi invece lo conoscete, perché rimarrà con voi e sarà in voi. Non vi lascerò orfani: tornerò così a voi. Ancora un poco e il mondo non saprà più vedermi; voi invece mi vedrete, perché io vivo e anche voi vivrete. In quel giorno voi conoscerete che io sono nel Padre, voi in me e io in voi. Ecco chi mi ama: chi possiede i miei comandamenti e li custodisce. E chi ama me sarà amato dal Padre mio, e anch’io lo amerò e a lui manifesterò me stesso. […] Se uno mi ama, custodirà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo da lui e faremo dimora presso di lui [è il dominio che diventa l’unità dell’amore: «Non vi chiamo più servi, ma amici»; nessun cuore è così dominato, nessuna vita è così dominata dall’altro come quando questo altro è amato, come nell’amicizia: è l’unico vero dominio]. Chi non mi ama non custodisce le mie parole, e la parola che ascoltate non è mia, ma del Padre, che mi ha inviato. Vi ho insegnato queste cose stando con voi, ma il Paraclito, lo Spirito che il Padre invierà per il mio nome [il suo nome è la sua morte e risurrezione, perché “nome” vuole dire “potenza”; è la morte che gli ha acquistato il diritto, la potenza su tutto il mondo] vi istruirà su tutto quello che vi ho detto [ve lo farà capire bene, e da questo vi verrà la pace]. Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace»15.

È lo Spirito Santo. «Fratelli, a noi Dio rivela il suo mistero per mezzo dello Spirito. Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, persino la profondità di Dio. Quale uomo conosce i segreti dell’uomo, se non lo spirito umano che è in lui? Allo stesso modo, i segreti di Dio non li conosce nessuno, eccetto lo Spirito di Dio. Orbene, noi abbiamo ricevuto non lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per poter conoscere il dono che Dio ci ha elargito [qual è questo dono? Se stesso]. Di questi doni noi parliamo, non però con discorsi suggeriti da saggezza umana, ma con un discorso suggerito dallo Spirito. Chi infatti è privo dello Spirito non ne capisce le parole, perché per lui sono senza senso. Non è capace di intenderle, perché possono essere vagliate solo alla luce dello Spirito. Al contrario, chi lo possiede giudica tutto e lui non lo può giudicare nessuno [che vuole dire che è nella posizione dell’ultimo giudizio, nella posizione finale, ha il criterio ultimo]. Infatti, chi mai ha conosciuto il pensiero di Dio, così da potergli dare lezione? Noi possediamo il pensiero di Cristo»16.
Per questo diciamo: «Manda il tuo Spirito e tornerà la vita in me, manda il tuo Spirito e rinnoverai l’aspetto della mia terra»17. Io credo che questo sia il compito concreto per vivere il tema di questo lungo tempo, la coscienza dell’essere dominati dalla Trinità, «Sancta Trinitas, unus Deus», nel nome del Padre, nella potenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo (nella potenza, nel dominio). Nessuno come noi ha il gusto profondo dell’essere dominati; esso è paragonabile soltanto - ma il paragone è per difetto - alla gioia e al gusto che il bambino ha d’essere posseduto dalla madre o l’uomo e la donna d’essere posseduti l’uno dall’altra. Sono segni umani, analogie naturali, che sono ombra rispetto alla profondità della pace - è la parola che ha usato Cristo -, unico vero gusto della vita, dell’esistenza, della coscienza di sé e possibilità di gioia.
Il compito, dunque, è quello dell’invocazione dello Spirito, perché quel tema avvenga nella nostra vita di questi mesi e perché la vita di questi mesi compia quel tema, compia quel dominio, lo riconosca, lo accetti, osservi il suo comando, cioè lo imiti, imiti il suo Signore, viva come offerta a Lui, cioè rispetti i suoi comandi. E il suo comandamento è l’amore, perché «Dio è amore»18.
Credo che nulla ci possa fare affrontare questi altri mesi di lavoro - cioè di cammino e di vita - come l’accordarci, il richiamarci vicendevolmente, l’essere ognuno sicuro che anche l’altro invocherà lo Spirito Santo, invocherà lo Spirito di Cristo: «Manda il tuo Spirito, e tornerà la vita in me, rinnoverai l’aspetto della mia terra, la faccia della mia terra». Non «discorsi suggeriti dalla saggezza umana» o propositi e progetti e impegni poggiati sulla nostra volontà di vita, sulla nostra energia di azione, sul nostro gusto del lavoro, ma una coscienza che si immerge tutta nell’invocazione dello Spirito e una energia che attinge solo da questa invocazione: in questa invocazione sta l’alimento della coscienza, il chiarirsi della coscienza, e l’alimentarsi della capacità del bene, del compimento, dell’energia che compie il bene.
Stiamo bene attenti che «Sancta Trinitas, unus Deus» significa che lo Spirito è mandato da Cristo. Non isoliamo il pensiero dello Spirito Santo dal contesto dell’unico discorso. È un solo discorso: il Padre, il Figlio e lo Spirito. È lo Spirito di Cristo. Come non si può isolare Cristo dal Padre, non si può capire il Padre se non attraverso Cristo, nello Spirito suo. Ed è nel grido, nell’invocazione del suo Spirito, che comprendiamo Cristo, perché perfino Cristo io ho guardato con occhi di carne, diceva san Paolo19, con occhi carnali.
Noi mettiamo la nostra mentalità umana - e quindi riduciamo - perfino nel modo di considerare Cristo, nel modo in cui diciamo: «Ti amo», nel modo in cui ci diciamo cristiani. Noi riduciamo Cristo secondo le misure della nostra mente, saggia di saggezza umana, e riduciamo la parola di Cristo, l’ingiunzione, l’invito di Cristo, nell’ambito di ideali e di sentimenti prodotti dal nostro cuore di carne, dall’amor proprio. Dunque, viene ridotto Cristo, come modo di concepire e come modo di sentire, invece che essere la nostra coscienza convertita continuamente a Cristo, invece che essere la nostra affettività convertita continuamente a Cristo. Badate: che sia convertita a Cristo la nostra coscienza, il nostro modo di pensare, e la nostra affezione, il nostro modo di amare, vuole dire che continuamente tale coscienza e tale affezione sono portate, trasportate dove non avrebbero pensato, sono continuamente sollecitate a uscire da sé, vanno fuori di sé, sono continuamente portate dentro un terreno, dentro un territorio al di là di quello che si concepiva o che si sentiva prima. È sempre nell’ignoto che vengono introdotte, è una misura che si allarga: sono introdotte continuamente, la coscienza e l’affettività, in un orizzonte imprevisto, al di là della propria misura. Al di là: non lo si sapeva prima. Tanto è vero che spesso deve essere sconcertata la misura, è una sorpresa, è una scoperta, non derivata dal tipo di saggezza che avevamo fino a un minuto prima, non derivata come implicazione del sentimento, dell’affettività, che avevamo un minuto prima: è una cosa nuova. Per questo è mortificazione, è rottura: «Quando sarai grande, altri ti vestirà e ti porterà dove tu non avresti pensato e voluto»20. Invece che essere così convertite continuamente a Cristo, la nostra misura di coscienza e la nostra misura di affettività, continuamente noi tendiamo a ridurre Cristo alla nostra misura, tendiamo a ridurre la verità di Cristo e l’amore e la carità di Cristo alla misura del nostro modo di pensare e alla misura del nostro modo affettivo.
Questa conversione a Cristo, questo “conoscimento” di Cristo e questo amore a Cristo, questo «non sapere altro che Cristo e Cristo crocifisso»21, questo vivere che non è più un vivere noi, ma un vivere di Cristo «che è in noi, il quale è morto per me e ha dato in sacrificio se stesso per me»22, è frutto, come luce e come compimento, come coscienza e come energia di compimento, dello Spirito di Cristo in noi. È Lui che ci trasforma e «rinnova continuamente l’aspetto della nostra terra, la faccia della nostra vita».
Ricordiamoci subito anche - ma è un corollario a quel che abbiamo detto prima - che lo Spirito non è (come tutti concepiscono, almeno così come è stato tanto tempo per me, ed è continuamente tentazione ancora, e come vedo così spesso essere per gli altri, almeno come tentazione) una luce e una forza che ci renda più intelligenti nelle nostre misure: non si tratta di invocare lo Spirito come capacità maggiore di sviluppare la nostra ricerca dentro i suggerimenti d’umana saggezza, che ci renda più intelligenti, in fondo, ancora secondo le nostre misure. Invocare lo Spirito vuole dire una cosa sola: che lo Spirito ci faccia capire e compiere le dimensioni di Cristo, che ci faccia capire, comprendere le misure di Cristo, perciò la struttura del fatto di Cristo, e basta; che ci faccia capire e attuare la struttura del fatto di Cristo; che ci faccia capire e attuare il mistero del fatto di Cristo nella storia che è la Chiesa; che ci faccia capire e vivere questa struttura, e basta.
Comunque, siamo d’accordo che il compito di questi mesi è l’invocazione dello Spirito: che la Pentecoste rinnovi anche la nostra terra, che cambi tutto il nostro essere, perché solo così il nostro essere diventerà missione, come fu per Pietro e gli apostoli appena disceso lo Spirito. La missione non è altro che l’influsso sul mondo che ha il nostro cambiamento, come dice anche la nostra formula: Comunione e Liberazione. È il cambiamento che avviene che libera il mondo, e null’altro. Ma quale cambiamento? Il cambiamento che è il realizzare la struttura della Chiesa, cioè del corpo di Cristo, e basta.

Facciamo anche il proposito che in tutti i nostri raduni - e anche il raduno delle case -, tutte le volte che ci troviamo a pregare tra noi, pochi o tanti che siamo, abbiamo a ricordare questo e a vivere questo con l’invocazione dello Spirito. La frase del salmo che ho citata raggiunge certamente una punta espressiva fantastica: «Emitte Spiritum tuum et creabuntur, et renovabis faciem terrae», «manda il tuo Spirito e tornerà la vita, e rinnoverai l’aspetto della terra, la faccia della terra».


3. La consapevolezza della misericordia
C’è un’ultima cosa, o un’altra cosa, da aggiungere, ed è suggerita dalla liturgia di oggi23. Non è un particolare, anche se lo sembra. Credo che nulla ci costringa a capire quello che è Dio per noi, quello che è la Trinità per noi, il dominio assoluto della Trinità su di noi e quello che noi siamo, posseduti da essa, più di quanto stiamo per richiamare. Nella misura in cui non comprendessimo questo, in quella misura noi brancicheremmo nel buio e i nostri occhi sarebbero immersi nella nebbia, saremmo ancora un po’ smarriti, sconcertati. Perciò staremo attenti, durante la messa, alle letture. Io dico soltanto l’idea centrale. È il profeta Natan che va da Davide e gli dice: «“Quante cose ti ho dato! Ti ho dato tutto! E tu hai voluto anche la moglie di Uria, l’ittita, andando contro la mia legge”. E Davide disse a Natan: “Ho peccato contro il Signore!”. E Natan rispose a Davide: “Il Signore ha perdonato il tuo peccato: tu non morirai”»24.
Nella lettera di san Paolo ai Galati si dice: «Se io sono giustificato dalla pratica della legge [se ciò che mi salva è che io sono capace di rispettare la legge, sono un galantuomo, faccio bene, se ciò che mi salva è questo, se ciò che mi salva è la mia pratica della legge], allora non c’è più bisogno della fede in Gesù Cristo e Gesù Cristo era inutile che morisse»25. Invece è dono di Dio, è solo dono di Dio il fare la sua volontà, il compiere l’obbedienza; è solo dono di Dio, è solo dono dello Spirito. Nessuno sarà mai giustificato per la sua coerenza morale, per la sua capacità di coerenza morale, ma solo per il fatto che Egli, così come siamo - così come siamo! -, ci ha chiamato amici (dice un fariseo nel vangelo: «Se sapesse chi è questa donna che lo tocca! Non è mica un profeta costui!»26). Il supremo dono dello Spirito è riconoscere il fatto che Lui, così come sono, mi chiami amico: riconosco questo. Insomma, il supremo dono dello Spirito è capire il perdono di Dio, è capire che è un’altra forza che mi cambia, che mi muta, che mi trasforma: è la forza di Cristo e non i miei pensieri e non i miei sentimenti, perché i miei pensieri e i miei sentimenti non mi salvano mai, non mi giustificano, non sono giusti, non riescono a essere giusti.
Ora, se è l’Altro, un Altro che mi salva, che mi giustifica, questo Altro che cos’è? È il fatto di Cristo, il fatto di Cristo che mi coinvolge nella sua storia, il fatto di Cristo nella sua Chiesa. E come opera il fatto di Cristo? Misteriosamente. Perciò i tempi e i conti sembrano non tornare. È come il fermento dentro la massa, è come il seme sotto terra: non si vede come e quando, ma opera. Opera, se io lo amo, cioè se lo riconosco e lo accetto, se io vivo di questo perdono, se io vivo il perdono, se io vivo l’essere perdonato. È questa la sicurezza della vita, è questa la sicurezza che la mia vita si santificherà, che la mia vita si redime, che la mia vita è redenta, viene redenta, cioè muta.
Da una parte, questa esperienza della vita come perdono (la memoria di Lui è la memoria della sua morte e risurrezione, cioè del suo perdono, del perdono; la vita è perdono: «Della misericordia di Dio è piena la terra»27) mi protende sempre a desiderare di fare la sua volontà e, dall’altra parte, mi fa percepire continuamente ricuperato, comunque sia stato compiuto ciò che io ho compiuto. La risurrezione rompe la terribile legge dalla natura: «Ciò che è compiuto è compiuto»28, la rompe perché «rinnova la faccia della terra» e ricrea.
Per questo è una inesauribile sicurezza, e la vita è nella pace e nella continua possibilità della gioia: perché sono perdonato, perché Egli è morto per me, ha dato la sua vita per me, perché Egli è risorto e in Lui io sono risorto, perché «uno è morto per tutti e, se uno è morto per tutti, tutti dunque in lui sono morti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro»29, affinché «io che vivo non viva più per me stesso». Questo, io sono certo che sta avvenendo e che cresce - come il seme, come il lievito - col tempo, col tempo di Dio. E nella oscurità piena della umiliazione della propria continua disparità, del proprio continuo delitto, del venire meno, in questa oscurità io sono pieno di certezza, certezza di luce e certezza di bene, di compimento in questo mondo; in questo mondo come mondo di Dio, in questa vita, che è la vita di Dio in me, in questo tempo - «Nunc tempus acceptabile»30, questo è il tempo accettevole -, che è il tempo di Dio, perché lo riconosco, cioè ho fede: ho fede. Nella fede, Dio è la misericordia, nella fede si scopre come il dominatore di tutte le cose, il «Deus» - questa «Sancta Trinitas, unus Deus» - è misericordia. Il suo segno sperimentabile è Cristo in croce, morto per noi e risorto; la sua misericordia, infatti, non è un coprire, ma è un rinnovare, è un portare a galla la vita, è un convertire in bene il nostro male. E così si cresce verso «l’età della pienezza di Cristo»31.
Il frutto supremo dello Spirito è la consapevolezza della misericordia, è la coscienza di sé come perdonati e la memoria di Cristo come perdono (morto e risorto), è l’evidenza sempre più grande del perdono come rinnovamento della vita, come conversione della vita, come vita che muta. Questa è la potenza suprema che Dio dimostra nell’esistenza nostra e delle cose: il perdono. Non siamo noi che ci giustifichiamo, ma è quel fatto che riconosciamo, quel fatto tra noi che riconosciamo, e in cui solo riponiamo la speranza, da cui solo cerchiamo di trarre indici, criteri, motivi, sentimenti, ispirazione, da cui solo vogliamo che tragga il volto la nostra vita, la nostra terra. Capire questo, essere introdotti a questo, che questo sia rivelato a noi è l’opera dello Spirito. Qui è l’opera profonda dello Spirito, questo è il contenuto supremo dello Spirito. È attraverso lo Spirito, dunque, che si compie in noi l’opera della redenzione, senza possibilità di scivolare a destra o a sinistra - secondo una tentata riduzione di Cristo all’opera della nostra mente e delle nostre mani -, senza sovrapporre o confondere l’amore a Cristo con l’amore alla nostra opera. Il perdono: occorre il perdono perché, non per modo di dire, proprio il coinvolgersi della nostra energia mentale e di volontà, della nostra libertà, frena tutto, diminuisce, è delitto, viene meno, è deficienza, insomma. «Non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e donale unità e pace secondo la tua volontà»32. È lo Spirito di Cristo, che ci si comunica nella misura in cui siamo dentro il fatto di Cristo, è questo Spirito che crea il nuovo sulla terra - il nuovo in noi e quindi sulla terra -, è Lui che crea la sua Chiesa, è Lui che crea la nostra pietra. Pietra viva è la sua Chiesa.


Note
1 Cfr. Mt 10,30.
2 Orazione sopra le offerte della solennità della Santissima Trinità.
3 Cfr. Gv 15,15.
4 Cfr. Gal 4,6.
5 Cfr. Mt 12,36.
6 Cfr. Mt 5,36.
7 Preghiera eucaristica II.
8 Lc 1,46.
9 Prefazio della prima domenica dopo Pentecoste, rito ambrosiano.
10 Gv 19,30.
11 Cfr. Sal 117,2.
12 Cfr. Gv 16,7.13.
13 Orazione sopra le offerte della solennità di Pentecoste, rito ambrosiano.
14 Fil 2,8.
15 Cfr. Gv 14,15-27.
16 Cfr. 1Cor 2,10-16.
17 Cfr. Sal 104,30.
18 1Gv 4,8.
19 Cfr. 2Cor 5,16.
20 Cfr. Gv 21,18.
21 Cfr. 1Cor 2,2.
22 Cfr. Gal 2,20.
23 Undicesima domenica del tempo ordinario, anno C.
24 Cfr. 2Sam 12,7-10.13.
25 Cfr. Gal 2,21.
26 Cfr. Lc 7,36-39.
27 Cfr. Sal 33,5.
28 O.V. Milosz, Miguel Mañara, Jaca Book, Milano 2001, p. 36.
29 Cfr. 2Cor 5,14-15.
30 2Cor 6,2.
31 Cfr. Ef 4,13.

32 Orazione della messa dopo il Padre nostro.