Oltre l'ottimismo, la speranza
Pagina UnoIntervento alla presentazione di Hope, secondo volume di Is It Possible to Live This Way?, (Dublino, 9 gennaio 2009; New York, 17 gennaio 2009)
1. Attesa: struttura dell’uomo
«Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?» (C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, p. 276). Don Giussani ha sempre citato questo interrogativo del poeta italiano Cesare Pavese per indicarci la struttura dell’uomo: l’attesa. Ognuno di noi può riconoscere nella propria esperienza fino a che punto la sua vita è piena d’attesa, qualunque sia poi la forma in cui ciascuno se la rappresenta. Possiamo, quindi, dire che l’attesa è la struttura stessa della nostra natura, l’essenza della nostra anima. Dice don Giussani ne Il senso religioso: «Essa non è un calcolo: è data. La promessa è all’origine, dall’origine stessa della nostra fattura. Chi ha fatto l’uomo, lo ha fatto “promessa”. Strutturalmente l’uomo attende; strutturalmente è mendicante: strutturalmente la vita è promessa» (Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 71).
Questa attesa ci s’impone con un’evidenza così palese che crediamo di sapere quello che attendiamo. Purtroppo, in tante occasioni dobbiamo riconoscere quanto abbia ragione François Mauriac, quando scrive: «Mi sono sempre ingannato sull’oggetto dei miei desideri. Non sappiamo quel che desideriamo» (Groviglio di vipere, Mondadori, Milano 1986, p. 201). Questo trova drammatica conferma nel diario dello stesso Pavese. Quando lo scrittore ebbe ottenuto il più noto premio letterario italiano, il Premio Strega, commentò: «Hai anche ottenuto il dono della fecondità. Sei signore di te, del tuo destino. Sei celebre come chi non cerca d’esserlo. Eppure tutto ciò finirà. Questa tua profonda gioia, questa ardente sazietà, è fatta di cose che non hai calcolato. Ti è data. Chi, chi, chi ringraziare? Chi bestemmiare il giorno che tutto svanirà?» (Il mestiere di vivere, op. cit., p. 341). Il giorno della consegna del premio: «A Roma, apoteosi. E con questo?» (Ibidem, p. 360).
Quante volte anche noi, come Pavese, ci siamo ugualmente sorpresi con lo stesso pensiero dopo aver ottenuto, come lui, quello che attendevamo: «E con questo?». Perché? Perché dopo avere ottenuto quello che sognavamo ci troviamo con questa insidiosa domanda tra le labbra? È proprio nel momento della delusione, paradossalmente, che l’uomo si rende consapevole della vera natura dell’attesa che lo costituisce e che gli rivela il mistero della sua persona. Quel «misterio eterno dell’esser nostro», di cui parla il poeta Giacomo Leopardi (Pensieri LXVIII). Che cos’è ciò che attendiamo e che niente, neanche il successo più clamoroso, è in grado di sostituire?
È stato ancora il genio di Pavese, così leale con la propria esperienza da restarne meravigliato, a dare risposta a questa domanda: «Ciò che un uomo cerca nei piaceri è un infinito, e nessuno rinuncerebbe mai alla speranza di conseguire questa infinità» (Il mestiere di vivere, op. cit., p. 190). Niente è in grado di soddisfarci, perché quello che cerchiamo in tutto quanto ci piace, nei piaceri, è un infinito. È questo che ci consente di capire la nostra delusione. Infatti l’esperienza stessa della delusione mette in evidenza di che cosa è fatto il nostro cuore. Se non avessi un desiderio senza confine, non avrei nemmeno l’esperienza della delusione.
Se questa è la condizione umana, dobbiamo porci una domanda: esiste un fondamento reale da cui possiamo aspettarci che la nostra sete di felicità venga esaudita? L’attuale situazione, in cui sembra che tutto stia per crollarci davanti agli occhi, rende questa domanda ancora più urgente. È possibile sperare?
Questa domanda ci introduce al secondo punto.
2. La grazia che occorre per sperare
«Per sperare, bimba mia, bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia», dice il poeta francese Charles Péguy (Il portico del mistero della seconda virtù, in I Misteri, Jaca Book, 1997, p. 167). Con questa affermazione Péguy si situa agli antipodi di qualsiasi atteggiamento presuntuoso, perché riconosce che la possibilità della speranza si fonda non in qualcosa di costruito da noi, ma in una grazia, vale a dire, in qualcosa di dato, di donato. È questa grazia che rende ragionevole la speranza.
Facciamo un semplice esempio, che ci consente di capire la verità di quanto dice Péguy. Chiunque abbia avuto la grazia di una situazione familiare normale, di che cosa ha fatto esperienza? Ha fatto esperienza di avere raggiunto una certezza incrollabile: «Mia madre mi vuole bene». Questo non ci è dovuto, è una grazia avere avuto una madre così. Ora, qualcuno che abbia avuto un’esperienza di questo tipo, può pensare che ci sarà anche solo un momento nella vita in cui lei non gli vorrà bene? No! Non posso pensare, qualsiasi cosa io faccia, che mia mamma non mi vorrà bene; dovrei togliermi di dosso tutta l’esperienza che ho fatto. Su che cosa poggia questa certezza nel futuro? Sulla certezza dell’esperienza presente.
Con questa esperienza negli occhi possiamo introdurci in modo semplice a tutta l’impostazione di don Giussani sul tema della speranza, di cui tratta il libro che presentiamo oggi (Is It Possibile to Live This Way? Vol. 2 Hope, McGill-Queen’s University Press, Montreal 2008).
Che cos’è questa «grande grazia» di cui parla Péguy? La fede in Gesù Cristo. La grande grazia è la certezza della fede. La fede, come spiega don Giussani, è il riconoscimento di una Presenza, che consente all’uomo un’esperienza di corrispondenza così unica alle attese del cuore, da riconoscere che soltanto il divino può esserne l’origine. Andrej Tarkovskij, il famoso regista russo, fa dire a uno dei suoi personaggi del film Andrej Rublëv: «Lo sai anche tu, certi giorni non ti riesce nulla, oppure sei stanco, sfinito, e niente ti dà sollievo, e all’improvviso nella folla incontri uno sguardo semplice, uno sguardo umano, ed è come se avessi ricevuto la comunione e subito tutto è più facile» (Andrej Rublëv, Garzanti, Milano 1992, p. 74). L’esperienza presente di questa Presenza, analogamente a quella della madre, è il fondamento della speranza.
Spiega don Giussani: «La speranza, che non è nient’altro che l’espandersi della sicurezza della fede al futuro» (Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 255. Da qui in avanti i numeri di pagina si riferiscono a questo volume). Se la fede è riconoscere con certezza una Presenza così corrispondente all’attesa del cuore, allora la speranza è avere una certezza per il futuro che nasce da questa Presenza. È l’espandersi al futuro della sicurezza del presente.
All’inizio dell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI parla di «speranza affidabile»: «La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino» (n. 1).
Per questo la speranza è il test più elementare per renderci conto se la nostra fede è un’esperienza - precisamente un’esperienza di certezza così reale da poter poggiare tutto su di essa -, o se invece è una categoria mentale o dialettica, quindi non in grado di fornire un punto d’appoggio reale. Per questo Giussani insiste: «La grande grazia da cui la speranza nasce è la certezza della fede; la certezza della fede è il seme della certezza della speranza» (p. 184). Ciò su cui si fonda la speranza è un presente: «Ma un presente è veramente presente nella misura in cui tu lo possiedi; perciò la speranza è la certezza nel futuro che si appoggia su un possesso già dato» (p. 186), su una grande grazia, appunto.
Perciò la speranza cristiana è tutto tranne che irragionevole. Non è una speranza campata per aria, senza punto d’appoggio, una sorta di ottimismo irrazionale contro l’evidenza dei dati del presente. Anzi, la sua ragionevolezza poggia tutta su una conoscenza verificata nell’esperienza. Per questo possiamo dire che poggia su un possesso già dato.
È ancora la Spe salvi che ce lo ricorda con parole analoghe: «La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro “non-ancora”. Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future» (n. 7).
E di nuovo: «La promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza» (n. 8).
È con questa Presenza davanti a me che, adesso, posso guardare senza paura tutta la portata della mia attesa, dei miei desideri più profondi. Nella compagnia di questa Presenza posso osare porre la vera domanda.
E questo mi conduce all’ultimo punto di questa sera.
3. Il compimento del desiderio
«Questi desideri saranno soddisfatti, sì o no? Qui è il punto. Questi desideri, fatti secondo le esigenze del cuore, possono essere sicuri d’essere attuati […] solo in quanto uno […] si abbandona alla Presenza» (pp. 190-191). Io ho speranza perché ho tutta la certezza nel potere della grande Presenza riconosciuta nella fede, sapendo che l’esigenza di felicità che mi costituisce si realizzerà secondo la forma che il Mistero vorrà.
Questo significa che il mio desiderio si compie solo in quanto mi abbandono alla Presenza che la fede ha riconosciuto. Le esigenze del cuore dicono che l’oggetto del cuore c’è, nel futuro c’è, perché l’uomo è destinato a essere felice, giusto, vero. Ma la certezza che questo accadrà non può essere sostenuta dal nostro cuore. La certezza che questo accadrà può derivare soltanto dalla Presenza che la fede riconosce: non siamo noi, ma è Lui, è la Presenza eccezionale che la fede riconosce.
La dinamica della speranza è un desiderio che non potrebbe resistere nel tempo, sarebbe sempre amaramente deluso, se non fosse sorretto, retto come ragione della fede, dalla certezza nel potere della grande Presenza. Per questo dalla consapevolezza che non siamo noi, ma che è la Sua presenza a compiere il desiderio del nostro cuore, sorge la domanda a questa Presenza. La nostra libertà si esprime come domanda a questa Presenza, affinché ci compia. Lo sintetizza san Bernardo in una bellissima formula, quando dice che il «desiderio totale» (Sermo 1 pro dominica I novembris) è esso stesso la più forte forma di invocazione a Dio.
Come Dio risponde a questa invocazione?
La forma della risposta a questa invocazione non è, come spesso pensiamo, il frutto della nostra immaginazione…
Questa forma non è, come tante volte noi pensiamo, una nostra immagine, un prodotto della nostra immaginazione. Al contrario: «Questa forma non è nient’altro che la grande Presenza stessa» (p. 195). Lo possiamo capire bene tra di noi: non è il regalo che una persona mi fa a costituire la pienezza di quella esigenza di felicità. Quello che mi rende felice è la persona stessa, non i regali che mi fa! «La contemplazione dei tuoi beni è certamente per noi un dolce ristoro - scrive Guglielmo di Saint- Thierry -, ma non ci sazia perfettamente senza la tua presenza» (La contemplazione di Dio, Fabbri, Milano 1997, p. 65).
Sperare, perciò, non significa sperare “qualcosa” da Dio, ma Dio stesso. Per il fatto che la nostra natura è desiderio dell’Infinito, è Dio stesso l’unico in grado di riempire il desiderio.
Lo dice bene sant’Agostino: «Sia il Signore Dio tuo la tua speranza; non sperare qualcosa dal Signore Dio tuo, ma lo stesso tuo Signore sia la tua speranza. Molti […] da Dio sperano qualcosa al di fuori di Lui; ma tu cerca lo stesso tuo Dio; […] dimenticando le altre cose ricordati di Lui; lasciando indietro tutto, protenditi verso di Lui. […] Egli sarà il tuo amore» (Enarrationes in Psalmos, 39, 7-8).
La forma della risposta al desiderio dell’uomo è Cristo stesso. Cristo è l’unica speranza di compimento della nostra affettività. Egli solo, Egli solo è capace di esaudire, di soddisfare veramente l’affettività.
Null’altro è in grado di soddisfarci realmente. Perciò la speranza è il compimento dell’affezione: Egli solo è in grado di soddisfare, di compiere veramente l’affezione. Per questo tutti gli uomini ardono dal desiderio; ma quanto è difficile trovare uno che dica: «Di te ha sete l’anima mia» (Sal 63,2)!
Cristo, la Presenza riconosciuta dalla fede, è l’unico fondamento ragionevole della speranza. Senza di Lui la vita dell’uomo è priva di un fondamento su cui poggiare.
Invece è proprio così, perché - come conferma san Tommaso - «la vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (San Tommaso d’Aquino, Secunda secundae, in Summa Theologiae, q. 179, art. 1). La soddisfazione è nell’affezione a Cristo, la soddisfazione è Cristo.