«Quando ho incontrato Cristo, mi sono scoperto uomo»

Parola tra noi
Javier Prades

Appunti dall'intervento di Javier Prades
all'Assemblea Internazionale Responsabili di Comunione e Liberazione

La Thuile, 20 agosto 1997


«Quando ho incontrato Cristo,
mi sono scoperto uomo»
(Mario Vittorino)


Per la sintesi del lavoro che abbiamo svolto in questi giorni, vorrei
proporvi una premessa e tre punti, che sicuramente non hanno la pretesa
- non possono averla -, di esaurire o di recuperare tutto quanto è
stato detto nelle giornate che abbiamo passato insieme, ma solo di suggerire
alcune sottolineature che possano facilitare il trattenere, il rendere nostro
quello che ci è stato proposto.



La premessa è questa (è una cosa che mi sta molto a cuore):
in questi giorni abbiamo scoperto tante affermazioni vere, tante cose giuste,
che mostrano un'acutezza, un'intelligenza di sguardo sul reale, sulla storia,
su noi stessi, che sono veramente commoventi, sconvolgenti. È una
grandissima fortuna che uno possa ascoltare e imparare tante affermazioni
vere e nuove. Ma sarebbe insufficiente tornare a casa, tornare nei sessanta
Paesi da cui proveniamo, con delle idee giuste, senza accorgerci di come
ci sono state svelate, di come ci sono state date.

È, infatti, attraverso l'esperienza di un uomo, del suo rapporto
col Mistero, del suo rapporto con Gesù, attraverso l'unità
di uomini che da questa esperienza è nata, che noi abbiamo conosciuto
le cose nuove che abbiamo imparato. È in questa unità vissuta
che si trova il principio adeguato di conoscenza e di azione per la vita.
Così abbiamo fatto esperienza noi, in questi giorni, di ciò
che la Chiesa ha sempre sostenuto di essere: il luogo vivente che spiega
la realtà; non il luogo della devozione, non il luogo parallelo al
mondo, esterno al mondo, dove si fanno anche certe considerazioni, ma il
luogo vivente che porta in sé la spiegazione del mondo, che è
in grado di decifrare, di chiarire l'esistenza di ciascuno di noi e la realtà
vera del mondo.

È così, come è avvenuto in questi giorni, che ognuno
di noi può scoprire il significato del reale, di se stesso, della
vita, del destino degli uomini. Ma la cosa più esaltante, la cosa
più bella è che, partecipando per osmosi all'esperienza di
chi è più grande di noi, partecipando a questa esperienza,
ognuno è reso protagonista nuovo di conoscenza e di azione, è
reso capace di un uso della ragione e di un dilatarsi dell'affezione, che
lo rende protagonista nuovo, e non appena un ripetitore meccanico. Così,
non è che tu torni a casa oggi a ripetere, come discepolo, certe
frasi, ma fai parte, sei partecipe di un avvenimento che esalta te, secondo
tutta la particolare modalità di capacità che tu sei, come
Dio ti ha fatto; e perciò non tornano a casa settecento discepoli,
ma settecento figli, cioè settecento persone in grado di paragonarsi
col reale, di abbracciarlo in un modo nuovo. Ognuno di noi non è,
può non essere un ripetitore omologato, ma un punto sorgivo di novità
lì dov'è, avendo partecipato, essendo parte, facendo parte
di questa realtà vivente che è il movimento.

In questo modo, secondo questo metodo, vorrei sottolineare, vorrei recuperare
alcune delle affermazioni che mi sembra possano essere più utili
per noi.

I

Don Giussani ci ha detto che viviamo un momento tremendo, un momento
terribile (ce lo diceva anche agli Esercizi della Fraternità) di
nichilismo e di panteismo, di distruzione dell'uomo e della società
- come descriveva soprattutto nella prima parte della lezione. A un certo
punto osservava che in questa situazione, nelle circostanze del mondo di
oggi, la forza è la persona, e la forza della persona è la
coscienza di ciò che essa è: coscienza del suo essere e del
suo operare. Ecco, su questo primo punto, sulla persona e la sua coscienza,
vorrei adesso fermarmi.

a) In questo mondo, in questa situazione di oggi, la forza è la persona;
la forza del movimento è la persona, la forza della Chiesa è
la persona, la forza della società civile è la persona: questa
realtà misteriosa - la persona, l'io, l'individuo - per cui l'uomo
non si riduce, non si può ridurre a materialità corruttibile,
a fisicità che si disgrega e finisce nel niente. L'io è questa
realtà, che sembra inafferrabile, che sembra sfuggente, che non può
essere fissata in una analisi di tutte le cellule, di tutte le parti dell'uomo:
se le sottoponessimo una a una al microscopio, non potremmo individuare,
non potremmo delimitare questo fattore, che però tiene insieme, unifica,
dà forza a tutti gli altri fattori - quelli, sì, misurabili,
quantificabili, determinabili -. Questo fattore, che è puro rapporto
con l'Essere, con l'Infinito, si documenta in un insieme di evidenze e di
esigenze originarie (esigenza di amore, di verità, di giustizia,
di felicità): è un fattore che sembra non esserci, ma senza
il quale tutti gli altri fattori non si possono spiegare adeguatamente.

In questo periodo in cui, per motivi sportivi (che non è il caso
adesso di dettagliare), ho dovuto stare a riposo, ho avuto la fortuna di
passare del tempo col mio piccolo nipotino, che si chiama Jaime, e mi sono
reso conto di come stanno venendo fuori tutti i fattori visibili della sua
persona (lui mangia, mangia anche molto bene, balbetta qualche parola, va
di qua e di là); ma risulta evidente che tutti quei fattori che si
possono vedere sono già in un bambino piccolissimo come attraversati,
come investiti da qualcosa d'altro, per cui ti domandi: «Ma cosa sarà
di lui? Questi fattori che vedo quale ordine seguiranno? Che destino vivrà?
Come sarà la sua vita?». E, senza questo sguardo sul suo pur
piccolissimo io, non si potrebbe portare uno sguardo compiuto, umano, vero
sul bimbo. È la stessa cosa per ognuno di noi, che siamo adulti:
non c'è sguardo compiuto su una persona se non ti rendi conto che
l'unità dei suoi fattori misurabili è questo io misterioso,
è questo rapporto della persona col Mistero.

Pensiamo a quale diversità di sguardo si porta sulla vita della comunità,
del movimento, se si è consapevoli di questo valore della persona,
di questa unicità irripetibile di ciascuno di noi! Quest'anno, in
diversi momenti, mi sono reso conto che - pur con le migliori intenzioni
- scivoliamo verso uno sguardo sulla realtà della comunità,
o della Chiesa, che prescinde dal valore della persona (ma la persona non
è mai un'astrazione: è questo uomo qui davanti a me, è
ognuno di noi, che è irripetibile). E così scopri te stesso
preoccupato dell'organizzazione, preoccupato che l'organigramma del movimento
sia compiuto, che tutti i settori vadano, che tutte le cose ci siano...
Ti sei spostato di un millimetro in questo sguardo, e sei già «fregato»,
perché non guardi né te stesso per quello che sei, né
gli altri per quello che sono. Invece, la forza dell'associazione, la forza
della Chiesa, la forza della società è la persona. Come è
diverso essere dominati dallo sguardo sull'altro come un io irripetibile
(con le sue domande, con le sue esigenze, come espressione della realtà
irriducibile che ognuno di noi è) e dunque guardare l'altro non in
funzione del disegno che si ha (che può anche essere buono)!

Ecco, la forza è la persona: siamo in cinque, siamo in cinquemila,
siamo in cinque milioni, la forza è la persona.

b) Ma qual è la forza della persona? Diceva don Giussani: la forza
della persona è la coscienza di ciò che essa è. Come
ci è stato ricordato anche ieri nell'assemblea, spesso noi dimentichiamo
chi siamo, qual è la nostra vera realtà, ci abbandoniamo a
quella trascuratezza dell'io che - diceva la prima frase della Scuola di
comunità - è il vero e unico grande ostacolo al cammino dell'uomo:
è una trascuratezza, una distrazione sulla verità di noi stessi,
su chi siamo, sulla coscienza vera di sé, che ostacola la possibilità,
che rende molto più difficile un cammino veramente umano.

Da qui il tentativo sempre più incalzante del potere di staccare
l'uomo dalla sua coscienza - tentativo che si porta avanti con i mezzi più
sofisticati, nei nostri tempi -, di tagliare il ponte fra l'uomo e il suo
cuore, perché così l'uomo è reso debole, perde la sua
forza: perdendo la sua coscienza, perde la sua forza come persona. Pensate,
per esempio, alla confusione ormai dominante su che cosa sia la libertà
e come la si usa, su come la si intende e come la si usa. Noi stessi ci
muoviamo spesso nella ricerca dell'ultima novità, nel tentativo di
realizzare la libertà scegliendo in continuazione, una cosa dopo
l'altra, nell'illusione che così arriveremo a soddisfare l'esigenza
che abbiamo! Impostiamo la nostra vita, di fatto, esistenzialmente, al di
là dei discorsi, come un susseguirsi di scelte in cui dobbiamo sempre
aggiungere altro a quello che già avevamo scelto, perché non
siamo mai contenti. E in questo ci riveliamo uomini moderni, uomini che
fanno parte di un mondo, di una cultura oggi dominante, che apparentemente
esalta la libertà (come la bellissima mostra di Gs mi ha dato modo
di pensare ieri), ma in realtà la esaspera: perché esaltando
la libertà come scelta, riducendo la libertà ed esaltandola
come scelta, sei costretto ad aggiungere sempre qualcosa, un oggetto particolare
dopo l'altro, e così la svuoti, non trovi mai più quella Realtà,
unica Realtà, che può soddisfare la tua libertà in
quanto aderisci ad essa.

Che confusione su se stessi! Che mancata chiarezza sulla coscienza di sé!
Perché noi siamo capacità di riconoscimento dell'Infinito,
dell'Essere infinito, e la nostra libertà è riconoscerlo,
riconoscere l'Infinito, Dio che è tutto in tutto, e riconoscere che
siamo di Lui, che siamo di un Altro da noi: riconoscere un Altro ed aderire
a Lui.

Ecco allora che l'espressione esistenziale della libertà in cammino
sarà la domanda, sarà questo rapporto di domanda - continuato,
mantenuto, sostenuto nel tempo - col Mistero. L'uomo cosciente, l'uomo che
ha vera coscienza di sé è l'uomo che domanda, l'uomo che vive
stabilmente, familiarmente, in un rapporto col Tu, col mistero di Dio. La
domanda non come premessa per altro, non come aiuto per poi affermare sé,
ma come espressione stabile, matura di se stessi, in quanto adesione a un
Altro a cui appartengo.

La forza della persona è la coscienza di ciò che essa è,
ed è per questo che fra di noi la prima carità è questo
aiuto vicendevole a una chiarezza di coscienza di chi siamo, di come siamo.
Una coscienza dell'essere e dell'operare: perché l'io è se
opera. Perciò l'io si conosce in azione, cioè in movimento
verso l'Essere, verso l'Altro come ideale di sé, in una unità
di esperienza dove ogni azione particolare esprime ciò che siamo:
è lì che si vede chi siamo, è in azione che emerge
veramente chi siamo, che si mostra, si fa vedere questa natura, questa originaria
realtà dell'uomo come partecipe del mistero infinito di Dio nella
libertà. È dunque in azione dove l'aiuto della compagnia è
più incidente per la chiarezza di coscienza che desideriamo.


II

Se il primo punto è stato la persona, la coscienza come forza
della persona, il secondo punto appare urgente. Come - diceva don Giussani
-, la persona può rimanere in questo atteggiamento vero di riconoscimento
dell'Infinito, di adesione all'Infinito, di sguardo positivo sulla vita?
Come può rimanere e maturare questa vera coscienza di sé che
permette una vita umana e non una vita da schiavi o da numero in una catena
anonima?

La prima cosa che mi preme dire è che all'uomo è impossibile.
All'uomo è impossibile con le sue sole forze rimanere nell'atteggiamento
necessario per una vita umana: non è un po' più difficile,
non è molto più difficile, ma è impossibile. Nessun
uomo può, da solo, garantirsi il comportamento che esprime una coscienza
compiuta dell'umano, nessuno. E santa madre Chiesa ce lo ha spesse volte
ricordato in diversi Concili, in cui ha detto con somma chiarezza: «L'uomo
da solo non può raggiungere il suo Destino senza la grazia di Dio».
Da Cartagine a Trento, con grandissima chiarezza, la Chiesa ha sentito sempre
l'urgenza di difendere questa affermazione, senza la quale tutte le altre
cadono: l'uomo da solo (ciascuno di noi da solo) non può garantirsi
la permanenza nell'atteggiamento di cui ha bisogno per vivere.

È per questo che - siccome agli uomini è impossibile, ma non
è impossibile a Dio, è impossibile per noi, per me come singolo,
per noi tutti come consenso di forze, come raccolta di forze (potremmo mettere
insieme tutti gli uomini dell'universo e non ci riusciremmo), è impossibile
per me, impossibile per noi uomini, ma non impossibile per Dio -, è
per questo che Dio è venuto, è venuto Lui, è diventato,
in Cristo, compagnia agli uomini.

a) Il Mistero, il Mistero che fa tutte le cose, il Mistero che è
l'unica realtà che può soddisfare la nostra libertà,
appagare definitivamente la nostra esigenza di conoscenza e di affezione,
è venuto, è diventato un uomo, uno che si poteva incontrare,
vedere, udire. Il Mistero è quell'uomo lì, Gesù di
Nazareth.

È dunque attraverso un incontro, un incontro oggettivo, che Dio si
è coinvolto con noi nel tempo e nello spazio: Gesù che incontra
Andrea e Giovanni, e poi Simone, e poi tutti gli altri, che convive con
loro, che desta in loro la curiosità di una risposta mai prima così
percepita, desta in loro una attesa e una curiosità che si sveleranno
pienamente nel tempo, quando capiranno che quell'uomo era Dio.

Gesù che vive come un uomo con gli altri uomini, Gesù che
dopo la Risurrezione resta presente a tutti i tempi e a tutti gli spazi,
Gesù che, risorto, è presente in ogni presente della storia:
è Lui, è la Sua presenza che definisce realmente - nel senso
forte del termine - la mia persona, che la sostiene, che spiega tutto ciò
che io sono e tutto ciò che il mondo è, quello che siamo e
che facciamo. È soltanto nell'adesione a Lui, è soltanto nell'adesione
a un Tu, a Te, o Cristo, che si desta - come ha detto don Giussani nella
lezione - un io incontenibile, indistruttibile, immortale: un io incontenibile,
cioè che non può essere fermato, che vive in una irrefrenabile
tensione creativa, di espressione, di costruzione, di realizzazione di sé;
un io indistruttibile, che non può essere piegato da nessuno, che
non può essere piegato dal potere che pure ci prova in tutti i modi;
un io immortale, immortale perché amato per sempre da Dio.

L'io fiorisce nell'adesione a un Tu, nell'adesione a Lui: un'adesione che
originalmente si dà nella creazione, nell'accettare di essere, come
prima fondamentale espressione di amicizia, ma che storicamente si rischiara,
si rende operativa nell'aderire a questa persona, a questo uomo Gesù
e all'unità, al luogo, alla dimora, che da Lui è nata.

La possibilità che il nostro io abbia questi connotati (e chi di
noi può non volere un io incontenibile, indistruttibile, immortale?
quale esigenza c'è in noi che possa essere più forte di questa?),
la possibilità per noi di raggiungere questo io veramente umano secondo
l'altezza della sua vera struttura originaria, sta solo nella adesione a
un Tu che si è manifestato storicamente: l'uomo Gesù di Nazareth,
con la realtà di uomini che da Lui, nel corso della storia, arriva
fino a noi.

b) Un incontro e una dimora. È partecipando dell'unità, dell'amicizia,
dell'unità amicale di coloro che seguono Gesù che l'io si
rigenera, che l'io trova la sua consistenza, si rende consapevole del suo
destino e della sua origine. In questa realtà presente, in questa
unità di uomini che stanno insieme perché sono stati chiamati,
perché sono stati scelti da Lui, accade un cambiamento, una trasformazione,
un rendersi vero dell'uomo, di tale portata, di tale profondità,
che san Paolo non trova un modo migliore di esprimerlo se non dicendo che
si tratta di una «creatura nuova», che è una nuova creazione,
un uomo nuovo.

L'uomo, nato dal Battesimo e scelto in questo gesto, è veramente
una creatura nuova, tanto è vero che può guardare se stesso
con stupore, certamente pieno di umiltà e di tremore (perché
nel tempo che passa ci si rende sempre più consapevoli del limite,
del tradimento, della fragilità, della smemoratezza), ma sicuro e
certo di una novità, sicuro dell'evidenza che c'è nella sua
vita un altro fattore: nella mia vita, nella tua vita c'è un altro
fattore, un'altra cosa, che è in te, che sei tu, anche se non nasce
da te, e per questo - per esempio - hai incominciato ad avere uno sguardo
diverso sul bisogno dell'altro, ti sei interessato in un modo nuovo al bisogno
degli altri. È una cosa strana, perché prima non era così,
prima non ti importava niente del bisogno dell'altro o rispondevi in un
modo distaccato, quasi sopportando, come chi, per dovere, è costretto
a rispondere, ma non vuole andare più in là. Adesso è
diverso: adesso è in te che c'è l'interesse per quella persona
e per il suo bisogno, adesso ti accorgi, stupito, che rispondere al bisogno
dell'altro (al bisogno concreto, così com'è) diventa la strada
per andare, tu, al destino e perché l'altro vada al destino. Attraverso
quella domanda, nel venire incontro all'esigenza che ti è stata proposta
viene a galla in realtà quello di cui tu e l'altro avete bisogno:
abbiamo bisogno di una risposta definitiva per tutto nella vita. Allora,
non sei più dominato dal dovere, ma da una curiosità, da una
affezione, da un desiderio di pienezza, di affermazione, di abbraccio dell'altro,
che prima non conoscevi. È amore al destino tuo, perché sei
più uomo, sei più te stesso non lasciando passare quella domanda,
ed è amore vero al destino dell'altro, che trova non solo aiuto per
quello che cercava, ma una compagnia, un rapporto umano che lo apre al suo
vero bisogno, che è quello di essere figlio del Padre. È missione
su di te ed è inizio di cambiamento di un ambito, di un pezzo, di
uno spazio di realtà. La vita diventa, così, testimonianza.
È testimonianza perché ti rendi conto che quella novità
di vita non sarebbe mai accaduta a partire dai fattori da te dominati, ma
avviene perché sei partecipe di un'altra cosa, perché sei
stato chiamato, sei dentro un incontro. Con stupore ci si accorge così
di essere misteriosamente collaboratori, partecipi dell'amore di Gesù
per gli uomini: don Giussani diceva l'altro ieri che si sentiva corresponsabile,
con Gesù, del destino degli uomini.

Mi è rimasta impressa, quest'anno, l'occasione in cui don Giussani,
parlando ai responsabili, diceva che quando è andato al Berchet e
i primi tre hanno cominciato a muoversi, è tornato a casa tutto preso
dalla preoccupazione di quali implicazioni aveva la loro azione per lui,
si è scoperto coinvolto, attento, in una unità con quei tre
ragazzi - i primissimi tre - che avevano cominciato a muoversi e si scopriva
appartenente all'unità con loro. Quella provocazione lo ha messo
in movimento, lo ha portato ad appartenere a quell'unità che da allora
è la grande circostanza per la maturazione, per la pienezza, per
la piena verità del nostro io. È così, è soltanto
così che ognuno di noi può scoprire la sua vera fattura: appartenendo
a una unità di uomini che porta dentro la presenza di Cristo (don
Giussani diceva: la famiglia, il seminario, il movimento, la Chiesa).

III

L'ultimo punto vuole riprendere alcune affermazioni che don Giussani
ha fatto l'altro ieri al Consiglio Internazionale.

a) La Chiesa ha come suprema ragione di essere, di esistere, la testimonianza,
la testimonianza a quell'Avvenimento oggettivo, nuovo, che esiste nella
storia - Gesù di Nazareth e la compagnia degli uomini che Lui ha
scelto -, un avvenimento che dimostra la presenza del Mistero nella storia
attraverso il cambiamento che la vita del testimone porta con sé,
cioè in un'etica. Nel cristianesimo, dunque - sottolineava lui -,
l'etica è testimonianza a un fatto, testimonianza ad un avvenimento,
è un comportamento che manifesta l'avvenimento. In questo senso,
l'etica è la manifestazione, il crepuscolo dell'ontologia.

b) Questa testimonianza - che porta il messaggio che un'altra cosa è
accaduta nel mondo, che nel mondo è accaduta la cosa più adeguata
alle esigenze della natura dell'uomo, che questa cosa c'è - è
un cambiamento che tutto il mondo può vedere, un cambiamento della
società. La testimonianza a Cristo si dimostra attraverso l'atteggiamento
del singolo cambiato; un cambiamento che si manifesta in ogni dimensione
del vivere umano, perciò in ogni aspetto sociale. È per questo
che normalmente la testimonianza si traduce in opera, è operativamente
visibile. Può darsi che in alcune occasioni Dio non dia la possibilità
di questa dimensione visibile, e allora la testimonianza sarà riconosciuta
e ammirata da tutti gli angeli di Dio, e sarà riconosciuta così
alla fine del mondo da tutti noi.

c) Si può anche intravedere - e con questo finirei - come cultura
e carità, queste due dimensioni, siano l'una matrice dell'altra,
come cultura e carità siano dimensioni di una stessa cosa, dello
stesso gesto, di quell'unico gesto che "commuove" quando si incontra
Cristo: cultura e carità sono un fenomeno unico, provocato dall'impatto
che desta l'incontro con Gesù. La cultura è determinata da
quell'incontro, dall'appartenenza a quell'avvenimento, dall'adesione amorosa
a quell'uomo. Pietro dice: «Sì, Signore, Tu sai tutto, Tu lo
sai che io Ti amo». All'Avvenimento noi apparteniamo, e quell'avvenimento
ci appartiene: questo tutto cambia. Conoscenza e affezione si richiamano
reciprocamente, sono l'una condizione dell'altra, come aveva capito ed esprime
quel tipo umano veramente eccezionale, che resta come esempio di che cosa
sia un uomo, che è san Paolo, quando dice: «L'amore di Cristo
ci strugge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti
sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché coloro che vivono
non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato
per loro» (2 Cor 5, 14-15). È un amore che determina la concezione
di sé e dell'agire, dunque una cultura nuova.


* * *

Quando siamo arrivati a La Thuile, don Giussani ci ha dettato alcuni
brani della Scrittura, che esprimevano il cuore suo e il cuore nostro. Io
vorrei solo ricordare adesso l'ultimo di quei brani: «Tu sei in mezzo
a noi, Signore, e noi siamo chiamati con il Tuo nome, non abbandonarci,
Signore Dio nostro!» (cfr. Ger 14, 9). È la certezza della
Sua presenza in mezzo a noi, che definisce la nostra realtà fino
a cambiarci il nome, il fondamento della nostra speranza e l'origine della
nostra letizia.

Possiamo tornare con sicurezza alle nostre case carichi della luce, del
calore, della vibrazione di ragione e di affezione, che la presenza di Gesù
Cristo in mezzo a noi - del Signore il cui nome noi conosciamo - ci ha dato;
e per questo la nostra è una posizione stabile, permanente, di rapporto
con Lui, di attesa, di domanda, di apertura a quello che il Signore, come
ha fatto in questi giorni, continuerà a fare lungo questo anno.