Nella profondità delle cose

Pagina Uno
Luigi Giussani

Appunti da una conversazione di Luigi Giussani al ritiro d’Ascensione dei Memores Domini. Riva del Garda, pomeriggio del 16 maggio 1992

Il mistero di Cristo risorto, il fatto della Risurrezione di Cristo, si compie, cioè si definisce, definisce se stesso, in due altri momenti, in due altri avvenimenti, che sono conseguenza diretta dell’avvenimento originale e principale, che è, appunto, lo scuotersi dalla morte di quell’uomo che, come abbiamo detto stamattina, ha incominciato, da allora, un’esperienza diversa da quella naturale, che viveva prima. Non perché abbia eliminato qualcosa di ciò che apparteneva alla sua vita d’uomo, ma perché un altro punto di vista, un’altra partenza, un altro sguardo, un altro modo di possedere, un altro scopo determinò il suo rapporto con le cose in genere; più precisamente, col tempo e con lo spazio e col destino inerente a ogni cosa. Col destino inerente a ogni cosa e col tempo e con lo spazio: vale a dire, un altro modo di concepire e di vivere l’esperienza dei rapporti suoi con l’essere, secondo tutta la sua espressività.

I - Il primo momento che s’aggiunge alla Risurrezione di Cristo come chiarificazione di essa, come compimento - passo di compimento, anzi, come compimento nel senso totale del termine -, è il mistero dell’Ascensione al cielo.
Preghiamo il Signore che ci faccia entrare nel vivo del senso di ciò che abbiamo detto stamattina, perché altrimenti ogni processo ulteriore sarà più confusionale e oscurerà di più, invece che illuminare di più.
Il cielo, abbiamo detto stamattina, l’esperienza «celeste» - diceva il testo che abbiamo letto -, il cielo è la profondità della terra. Il cielo è il significato profondo, è la verità dell’aldiqua, è l’origine dell’aldiqua, l’origine dell’esistere, dell’essere, dell’esistenza, della consistenza del cammino e del destino dell’aldiqua. Quello che noi vediamo è la superficie delle cose, è l’apparenza. Quello che noi vediamo è l’apparenza: la verità dell’apparenza trapassa, deborda dai confini di essa, ci fa - ma questi sono tutti paragoni - scendere, ci fa discendere, ci fa scendere, nella sua profondità, fino a toccare, là dove c’è la misteriosa origine di tutte le cose che ci appaiono, delle cose come ci appaiono, e dove s’attesta il destino di tutte le cose, sia come movimento sperimentabile, sia come fine in cui si definisca il loro senso, il loro senso eterno, ciò per cui sono state create, consistono e sussistono.
Come abbiamo meditato tante altre volte (e forse sarà opportuno che andiate a riprendere gli appunti di queste altre volte), il mistero dell’Ascensione afferma che Cristo, risorto da morte, ha dal Padre ricevuto il termine della grande promessa, l’inizio dell’eredità eterna, l’eredità per cui è stato fatto morire: «Re dell’universo»2 sarà chiamato. Re dell’universo, padrone di tutto; padrone, Signore, Re dell’universo - «Tutti i popoli della terra ti lodino»3 -, il Signore della storia.
Re dell’universo, Signore della storia. Che cosa vogliono dire queste frasi, queste parole, se non che Cristo è già entrato in quella posizione definitiva per cui riprende il possesso originale delle cose, il possesso delle cose secondo il destino Suo originale - perché tutte le cose di Lui consistono -? E questo Suo possesso, questo possesso che Egli riprende di tutto l’universo, di tutta la realtà, come di tutta la storia, è destinato a palesarsi, a manifestarsi, secondo i ritmi di un disegno, che è il disegno del mistero del Padre.
Questo suo entrare in possesso delle cose, nella sua definitività eterna, è nel giorno della Ascensione al cielo che viene annunciato, che diventa contenuto del messaggio che, da quell’istante, viene dato a tutto il mondo, penetrando tutta la sua storia. Cristo è là, nella sua situazione di Signore di tutte le cose, le possiede dalla radice, attendendo, secondo il disegno della volontà del Padre, che questo si manifesti, secondo un filo, un cammino, un flusso, un alveo portante, cui gli uomini della storia, ai quali è dato l’occhio della fede, che sono stati chiamati a Lui, portano attenzione, nella sorpresa improvvisa d’accorgersi di quanta grazia è fatto il tempo ormai, anche là dove sembra che la crocifissione ancora domini e l’esclusione che lo colloca nella tomba sembra ancora essere invincibile. Oramai Egli è vittorioso sulla morte e, perciò, su tutte le forze che conducono alla morte, su tutte le forze della realtà che non riconoscono Lui come Signore.
«Tu che hai dato loro [agli apostoli] la multiforme ricchezza della sapienza eterna»4. La multiforme ricchezza della sapienza eterna: la sapienza eterna, che Egli comunica a coloro che ha scelti, che il Padre gli ha dato nelle mani, ai chiamati, questa sapienza eterna è una ricchezza multiforme, perché riguarda ogni creatura: il sasso e il filo d’erba e il fiore del campo e l’uccellino che cade e il bambino che si stringe al seno, come nel Vangelo è esemplificato. Ecco, lui, Cristo, morto e risorto, è il padrone e il signore di questa sapienza eterna di multiforme ricchezza; ricchezza tanto multiforme quanto è multiforme il volto di ciò che c’è. Ogni cosa possiede, perché il Padre gli ha dato tutto nelle mani: «Tu mi hai dato il potere su ogni carne, su ogni uomo»5 - ogni uomo! -.
Egli comunica questa padronanza su tutte le cose a coloro che ha chiamati, che ha scelti, che gli dicono di sì, che lo seguono; comunica questa sapienza eterna, secondo una multiforme ricchezza, che si sviluppa identificandosi con le circostanze che si susseguono, con le presenze che si moltiplicano. Così, chi lo segue sente affondare se stesso dentro il mistero della Sua signoria, della Sua regalità su tutte le cose, del Suo potere su tutte le cose, si sente realmente affondare nel Suo mistero. E col tempo che passa, con gli anni che passano, seguendoLo, la multiforme ricchezza di questa sapienza diventa gusto più ricco, più attento, più discreto e più fecondo del vivere.
Dunque, il mistero dell’Ascensione compie il mistero della Risurrezione, lo amplifica e lo dilata per tutta la realtà, per tutti i tempi, per tutta la storia, per l’eternità: Re dell’universo, Signore della storia. La ricchezza multiforme che questo possesso implica viene comunicata, nelle circostanze che la fedeltà vive, a chi lo segue, a chi è chiamato: «Tu che hai dato a coloro che hai chiamato la multiforme ricchezza della sapienza eterna», tu che sei il Re dell’universo, dice la liturgia. O, ancora, parla della «patria eterna», quella in cui risiede Cristo6. La patria eterna: la realtà è diventata la sua casa, la sua dimora, dove Egli sta in quel nascondimento che si rivela lentamente, nei tempi che il Padre decide, aspettando il giorno della gloria finale, quando tutti diranno: «Sì, siamo suoi», ed Egli giudicherà, vale a dire indicherà in ogni essere la misura del suo possesso; e, se l’essere è cosciente e libero, questo giudizio misurerà la risposta, il riconoscimento, che questa coscienza gli avrà dato.
La nostra umanità - dice la liturgia - è «innalzata». «Il nostro spirito si innalzi alla [tua] gioia nel cielo»7. Innalzare: alto e profondo, abbiamo sempre detto, è uguale; è il luogo per cui siamo fatti, il luogo misterioso per cui siamo fatti. Ma non è un altro luogo da questo in cui siamo, è la profondità, è il cielo di questo. È la profondità. Gli antichi avevano più facile e più piacevole la metafora del cielo, noi moderni abbiamo forse più intensamente apprezzabile la metafora del profondo, della radice: destino e radice, dove è il riposo dentro il vero, cioè dove è la pace fervida e feconda che genera di istante in istante l’eterno. Ma, parlando di pace fervida e feconda, soltanto analogicamente, o fantasiosamente, si pensa all’eterno come qualcosa che viene generato di istante in istante: è questa vita che viene generata nella pace fervida e feconda, il riposo nel vero incomincia dalla nostra sequela in questa vita! Patria eterna, umanità innalzata, spirito che si innalzi alla gioia: questa è la partecipazione al mistero di Cristo risorto, asceso al cielo, che già siede alla destra del Padre, che è già al suo posto, ormai non ha più da conquistare nulla. Egli è ciò che è stato destinato ad essere dall’eternità: Verbo, fatto carne, erede di tutta l’eredità del Padre, di tutto l’essere, di tutta la realtà.

II - Ma chi può far capire queste cose? Chi può non lasciare queste parole come erranti ai bordi della nostra coscienza? Chi può non farci ripetere queste parole, ma farcele dire come espressione di un’esperienza iniziale, incoativa, ma già reale di eternità? Chi ci può rendere compartecipi di questo possesso che Cristo ha dell’universo intero? Chi ci può fare partecipi della sua regalità sul tempo e sullo spazio, della sua signoria sulla storia? Chi può farci capire queste parole, incominciare a farci penetrare queste parole? Chi ci può «immergere nel Mistero», chi ci può far immergere nel mistero definitivo che è quello dell’Ascensione (il mistero definitivo è l’Ascensione di Cristo: l’umanità ha incominciato a prendere possesso della sua eterna signoria sul mondo nella umanità di Cristo; non si può immaginare nulla, ma si può incominciare a comprendere; si può, se non vedere, incominciare a intravedere)? È lo Spirito di Cristo, è lo Spirito del Verbo fatto carne, risorto da morte e salito al cielo.
«È meglio per voi che io me ne vada, perché se io vado vi manderò lo Spirito, il mio Spirito, che prenderà tutto da me e ve lo farà capire»8. Ciò che ci può far introdurre al Mistero è lo Spirito di Cristo. Per questo la Pentecoste è il giorno che compie la Pasqua, il tempo pasquale.
Risurrezione di Cristo; Ascensione di Cristo al cielo: lo stabilizzarsi nel suo possesso eterno di Cristo, a cui chiama a partecipare noi, inizio perciò del nostro. È il suo Spirito che, incominciando a dominare la nostra vita, se la nostra libertà apre le braccia e dice: «Vieni!», la plasma secondo la forma che avrà per sempre. Incominciamo così a giudicare, a percepire, a sentire, a guardare, ad abbracciare, ad amare, a usare, a creare secondo la Sua verità, quella verità che senza di Lui non esisterebbe in nessun nostro rapporto, e noi lasceremmo cadere tutto.
Spirito generatore, «Veni creator Spiritus», Spirito creatore, cioè Spirito generatore. La forma nuova della nostra vita, di noi che riconosciamo Cristo risorto, perciò una esperienza diversa, incomincia ad attecchire in noi: una intelligenza diversa, una affezione diversa, una capacità di uso, un lavoro diverso. Questa forma diversa in noi è lo Spirito di Cristo che la plasma. Lo Spirito di Cristo: l’energia con cui Cristo “prende”, secondo una lentezza ai nostri occhi, una pazienza al nostro cuore, secondo la misura con cui il Padre - per il quale «mille anni sono come un solo giorno»9 - segna il passo dell’evoluzione delle cose. Lo Spirito Santo è generatore della forma nuova in noi, che emerge, si afferma, si documenta, diventa contenuto sensibile della nostra esperienza, diventa testimonianza agli altri, secondo la volontà e il disegno del Padre: ma essa è prodotta da questa energia con cui Cristo domina il tempo e lo spazio e che è il suo Spirito di risorto.
«Se io non me ne vado, non vi posso mandare questo Spirito». Deve compiersi tutto, allora questo attore travolgente della realtà, questo determinante il destino di tutta la storia e di tutto il cosmo, entra in azione, incominciando da coloro che il Padre ha dato nelle mani del Figlio: i chiamati, i vocati, gli eletti, gli scelti, cioè noi.
Dobbiamo leggere l’ottavo capitolo della Lettera ai Romani, ed anche il primo e secondo capitolo della prima Lettera ai Corinzi. Dobbiamo rileggere queste cose, rileggerle un’infinità di volte. Sono i due più grandi inni allo Spirito di Cristo, Spirito creatore, che cambia la nostra vita, come cambia la vita del mondo: attraverso il cambiamento della nostra vita, cambia la vita del mondo. Guida la nostra vita e conduce la vita del mondo. Guida la nostra vita senza farsi accorgere, guida la storia del mondo senza farsi accorgere. Ma in noi pulsa qualcosa per cui Egli diventa principio d’esperienza sensibile, principio di un sentimento nuovo dell’essere. «Fa’ che tutta la nostra vita diventi [attraverso il tuo influsso] testimonianza al Signore risorto»10. Per essere testimonianza al Signore risorto, deve essere plasmata secondo il punto di vista del Risorto, secondo quella verità di rapporto di cui abbiamo parlato stamattina.
È lo Spirito che può spingere i nostri rapporti, purificandoli nel sacrificio, nella croce, perché siano più veri. Noi, «nati a nuova vita nelle acque del Battesimo e animati dall’unica fede, abbiamo ad esprimere nelle opere l’unico amore»11, «perché dalle gioie e dai travagli della terra possiamo elevarci al desiderio di te»12. È lo Spirito che rende possibile questo.
«Concedi a noi di essere rinnovati nel tuo Spirito, per rinascere nella luce del Signore risorto»13. «Fa’ che, secondo la promessa, sentiamo la sua presenza in mezzo a noi, sino alla fine dei tempi»14. «Donaci la serena fiducia che tutto il corpo della Chiesa si unirà a Cristo suo capo nella gloria»15. È la percezione sempre più acuta di Cristo risorto e del suo Mistero, ed è il coagularsi sempre più imponente della nostra unità, dell’unità di tutti coloro che sono chiamati a testimonianza sua nel mondo, a testimonianza nel mondo di Cristo risorto.
«Immersi nel grande Mistero»16, Cristo risorto, luce del mondo: il vero della realtà appare a coloro che si pongono di fronte alla provocazione e al messaggio con quella intelligenza positiva, con quella intelligenza povera, pronta all’affermazione affettuosa del reale, in cui consiste il terreno su cui s’esalta la fede. Ma l’Ascensione compie questo Mistero: «Immersi nel grande Mistero». Non si può parlare di Cristo risorto senza parlare di Cristo risorto e asceso al cielo: è risorto ed è nel suo posto definitivo. Il suo compito è terminato, vale a dire, inizia la sua signoria, inizia lo splendore della sua eredità. Egli sta alla radice di tutte le cose, pronto a dimostrare il suo possesso di ogni cosa, come avverrà alla fine del mondo, ma come già appare lungo il cammino a chi, nella fedeltà, scelto, gli crede. E questa fertilità dell’animo, questa fecondità del cuore che consegue la visione nuova, è lo Spirito di Cristo, è il dono della Pentecoste, il dono per eccellenza. Perché, se il dono di Dio all’uomo è il Verbo fatto carne, è attraverso il suo Spirito, lo Spirito di questo uomo fatto carne e risorto dai morti, è attraverso lo Spirito di questo uomo risorto dai morti, che questo uomo risorto dai morti viene riconosciuto, capito, abbracciato, seguito, imitato. E il Padre, così, è glorificato.
Risurrezione (Pasqua), Ascensione, Pentecoste: un solo grande Mistero. «Immersi nel grande Mistero».

III - Con un po’ di pazienza, vogliamo ora soffermarci sulla modalità con cui agisce Cristo risorto, con cui Cristo asceso al cielo - e perciò già in possesso della nostra vita e del nostro essere come di tutto il mondo - sviluppa, attraverso l’energia del suo Spirito, questo possesso di noi e ci cambia, ci provoca e ci cambia, ci plasma in modo diverso, ci spinge a diventare simili a sé, cioè a vedere le cose nella sua verità, nella verità in cui le vede lui, perché abbiamo a costruire insieme il suo corpo, il suo corpo totale, che nel tempo si edifica attraverso l’apporto di ciascuno di noi.
Questo brano del diario di Kierkegaard - che ho letto agli Esercizi della Fraternità17 - mi sembra opportuno che lo abbiamo a ricordare anche noi adesso: «L’unico rapporto etico [cioè morale] che si può avere con la grandezza [cioè con Cristo] è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico [emotivo]: la sua vita passata ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita [di ora], mi permette di ammirarlo e mi lascia anche vivere però in tutt’altre categorie: non mi costringe a cambiare in senso decisivo»18. Il passato non agisce sul presente: è un presente soltanto che agisce sul presente.
Ora, questa contemporaneità di Cristo risorto, di Cristo asceso al cielo, dello Spirito che ne è disceso, questa contemporaneità come s’avvera? Come siamo contemporanei a Cristo che risorge, a Cristo che ascende al cielo, allo Spirito che ne discende per investire i chiamati?
Mi è stato dato stamattina questo brano di Seneca - di Seneca, eh! -: «Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso»19 (come il genio, figlio del mistero del Padre, è vicino alla profezia!). «Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso». Per un altro: e come identificare quest’altro? Lo puoi scegliere tu, lo scegli tu, ma allora scegli te stesso, te stessa! O lo scegli tu - e allora scegli te stesso; allora è un’apparenza soltanto - oppure ti si impone. Ti si impone: allora è schiavitù, perdi te stesso! Vivi per un altro in modo tale da vivere veramente per te stesso, se questo altro è tramite al destino tuo. Se questo altro è tramite, è legame al destino tuo, se questo altro è in funzione del destino tuo, allora, vivendo per questo altro, vivi per te stesso. Ma il destino nostro è Uno, lo sappiamo - almeno la parola la sappiamo molto bene e non possiamo sostituirla: possiamo dirla solo col fiato e col respiro, possiamo non amarla, ma non possiamo più sostituirla -: è Cristo. Il Mistero si è comunicato all’uomo attraverso una realtà umana che si chiama Cristo. Perciò devi vivere per Cristo, se vuoi vivere per te stesso!
Ma la legge del Mistero, abbiamo visto, trapassa questo suo primo e decisivo formularsi. La legge del Mistero si formula attraverso una realtà umana che si chiama Cristo (Cristo risorto, asceso al cielo, che manda il suo Spirito). La legge del Mistero trapassa questo suo primo e decisivo formularsi. Cristo, infatti, per compiere l’opera sua, quella fissata dal Padre, secondo il disegno del Padre, utilizza lo stesso metodo che il mistero del Padre ha scelto per comunicarsi all’uomo e al mondo. Il mistero del Padre ha scelto, per comunicarsi all’uomo e al mondo, di rendersi presente attraverso una realtà integralmente umana: appunto, Cristo. Cristo sceglie lo stesso metodo: si rende presente, contemporaneo, attraverso una realtà umana, integralmente umana, fatta perciò di uomini e di tutto ciò che agli uomini interessa, cioè fatta di tutto: si chiama Chiesa. Una piccola compagnia di uomini duemila anni fa, una grande compagnia di uomini ora, ma precisa nei suoi confini.
Precisa nei suoi confini: «Tutti voi che siete stati battezzati vi siete immedesimati con Cristo. Non esiste più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete una persona sola in Cristo [una persona sola che si chiama Cristo]»20.
Piccola o grande compagnia di uomini, precisa nei suoi confini. Il Mistero, il destino si comunica all’uomo attraverso una carne, attraverso una realtà di tempo e di spazio, secondo una modalità fisica delle cose, secondo circostanze precise, che delle circostanze naturali mantengono tutta la fragilità e l’apparente futilità, come, per gli occhi dei farisei, erano Cristo, la sua famiglia, quel che faceva, quel che diceva. Si chiama fede il riconoscere questo metodo, perché si tratta dell’intelligenza dell’uomo che riconosce, nell’apparenza determinata, una presenza grande. Nell’apparenza determinata naturalmente si tratta di riconoscere la grande presenza dell’origine, della consistenza ultima («Tutto in Lui consiste»21), del destino.
Ma non è compiuta l’osservazione. «Il memoriale della Pasqua - dice la liturgia - ci edifichi sempre nel vincolo della tua carità»22. Ci edifichi: renda l’uno pietra vicina all’altra per una costruzione, per un tempio, perché le vite nostre diventino il grande tempio dov’è la gloria di Cristo e, attraverso Lui, la gloria del Padre, dove lo Spirito fa risuonare la sua voce e irradia la sua luce. «Il memoriale della Pasqua ci edifichi sempre nel vincolo della tua carità». Questo indica, in modo interessante, il movimento che avviene.
C’è però una analogia, senza della quale tutto quello che abbiamo detto fino ad adesso resta astratto, perfino quanto abbiamo detto della Chiesa resta astratto. Abbiamo, infatti, sottolineato che il Mistero si comunica all’uomo attraverso una carne, attraverso una realtà di tempo e di spazio, secondo una modalità fisica delle cose, secondo circostanze precise, che stringono da vicino la persona. Se non diventa circostanza precisa vicina a me, il grande mistero della Chiesa rimane vano e alla mercé della mia interpretazione, del mio sentimento, del mio capriccio, dell’affermazione di me. E, allora, non vivi per un altro in modo tale da vivere per te stesso: vivi per te stesso e così non vivi veramente.
Se nell’apparenza determinata naturalmente da queste circostanze fisiche, da queste circostanze precise, che delle circostanze naturali mantengono la fragilità e l’apparente futilità e l’apparente equivoco; se quest’apparenza noi non viviamo nello spirito della fede, se lo spirito di fede non ci fa vivere questa apparenza determinata naturalmente, accanto a noi; se la Chiesa non diventa la compagnia accanto a noi (quante volte l’abbiamo dovuto ripetere, siamo insieme perché l’abbiamo ripetuto; non è vero che moltissimi fra noi lo prendono sul serio: anzi, mi stupisco, si può incontrare anche gente intelligente che non capisce), se il mistero della Chiesa non si identifica con circostanze precise, secondo un’analogia che continua l’analogia che Cristo ha usato per prolungare il metodo del Padre… Cristo ha “copiato” l’analogia, ha prolungato, analogicamente, il metodo del Padre, il metodo con cui aveva scelto Lui; e allora Lui scelse una umanità per continuare nel mondo, per testimoniare nel mondo il suo possesso del mondo, la sua ascensione al cielo; scelse una umanità: è la Chiesa nei suoi confini veri, ultimi. Ma se essa non vive, non sussiste, non determina, se essa non diventa il motivo per cui agisci, il criterio con cui giudichi, la ragione della tua affezione, la sorgente della tua affezione, il destino del tuo sacrificio, in una compagnia, nella compagnia in cui questa Chiesa diventa vicina a te, attraverso il passaggio vocazionale, attraverso il passaggio di una destinazione fissata da Cristo attraverso tante cose successe nella tua vita; se la Chiesa non diventa questa compagnia che ti stringe da vicino le ore e i giorni, per la quale tu devi morire, come Cristo è morto per la sua Chiesa, nella quale imparare il vero, attraverso i criteri della quale imparare il vero, seguendo la quale percorrere la tua via; se tu non impari questo, ti illudi, dai scandalo agli altri e, soprattutto, un grande scandalo a te, che pagherai.
È, cioè, nella compagnia vocazionale che termina, dinamicamente ed energicamente, la provocazione che Cristo risorto dà alla tua vita perché essa sia vera, che Cristo asceso al cielo dà alla tua vita, attraverso l’invasione del suo Spirito, perché la tua vita sia santa, aderente al destino, santa. La compagnia vocazionale: la compagnia vocazionale, lo sappiamo bene, è quella che sussiste, che emerge sensibilmente come circostanza precisa in quella compagnia vocazionale che ti è toccata in sorte, cioè per volontà di Dio, per volontà di Cristo; e sussiste, più precisamente, nella compagnia della casa. Perché se non va a terminare lì, se non termina a questo punto, non inizia mai il cambiamento che ti salva. La verità che ti illumina e l’amore che ti rende fecondo non iniziano mai.
La casa. «In questo luogo - dice un cartello che padre Manuel ha messo all’inizio della scala della sua casa - niente è contro di noi, neanche noi stessi». La casa è il luogo dove tutto è per il tuo destino, è l’«altro», vivendo per il quale tu vai, cammini, verso il tuo destino, nonostante te stesso: neanche tu sei contro di te, perché anche il tuo male, il tuo peccato - la parola più dolorosa - diventa dolore, è urtato, è provocato, tanto da diventar dolore e da non definirti più; non sei più definito dal tuo male, dal tuo peccato. «In questo luogo niente è contro di noi, neanche noi stessi», tutto è per noi, persone e cose. «Neanche noi stessi», perciò neanche il nostro peccato ci è contro. Ma allora è un luogo eminentemente di “connivenza” col destino tuo. “Connivenza”: coscienza del destino tuo “con” te e volontà del destino tuo “con” te e aiuto al destino tuo, dato a te.
«Ecco il luogo dove novizi si diventa - diceva Péguy -, e questa vecchia testa e i suoi barlumi e le braccia indurite dai governi [dai modi di fare imposti, attraverso il nostro istinto e le nostre scelte, dalla mentalità comune], il solo luogo dove tutto è complice [connivente, dove tutto diventa carità; anche le cose inanimate sono fatte diventare carità dall’uso che la tua coscienza ne fa con le tue mani, con i tuoi occhi, col suo servizio]»23. «Ecco il luogo dove novizi si diventa, il solo luogo dove tutto è complice», connivente col tuo destino.

IV - Ricordiamo le cose più necessarie perché questa vita della casa sia complice al nostro destino, perché in essa tutto diventi complice per il nostro destino.
Un ragazzo di diciassette anni mi scriveva: «Voglio andare in fondo a questa vita, cioè voglio andare in fondo ad ogni cosa che faccio. Voglio sapere le ragioni. Questa settimana non c’è stata neanche la Scuola di comunità, che per me è l’unico punto di confronto, perché non mi basta fare [non mi basta la regola nel senso organizzativo del termine; in casa sono impeccabile: ma il mio cuore è lontano come agli antipodi, anche se questo fare è bello, perché lascia un ordine, crea un ordine, serve ad un ordine], non mi basta questo fare». La coscienza dei motivi, la coscienza dei valori, la coscienza della verità in gioco: questa è la prima condizione per vivere una casa, perché la casa sia il luogo dove nulla è contro di noi, neanche noi stessi. La coscienza dei motivi, delle ragioni, la presa di coscienza della verità della mia vita lì. «Altrimenti, se non mi rendo conto di questo è meglio che me ne vada. Forse un’altra situazione...». No, ti dico che non un’altra situazione ti permetterebbe di capire; un’altra situazione ti farebbe fuggire.
Dobbiamo stare attenti - come ho avvertito anche i più grandi della Fraternità - a tre grandi obiezioni a che si sviluppi questa coscienza del vero nella casa e a che si sviluppi l’edificarsi nella carità. La carità tra di noi, vale a dire questa complicità che diventa aiuto a camminare verso il destino, può essere impedita soprattutto da tre cose, da tre atteggiamenti.
Il primo io lo chiamo la trascuranza dell’io. La trascuranza dell’io, quell’io per cui quando dici «tu» dici «mio», perché non dici nulla di serio se non dicendo: questo è in rapporto al mio destino, perciò è «mio». «L’uomo non può espellere dalla propria coscienza la parola “mio”» - perché ad essa è legato il suo destino -; quando dici «tu» ad una persona o ad una cosa, analogicamente dici «mio»: è rapporto col destino. La trascuratezza dell’io si identifica con la trascuratezza del pensiero del tuo destino, allora l’altro, il “tu” dato all’altro o dato alla cosa, o ti fa schiavo di essa, superficiale con essa, o ti spinge a fare il padrone di essa. «L’uomo non può espellere dalla propria coscienza la parola “mio”. Ed è questa la parola che cancella la solitudine [mentre la trascuratezza dell’io fa invadere di solitudine la nostra vita]». Sono parole di papa Giovanni Paolo II, nel suo Raggi di paternità24.
Il secondo ostacolo è l’affermazione dell’io, l’affermazione accanita della propria individualità, l’affermazione personalistica di sé. «Chi è centrato sulla propria coscienza, su di sé, sulla propria bontà o intelligenza, sull’ansia o persuasione di aver ragione, finisce per non percepire più la realtà nella sua complessità [cioè nella sua verità: tutti i fattori in gioco], nella sua inesauribile alterità [nella sua inesauribile alterità, perché c’è un punto di fuga nella realtà in cui Dio ti ha messo, il punto di fuga che è il rapporto con Sé: almeno questo ti sfugge]. Così l’unico entusiasmo che si può provare nella vita è quello di aver ragione o di fare quello che si vuole; non certo la sorpresa per quello che accade, per la realtà che parla alla persona [per l’emergenza di una novità che ti provoca]. Lo spiega lucidamente san Tommaso d’Aquino laddove, nella Summa theologica afferma che “i superbi, mentre si dilettano della propria eccellenza [cioè di aver ragione o di sentir giusto], hanno fastidio dell’eccellenza della verità”. Il segno più grande è il disagio e l’ira, e l’estraneità almeno, di fronte all’autorità». È uno psicologo che scrive questo.
Il terzo ostacolo a che tutto sia complice in casa per il nostro destino può essere descritto da questa pagina di Péguy: «Le persone oneste [loro sì che non fanno come fanno gli altri; ma qualunque accenno: “Io non faccio come fanno gli altri” è da fariseo] non presentano quella apertura prodotta da una spaventosa ferita [sono chiuse], da una indimenticabile miseria, da un invincibile rimpianto, da un punto di sutura eternamente mal legato, da una mortale inquietitudine, da una invisibile e recondita ansietà, da una segreta amarezza, da un precipitare perpetuamente mascherato, da una cicatrice eternamente mal rimarginata. Non presentano [cioè] quella apertura alla grazia che è essenzialmente il peccato... La morale [la nostra giustizia] ci fa proprietari delle nostre povere virtù. La grazia ci dà una famiglia e una razza [una famiglia e una compagnia]. La grazia ci fa figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo [nella vocazione che ci è data]»25.

V - Un brano della liturgia dice questo: «O Dio, fa’ che portiamo frutti di vita eterna per la salvezza del mondo, poiché ci concedi la gioia di essere una cosa sola in Cristo Signore»26. La fecondità dello Spirito, il miracolo della Pentecoste, è l’unità tra i credenti in Cristo, è la coscienza della loro unità, è il riconoscimento di una unità inseparabile. Ed è attraverso la testimonianza di questa unità che il mondo si può convertire (come si dice in Tracce d’esperienza cristiana, appendice prima)27.
«Fa’ che portiamo frutti di vita eterna per la salvezza del mondo, poiché ci concedi la gioia di essere una cosa sola in Cristo Signore». Noi rendiamo testimonianza per una cosa sola: l’essere una cosa sola, che siamo una cosa sola.
Ora, tutto quello che ci è stato dato - l’immersione nel Mistero, la grazia di conoscere il mistero di Cristo risorto e asceso al cielo, la grazia dello Spirito - è perché noi, attraverso l’unità tra di noi, diventiamo salvezza per il mondo. E, infatti, la Pentecoste è la festa della missione. Per il mondo, propter nos homines, per noi uomini, Egli ha patito ed è morto in croce. Per tutti gli uomini noi patiamo, saliamo sulla croce della nostra unità, della carità fraterna; della carità fraterna dove il “tu” è prezioso come la parola “Cristo” ed è prezioso come la parola “Dio”. È attraverso l’unità tra di noi che possiamo essere testimonianza al mondo. Una qualsiasi rottura tra noi scandalizza il mondo.
La salvezza del mondo: il nostro compito è quello di sfidare l’umanità presente con l’immagine di un’altra umanità. Questa sfida avviene cominciando già noi questa umanità nuova, nei termini della vocazione data. Una umanità nuova nei termini della vocazione data consta, consiste della unità tra di noi, vedendo la quale il mondo si converte. È falso che si convertano al di fuori dell’esperienza di questa visione di unità tra di noi. È falso. Ti illudi, se dici: «Mi seguono». Ah sì, seguono te, avulso o avulsa da tutto: non vanno a Cristo! Vanno a Cristo quando si imbattono nella tua capacità di unità, formulata secondo le circostanze in cui Dio ti ha messo. Se ti sorprendono a parlar male di coloro con cui vivi, non ti credono più, anche se ti fossero sempre alle costole.
«O Dio, fa’ che portiamo frutti di vita eterna per la salvezza del mondo, poiché ci concedi la gioia di essere una cosa sola in Cristo Signore»; io ringrazio molto chi mi ha dato questo brano che non ricordo d’aver mai letto. Noi dobbiamo creare una umanità nuova. L’umanità nuova incomincia, già incomincia, ecco, già fiorisce nella nostra compagnia ristretta, nella nostra casa. Togliamo ogni obiezione, così che i sintomi di questa unità siano ben palesi come la liturgia di questi tempi, la liturgia pasquale, ci invita a meditare.
Due sono le caratteristiche principali di questa unità tra i cristiani, due sono le caratteristiche della vita del singolo, come diceva Seneca: «Devi vivere per un altro, se vuoi vivere per te stesso»; due sono le caratteristiche che, vivendo l’unità con chi Dio - Dio, non tu li hai scelti, ma Dio - ha scelto per te, qualificano la tua vita.
Prima di tutto, la gioia. È questa parola che sottende tutto quanto il discorso di questo tempo liturgico. Decine e decine e decine di volte - se voi leggete la liturgia dopo Pasqua, dell’Ascensione e di Pentecoste -, cento volte c’è la parola “gioia”, la parola “letizia”, «perenne letizia». È la cosa che più si vede, meglio, è la cosa che più si intravede. Anche in un’ira, anche in un momento di mestizia, di malinconia, anche in un momento di errore, anche nel peccato, urge alla porta, bussa alla porta il Cristo della gioia, il Cristo della letizia perenne, la letizia incombente sul nostro cuore. La gioia. Non ci può essere fecondità, creatività, edificazione, e quindi non ci può essere neanche una dilatazione della nostra unità, della nostra amicizia, se non nella gioia. È solo nella gioia che si crea. E infatti lo Spirito è lo Spirito della gioia. Da questo viene la perenne letizia che si chiama pace.
La seconda caratteristica della personalità che fa per l’altro, e quindi fa per se stesso, per il suo destino, che dice «mio» dicendo «tu» a chiunque e a qualunque cosa, è la libertà. Ricordiamo che la libertà non è “da”, ma è “per”. La libertà fa aderire, è un legame. Tanto più uno è ricco di libertà, quanto più ha legami che lo arricchiscono. È la adesione, è l’affezione.
Forse una punta sintomatica di questa libertà (non sempre tenuta presente, anzi, quasi mai tenuta presente) possiamo intitolarla “discrezione”. Quando uno veramente ama con libertà, si lega con libertà a un altro, dicendo «tu», lo dice con una venerazione, con un metro - o mezzo metro o un decimetro - di distacco, che è proprio della verginità: il possesso con un distacco dentro. La parola “discrezione” dà espressione a questa distanza, che fa vedere e abbracciare la totalità dell’altro fin nel suo destino, che è il mio, e perciò mi fa affermare l’unità con l’altro esaurientemente; quanto più uno ama l’altro, quanto più lo venera, tanto più è discreto. La discrezione è l’atteggiamento che si deve assumere verso una libertà: ma è l’opera della libertà mia che mi rende discreto verso la libertà dell’altro.
Parte di questa discrezione è l’ordine dei tempi e delle cose comuni. L’ordine dei tempi e delle cose comuni è parte della discrezione, è generato dalla discrezione. La capacità di essere taciti, vale a dire sommessi, vale a dire il clima di silenzio - clima, non silenzio -, il clima di silenzio segnala uno spazio dove il «tu» è una presenza sentita, per cui non grido per mio conto, non faccio per mio conto nulla. E quel che debbo fare lo faccio con soavità e con attenzione, discrezione, ordine. Capacità di essere taciti, prontezza nell’intervenire, prontezza nel servire: questo è proprio come la calce che lega insieme, il cemento che lega insieme due mattoni, due pietre, e più pietre.
Cosa mi direste se foste in una casa dove una persona, avendo ritardato, si sentisse dire da un’altra, a proposito del pranzo: «Non saremo mica in casa per servirci a vicenda!»? Cosa direste? Queste frasi non si dicono, se non rappresentano un cuore solito, se non rappresentano qualcosa di continuo, una estraneità ultimamente continua. Ma io non cedo alla tentazione, che avrei avuto, di dettagliare i sintomi di un disordine, perché quello di cui invece abbiamo parlato è un ordine, un ordine nuovo, per cui la nostra amica che invita in casa l’universitaria della tal comunità e poi l’accompagna a casa, mentre si salutano, si sente dire: «Come è bello pensare che in Milano ci sia una casa come la vostra, fatta di gente come voi. Adesso capisco che debbo ritornare all’occasione del mio matrimonio e debbo ritornare alla mia comunità con più pacificità; alla mia comunità, dove nessuno sembra desiderare niente, dove tutti sembrano non desiderare niente, dove nessuno sembra desiderare qualcosa [letteralmente: dove nessuno sembra desiderare qualcosa]». E quando entri in una casa del Gruppo Adulto e nessuno sembra desiderare qualcosa? Non c’è ordine, non c’è un ordine, perché l’ordine è vita, è moto, è discrezione, è pulizia, è silenzio, è servizio, è prontezza, è un “tu” che è “mio”, perché il suo destino è il mio, e tutti insieme siamo una cosa sola così che il mondo veda: «Che siano tutti una cosa sola affinché il mondo s’accorga che Tu mi hai mandato»28.
La stessa persona viene invitata ancora in quella casa, mi pare, e andandosene via conferma l’impressione precedente: «Ma quello che più mi ha colpito questa volta è l’atteggiamento totalizzante che avete: che questa vostra vita vi prende totalmente». L’accompagnatrice, probabilmente, la sera usciva come al solito, però l’impressione che ebbe quella sua amica è preziosa: «Totalizzante, il rapporto tra di voi in casa è totalizzante». Non fermante, non arrestante: totalizzante, che è il contrario dell’arresto, della chiusura. Il totalizzante spalanca a tutto. Non si può spalancare tutto l’io a un tu, senza spalancare tutto l’io alla totalità del mondo, cioè a Cristo; alla totalità del senso del mondo, cioè a Cristo. Non sei aperto al tu, se non sei aperto a Cristo. Perciò abbiamo detto stamattina che non è vero il rapporto che hai di amicizia e di amore, se non rappresenta un’esperienza nuova, che partecipa all’esperienza nuova che Cristo, risorgendo, come uomo ha fatto.
Che le nostre case siano “tese”, abbiano un’aria piena di “in-tesa”, perché piena di intenzione. Solo se ognuno è colmo di intenzionalità, c’è una intesa fra tutta la presenza: e rappresenta la grande Presenza, rappresenta una unità che commuove chiunque la veda e commuove innanzitutto chi ci sta. Tutta la propria esistenza, la totalità del proprio io e del suo esistere, è in comunione con la totalità dell’altro, con la totalità di tutti.
Totalizzante: è un’altra vita. Altrimenti è una cosa dentro la vita di tutti, una cosa diversa dentro la vita di tutti. Cristo risorto è un’altra vita. Forse niente può esprimere meglio questo come il pregare insieme. Ma se il pregare insieme non è singhiozzo per il proprio peccato, umiliazione per il proprio orgoglio, per la propria superbia, rinuncia alla propria superbia e attenzione amorosa al proprio io, che è soggetto di ogni rapporto, perché l’altro in ogni rapporto ha lo stesso destino che il proprio io… È una vita nuova, intera. E infatti non si può spezzare; si può cadere mille volte, e allora è una incoerenza; ma mille incoerenze non fanno un passo di tradimento, di dimenticanza e di rifiuto.
Per concludere, prima di leggere insieme la grande preghiera di sant’Agostino, voglio leggere (e ringrazio molto chi me l’ha data) questa lettera di Rose Akumu, la nostra amica ugandese che è morta alcuni giorni fa. L’ha scritta il 3 maggio. Ammalata di Aids, scrive alla nostra Rose (anch’essa si chiama Rose): «Ti saluto e saluto tutti gli amici. Come hai passato la Pasqua? Qui stanno tutti bene, tranne io, che sto ancora molto male, ma vivo questo con gioia e felicità e continuo ad offrire me in ogni istante [totalizzante]. Come sta don Giussani? Sto ancora pregando per lui e per tutte le amiche della casa e per il movimento in tutto il mondo. Anche Palma sta bene, viviamo ancora insieme. Non sono stata molto in forma negli ultimi giorni. Hanno dovuto sottopormi a fleboclisi. Questa mattina ho avuto molta diarrea e ho vomitato tanto e la flebo mi è stata tolta. Le cose stanno diventando difficili, ma c’è comunque una grande bellezza nell’affrontare questo, perché Lui sa ciò che è meglio per me e Lui solo vuole che le circostanze di questa malattia siano una reale trasformazione per me e per le persone che mi sono vicine. Sono felice di questo, perché sta venendo fuori qualcosa di così grande che anche attraverso i dolori e le debolezze c’è una inevitabile promessa fatta da Lui a me e ad ognuno: “Sono sempre con voi”. Non mi vergogno della mia situazione, neanche quando a volte non riesco neanche ad andare al bagno. Anche in questo c’è un costante richiamo al fatto che il Verbo si è fatto carne, è il mio destino, Egli mi conduce, e chi sono io per lamentarmi? Da sola non posso darmi la felicità. Neanche la fatica di sopportare questo mi preoccupa, perché Egli mi chiama a viverlo completamente con Lui e in Lui. A volte, quando padre Tiboni viene, scherza, mi dice di andare a scavare o in discoteca. Tali scherzi mi fanno sentire completamente immersa nel Mistero che ho incontrato, poiché vedo che sono accettata per quel che sono. E sono felice che quando gli amici vengono a trovarmi non parlano della mia malattia, ma chiacchierano liberamente e si ride molto. Sono accettata per come sono: debole, sempre a letto. Nessuno si preoccupa perché sanno che la cosa più importante non è la mia malattia, ma il condividere l’incontro che abbiamo fatto. Manda i miei saluti a tutti gli amici. Ricordo ognuno di voi nelle mie preghiere». Il 13 maggio, vale a dire dieci giorni dopo, moriva.
«Nessuno si preoccupa perché sanno che la cosa più importante non è la mia malattia, ma il condividere l’incontro che abbiamo fatto». La cosa più importante non è il tuo giudizio, ma il condividere l’incontro che hai fatto; la cosa più importante non è quel che ti pare e piace o il tuo modo di sentire o quel che giudichi tu o quel che la tua coscienza ti dice o ti detta o pretende, ma è il condividere l’incontro che hai fatto. Questo è un mondo diverso, questo è l’inizio di una umanità diversa. È una umanità solita quella che ti fa affermare quel che pensi, che ti fa affermare quel che senti, che ti fa affermare l’istinto che provi, che ti fa affermare quel che ti pare e piace, che ti fa affermare secondo la tua coscienza. Quella è una umanità solita. Questa è una umanità diversa: c’è un’altra presenza qua dentro, la presenza di Cristo risorto e asceso al cielo, che dalla radice già possiede tutte le cose e sta in attesa della gloria finale, vivendo la gioia della gloria presente che noi - noi! - gli diamo, noi, i chiamati, gli diamo, se viviamo l’unità nella quale Lo riconosciamo.
Ascoltiamo in piedi quel che dice sant’Agostino. «Dio, Creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, poi che mi renda degno d’essere esaudito e, infine, che tu mi liberi [cioè mi faccia aderire al vero]… Dio, che l’abbandonare è come morire, che il cercare è come amare ciò che si vede [cioè come già possederlo]… Dio, dal quale impariamo esserci estranee cose che a volte ci parvero nostre ed essere nostre cose che a volte ci parvero estranee; Dio per il quale il meglio di noi non è soggetto al peggio [Dio per il quale il meglio di noi non è soggetto al peggio: si chiama Cristo risorto e asceso al cielo]; Dio, che hai fatto gli uomini a immagine e somiglianza tua, per cui chi conosce sé conosce te; Dio, che sei amato da tutto ciò che può amare [lo sappia o non lo sappia], esaudiscimi secondo il tuo costume a pochi ben noto [pochi capiscono, hanno sperimentato come tu esaudisci sempre, come hai detto nel Vangelo; pochi capiscono che la domanda è l’unica espressione adeguata dell’umanità povera che è nell’uomo, dell’intelligenza povera, dell’affezione povera, del cuore povero che è nell’uomo]»29.
«Esaudiscimi secondo il tuo costume a pochi ben noto». C’è in questa frase come un pessimismo triste, triste di dolore per Cristo sconosciuto: «Esaudiscimi secondo il tuo costume a pochi ben noto».



NOTE

1 Il riferimento è alla lezione del mattino. Cfr. L. Giussani, «Cristo risorto, la sconfitta del nulla», in Tracce-Litterae Communionis, aprile 2006, pp. 1-12.

2 Solennità dell'Ascensione, prefazio in rito ambrosiano.

3 Cfr. Sal 47 (46),2.

4 Sabato della VI settimana del tempo di Pasqua, colletta.

5 Cfr. Gv 17,2.

6 «Dio onnipotente e misericordioso, che alla tua Chiesa pellegrina sulla terra fai gustare i divini misteri, suscita in noi il desiderio della patria eterna, dove hai innalzato l'uomo accanto a te nella gloria» (Solennità dell'Ascensione, orazione dopo la comunione).

7 «Accogli, Signore, il sacrificio che ti offriamo nella mirabile ascensione del tuo Figlio, e per questo santo scambio di doni fa? che il nostro spirito si innalzi alla gioia del cielo» (Solennità dell'Ascensione, orazione sulle offerte).

8 Cfr. Gv 16,7.14.

9 Cfr. 2Pt 3,8.

10 Sabato della VII settimana del tempo di Pasqua, colletta.

11 Giovedì fra l'ottava di Pasqua, colletta.

12 Venerdì fra l'ottava di Pasqua, orazione sulle offerte.

13 Domenica di Pasqua, colletta.

14 VII domenica di Pasqua, colletta.

15 Ivi, orazione dopo la comunione.

16 Inno delle Lodi del Tempo per Annum (trappiste di Vitorchiano).

17 Cfr. Esercizi della Fraternità. Appunti dalle meditazioni, suppl. a Cl-Litterae Communionis, n. 6 1992, p. 40.

18 Cfr. S. Kierkegaard, Diario, Bur, Milano 1988, p. 348.

19 Cfr. Lucio Anneo Seneca, Lettere a Lucilio, Bur, Milano 1989, p. 296.

20 Gal 3,27-28.

21 Cfr. Gv 1,3.

22 Sabato della IV settimana di Pasqua, orazione dopo la comunione.

23 Cfr. C. P?y, Preghiera di residenza, in Lui ?ui, Bur, Milano 1997, p. 390.

24 K. Wojtyla, Raggi di paternit?in Tutte le opere poetiche, Bompiani, Milano 2001, p. 959.

25 C. Péguy, Nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana, Bur, Milano 1997, pp. 474-475.

26 «O Dio, che ci hai resi partecipi di un solo pane e di un solo calice, fa? che uniti al Cristo in un solo corpo portiamo con gioia frutti di vita eterna per la salvezza del mondo» (V domenica del Tempo per Annum, orazione dopo la comunione).

27 Ora in L. Giussani, Il cammino al vero è un'esperienza, Sei, Torino 1995, p. 80.

28 Cfr. Gv 17,21.

29 Cfr. Sant'Agostino, Soliloqui, I,1.