«Ubi fides, ibi libertas»

Pagina Uno
Julián Carrón

Appunti dall’Assemblea con i Responsabili di Comunione e Liberazione in Italia. Pacengo di Lazise (Verona), 3 marzo 2013

1. UN ATTEGGIAMENTO PROBLEMATICO VERO
Come ci interpellano il risultato delle elezioni e la situazione che ci troviamo a vivere? Al di là di tutte le possibili analisi, che cosa dicono a ciascuno di noi e a noi come comunità cristiana?
Mi sembra che, anche solo osservando i risultati e senza che occorra una particolare genialità, si possano vedere distintamente una frammentazione e una confusione generali: le ideologie che vincono, da una parte, e lo sconcerto di tante persone, dall’altra. Come questi dati ci interrogano? Che cosa ci dice il fatto che molti, con un impeto di cambiamento tante volte confuso e ambiguo, siano alla ricerca di qualcosa di diverso e votino di conseguenza? Solo se cogliamo la gravità della situazione, possiamo valutare l’attendibilità di proposte e tentativi di soluzione. Basta forse “portare a casa” qualcosa per sé? Cambiare la parola d’ordine? Bastano nuove istruzioni per l’uso? In altri termini, un moralismo è in grado di cambiare sostanzialmente la situazione? Lascio aperta la questione. Non diamo per scontato di averla già compresa. Mi auguro che possiamo continuare ad aiutarci, facendo attenzione a tutti i segni, a capire la natura della sfida che abbiamo davanti.
Qual è l’origine della situazione in cui ci troviamo? Don Giussani ci viene in soccorso mostrandoci come essa si radichi in qualcosa che è cominciato molto tempo fa. Se noi non cogliamo qual è l’origine della frammentazione attuale, rischiamo di proporre delle soluzioni che sono parte del problema, lo aggravano, lo complicano, invece di offrire una reale alternativa. Per questo mi permetto di rileggere alcuni brani di don Giussani che mi sembrano significativi - se qualcuno ha una interpretazione migliore, la proponga, e la verifichi -. Egli sostiene che la confusione, a tutti palese, in cui ci troviamo pesca nel nostro atteggiamento di uomini moderni, nel fatto che noi partecipiamo di una posizione umana che manca di problematicità: «Il nostro atteggiamento di uomini moderni di fronte al fatto religioso manca di problematicità, non è normalmente un atteggiamento problematico vero» (L. Giussani, Perché la Chiesa, Rizzoli, Milano 2003, p. 43). Adesso che, per tutto quanto è accaduto quest’anno, abbiamo chiara una domanda, possiamo cogliere meglio, intercettare meglio la risposta che dà don Giussani. Pur essendoci nota, è come se ora la potessimo capire in tutta la sua portata.
Che cosa vuol dire che non abbiamo un atteggiamento problematico vero? Che noi «sappiamo già», che non c’è in noi un vero bisogno di capire, che abbiamo già ridotto il bisogno, che non abbiamo la curiosità necessaria per capire. A volte, è successo anche davanti alle elezioni, i giochi sono già chiusi prima ancora di cominciare la partita: ciascuno ha già un’immagine, una spiegazione di tutto quello che accade. Don Giussani dice: «La vita è una trama di avvenimenti e di incontri che provocano la coscienza producendovi in varia misura problemi. Il problema è l’espressione dinamica di una reazione di fronte agli incontri provocanti» (Ibidem). Tutto è nell’origine, nel contraccolpo iniziale, nella reazione davanti a quello che accade, nel contraccolpo di fronte al reale, al sorgere di ogni vicenda (non dopo, quando teorizziamo): se noi accettiamo che, nell’incontro con le circostanze, venga fuori la domanda, il problema, o se «sappiamo già». Se «sappiamo già», il problema non sorge nemmeno. E allora perché dovrei impegnarmi, perché dovrei fare qualcosa? Ma la cosa più grave è che senza problematicità, senza atteggiamento problematico vero, senza accettare le sfide che la realtà ci pone, non possiamo cogliere il significato delle cose e del vivere, perché «il significato della vita - o delle cose pertinenti e importanti della vita - è un traguardo possibile solo per chi sia impegnato con la problematica totale della vita stessa» (Ibidem). L’aggettivo «totale» è fondamentale. Io sono sicuro che tutti noi ci impegniamo in un modo o in un altro, altrimenti non saremmo qui, ma la vera questione è la totalità, tanto è vero che anche dietro tanta agitazione il centro dell’io può essere fermo, bloccato, da anni. Poi uno racconta le cose concrete che ha fatto e con questo pensa di dimostrare che si muove. Ma l’agitazione può nascondere il fatto che, in tante occasioni, uno non si muove nel fondo del suo essere. I farisei facevano molte cose più dei pubblicani, ma non era mosso il centro del loro io. E uno che non si muove nel fondo del suo essere non scoprirà mai il significato della vita, che è un traguardo possibile solo per chi si lascia provocare ed è impegnato «con la problematica totale della vita stessa». Da che cosa dipende il raggiungimento del significato? Da un impegno con la globalità della vita. Don Giussani colloca qui l’origine della nostra difficoltà.
Da che cosa si vede se abbiamo un atteggiamento problematico vero, se stiamo davanti al reale accettando la sfida che esso ci lancia? «L’insorgere del problema implica la nascita di un interesse, destando una curiosità intellettuale, diversamente dal dubbio [dallo scetticismo, dal già saputo], la cui dinamica esistenziale tende a corrodere il dinamismo attivo dell’interesse e rende perciò via via estranei all’oggetto». Interesse e curiosità da una parte, estraneità dall’altra, dunque. E l’oggetto cui, nell’assenza di problematicità, diveniamo estranei può essere l’ambiente in cui viviamo, «il tessuto di influssi» che subiamo, «la trama delle circostanze» in cui siamo. L’atteggiamento problematico, invece, è la nostra disponibilità «a lasciarci provocare dal problema» (Ibidem), dalla totalità della vita. Altrimenti che cosa vediamo accadere in noi? Un «modo fazioso o unilaterale» di stare nel reale, che è oggi a tutti evidente, per cui ogni singolo «problema si affaccerà male allo sguardo, e il soggetto umano sarà facilmente handicappato a suo riguardo» (Ivi, p. 44). Sembra scritta per oggi questa descrizione del nostro handicap a muoverci nella situazione attuale senza esserne travolti.
Giussani identifica l’inizio di tale difficoltà nel verificarsi di un processo di disarticolazione di una mentalità organica, unitaria, capace di cogliere il nesso tra la vita e il suo significato e di porre perciò adeguatamente in questione ogni singolo passo. «L’origine di quell’affievolimento di una mentalità organica (...) pesca in una possibilità permanente dell’animo umano, in una possibilità triste di mancanza di impegno autentico, di interesse e di curiosità al reale totale» (Ibidem). La settimana scorsa, facendo la prima lezione su Il senso religioso in Università Cattolica, mi è saltata agli occhi la frase di Alexis Carrel che don Giussani utilizza all’inizio del libro: «Nello snervante comodo della vita moderna la massa delle regole che danno consistenza alla vita si è spappolata». Perché? Perché «la maggior parte delle fatiche che imponeva il mondo cosmico sono scomparse e con esse è scomparso anche lo sforzo creativo della personalità» (cfr. A. Carrel, Riflessioni sulla condotta della vita, Bompiani, Milano 1953, pp. 27ss). La frase di Carrel ci interessa non tanto per auspicare che ritornino le fatiche imposte dal mondo cosmico, quanto per ribadire che, senza l’impegno ad affrontare la vita in tutte le sue problematiche, non sorge il soggetto. Se cioè l’individuo non si impegna con la vita nella sua totalità, non sorge la personalità e quindi si diventa “mine vaganti”, come vediamo intorno a noi e spesso anche tra noi. Vi è, di conseguenza, una difficoltà a giudicare: «La frontiera del bene e del male è svanita» (Ibidem), osserva Carrel, uno è sconcertato, non sa giudicare e la divisione regna ovunque. Potremmo fotografare in questo modo l’esito delle elezioni: la divisione regna ovunque. Il che è un segno dello sconcerto, della divisione, della frammentazione che viviamo nella società. Ma, attenzione, se questo inducesse a concludere: siccome c’è questa difficoltà, occorre dare alla gente le istruzioni per l’uso, perché è impossibile che essa arrivi a un giudizio, sarebbe la fine, si aggraverebbe in maniera definitiva il problema. Invece di invitare e di sfidare costantemente le persone a un impegno con il reale totale, affinché non vinca la pigrizia, affinché il centro dell’io non si fermi e venga fuori la personalità di ciascuno, diamo le istruzioni per l’uso, rendendo tutti più pigri. Complimenti! Pensiamo così di risolvere il problema? In realtà, introduciamo solo una sfiducia nella capacità di giudicare dell’io. E se, nel modo di educare, noi insinuiamo questa sfiducia, è finita! Diventeremo potenzialmente vittime della propaganda altrui, tutti. Chi assimila questa sfiducia nella sua capacità di giudicare sarà travolto da qualsiasi cosa e finirà in balìa delle opinioni di chi grida più forte.
Ma di nuovo don Giussani ci sorprende. A noi, infatti, sembrerebbe ovvio pensare che, quanto più è fondamentale, esistenzialmente decisiva la questione da affrontare, tanto più è difficile per il soggetto giudicare. No, no, no. È il contrario. «Quanto più un valore è vitale ed elementare nella sua importanza [quali sono i valori vitali ed elementari nella loro importanza?] - destino, affezione, convivenza [quindi anche la politica] - tanto più la natura dà a chiunque l’intelligenza per conoscere e giudicare» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 40). Leggendo don Giussani, si scopre sempre qualcosa di nuovo: avendo nuove domande, ci si sorprende di cose che erano sfuggite. Non è affatto vero che quanto più è vitale una questione tanto più siamo disarmati; no, no, no: tanto più la natura dà a chiunque l’intelligenza per conoscere e per giudicare. Perciò, come egli sottolinea nel terzo capitolo de Il senso religioso, «dall’esempio di Pasteur (...) mi pare risulti evidente che il cuore del problema conoscitivo umano non stia in una particolare capacità di intelligenza» (Ibidem), bensì in una posizione giusta, in un atteggiamento esatto (come lo definisce poco oltre). La questione allora è se noi, educativamente parlando, diamo fiducia a questa capacità che la natura ci ha donato o introduciamo una sfiducia, come fa il potere. Qui tocchiamo il punto nevralgico dell’educazione: dare fiducia alla capacità di giudicare che il Mistero ha messo dentro ciascuno di noi per affrontare i problemi più elementari e fondamentali del vivere, risvegliarla e sfidarla in continuazione. Il centro di tutto il problema è ridestare nell’altro la posizione giusta, l’atteggiamento esatto per permettergli di affrontare ogni questione. Qual è il primo segno che noi vogliamo bene all’altro? Che sollecitiamo la sua libertà, cioè gli trasmettiamo questa fiducia in se stesso, altrimenti l’affermazione dell’altro sono solo chiacchiere.
La certezza che il Mistero ha messo in ognuno di noi libertà e capacità di giudizio è quello che consente di capire fino in fondo che cosa ha fatto Cristo con l’uomo.

2. IL COMPITO DI CRISTO E DELLA CHIESA
Che cosa è venuto a fare Cristo? Scrive Giussani: «Gesù Cristo non è venuto nel mondo per sostituirsi al lavoro umano, all’umana libertà o per eliminare l’umana prova - condizione essenziale della libertà -. Egli è venuto nel mondo per richiamare l’uomo al fondo di tutte le questioni, alla sua struttura fondamentale e alla sua situazione reale». Incarnandosi, Cristo ha radicalizzato il metodo usato dal Mistero per risvegliare costantemente l’io, per suscitare quell’atteggiamento problematico e ridestare quell’interesse che può portare l’uomo a impegnarsi nel reale totale, in modo da cogliere il significato del vivere. Non è venuto per sostituirsi a noi, per fare di noi delle bambole, dei fantocci, ma per creare uomini. «Gesù Cristo è venuto a richiamare l’uomo alla religiosità vera, senza della quale è menzogna ogni pretesa di soluzione. Il problema della conoscenza del senso delle cose (verità), il problema dell’uso delle cose (lavoro), il problema di una compiuta consapevolezza (amore), il problema dell’umana convivenza (società e politica) mancano della giusta impostazione e perciò generano sempre maggior confusione [ecco l’origine della confusione] nella storia del singolo e dell’umanità nella misura in cui non si fondano sulla religiosità nel tentativo della propria soluzione», vale a dire sono affrontati senza la consapevolezza del nostro bisogno, della nostra originale dipendenza, cioè di quello che siamo. «Non è compito di Gesù risolvere i vari problemi [ci renderebbe ancora più fantocci], ma richiamare alla posizione in cui l’uomo più correttamente può cercare di risolverli. All’impegno del singolo uomo spetta questa fatica, la cui funzione d’esistenza sta proprio in quel tentativo» (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2011, pp. 124-125).
Possiamo così anche aiutarci a capire quale sia il vero rapporto tra l’«io» e il «noi», il singolo e la comunità. Quello che abbiamo richiamato è, infatti, lo stesso compito della Chiesa: «Se la Chiesa conclamasse come suo scopo quello [di dare soluzioni,] di battere in breccia lo sforzo umano di promozione, di espressione, di ricerca, farebbe (...) come quei genitori che si illudono di risolvere i problemi dei figli sostituendosi a loro» (L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., p. 204). C’è una modalità di dire «noi», c’è una modalità di trattarci tra di noi, di guidare una comunità, che è analoga all’atteggiamento di quei genitori con i figli. Giussani ci avverte che si tratta di una illusione. «Sarebbe anche per la Chiesa un’illusione, poiché verrebbe così meno al suo compito educativo». Capire il compito educativo è decisivo, se vogliamo generare un soggetto in grado di stare davanti alla situazione sociale, culturale, politica, in modo tale da non essere travolto dal torrente delle circostanze. «Sarebbe inoltre, da una parte, svilire la storia essenziale propria del fenomeno cristiano, dall’altra, depauperare il cammino dell’uomo». C’è una modalità di intendere il cristianesimo che è un depauperare il cammino dell’uomo. «La Chiesa, dunque, non ha come compito diretto il fornire all’uomo la soluzione dei problemi che egli incontra lungo il suo cammino. (...) La funzione che essa dichiara sua nella storia [come continuazione della presenza di Gesù nella storia] è l’educazione al senso religioso dell’umanità [cioè al bisogno, alla consapevolezza del nostro essere] e abbiamo visto anche come ciò implichi il richiamo a un giusto atteggiamento dell’uomo di fronte al reale e ai suoi interrogativi [ai suoi problemi, perché questo atteggiamento] (...) costituisce la condizione ottimale per trovare più adeguate risposte a quegli interrogativi». Giussani insiste: «La gamma dei problemi umani non potrebbe essere sottratta alla libertà e alla creatività dell’uomo, quasi che la Chiesa dovesse dar loro una soluzione già confezionata [appunto: istruzioni per l’uso], perché in questo modo essa verrebbe meno al suo primigenio atteggiamento educativo e toglierebbe valore [al] tempo» (Ivi, pp. 204-205).
La tentazione dell’uomo di chiedere la soluzione dei problemi non è nuova. Giussani porta l’esempio dei due fratelli che vanno da Gesù: «Di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». È lo stesso che domandare: «Mi puoi dire chi votare? Perché non me lo dici?». E Gesù risponde: «Chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi? Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12,13-15). L’episodio, commenta Giussani, «suggerisce che, benché la cosa sia riportata solo da Luca, non doveva essere inusuale che qualcuno si riferisse a Gesù, come spesso si faceva con coloro che si riconoscevano maestri, per risolvere liti e controversie. Tanto è istintivo nell’uomo pensare di aver trovato la sorgente di soluzione dei problemi! [Impressionante!] Gesù sgombera subito il campo da quest’equivoco e, proprio Lui che si era manifestato più volte giudice autorevole [non si era sottratto a giudicare in tante altre questioni] (...) sfidando l’opinione pubblica (...), in questo caso tiene a dichiarare decisamente che non tocca a Lui arbitrare quella questione. Certo il suo interlocutore deve essere rimasto sconcertato [come tanti di noi davanti al non dare le indicazioni per il voto, lo capisco bene], e Gesù subito non tralascia di adempiere ciò che a Lui invece tocca fare» (L. Giussani, Perché la Chiesa, op. cit., pp. 205-206). Per questo la Chiesa, in continuità con Gesù, dice che su queste cose, oltre a richiamare all’atteggiamento a cui richiama Gesù, non ha altro da aggiungere. Ciò non vuol dire che Gesù, per il fatto che non risolve il litigio, non dica niente, non faccia nessuna proposta. Pensate forse che se avesse dato la soluzione avrebbero finito di litigare? Avrebbero incominciato! E pensate che se avessimo dato le indicazioni per il voto, sarebbero finiti i problemi? Prevedibilmente, se qualcuno di noi si fosse rivolto all’autorità del movimento per ricevere una chiara indicazione elettorale e questa avesse detto per chi votare, quello stesso, se l’indicazione non avesse coinciso con quanto aveva già pensato e deciso in cuor suo, avrebbe subito obiettato: «Ah, no! Quel partito proprio no!». Ora, Gesù, comportandosi in quel modo coi due fratelli, non è che non proponga niente, ma dice: se volete risolvere la questione, non chiedetemi la soluzione, domandatevi piuttosto qual è l’atteggiamento da avere per affrontare la questione in modo giusto, non attaccatevi cioè a ciò da cui la vostra vita non dipende. Gesù sta dunque dicendo che, se il loro criterio di giudizio non è centrato, se non sono nell’atteggiamento giusto, non potranno risolvere il litigio, non potranno arrivare a una soluzione adeguata. «Cristo, come la Chiesa (...), non è venuto a risolvere i problemi della giustizia, ma a porre nel cuore dell’uomo quella condizione senza la quale la giustizia di questo mondo potrebbe avere la stessa radice dell’ingiustizia» (Ivi, p. 206). Tante volte questo ci sembra poco - l’abbiamo visto anche in questi tempi -: quello che dice Gesù ci sembra poco, non sufficientemente concreto, rispetto al bisogno che avremmo (di non sbagliare mossa all’ultimo metro prima del traguardo). Ma Giussani, che ci conosce come se ci avesse partorito, osserva: attenzione, «non è comunque uguale a zero la funzione di Cristo e della Chiesa nei riguardi dei problemi degli uomini [è un contributo reale, è una proposta essenziale; essa però] (...) non è la formula magica per evitare meccanicamente tali delitti [rispetto ai due fratelli o alla giustizia], ma è il fondamento perché la soluzione sia più facilmente umana». Da che cosa si riconosce l’umanità della soluzione? «Va riaffermato che proprio la libertà è il sintomo essenziale dell’umanità della soluzione: la libertà nel suo senso pregnante, potente e completo, quella cui Cristo e la Chiesa richiamano, quella dell’uomo vigile, con l’occhio attento e l’animo spalancato di fronte alla sua origine e al suo destino» (Ivi, pp. 206-207).
In queste parole troviamo compiuta risposta alla domanda sul rapporto tra l’«io» e il «noi». C’è una modalità del rapporto tra l’io e il noi che porta a un’esaltazione dell’io, a una capacità di giudicare (come per i due fratelli), e ce n’è una (come per i genitori dell’esempio) che si sostituisce all’io, così che non viene fuori la personalità, non si genera un soggetto capace di giudizio. Il rapporto tra l’io e il noi si può stabilire in tanti modi. Per questo se noi non ci aiutiamo a capire il nesso, a stabilire con chiarezza quale sia il vero rapporto tra l’io e il noi, ritorniamo a inciampare.
Stanno emergendo questioni decisive per il nostro cammino, che occorre chiarire, e non per rimproverarci qualcosa. Quando Giussani diceva che quello che era accaduto all’inizio, il seguire l’imponenza di una presenza («il movimento è nato da una presenza che si imponeva e portava alla vita la provocazione di una promessa da seguire»), era diventato “organizzazione”, coglieva nella nostra esperienza qualcosa di distorto. Questo non voleva dire che non ci dovesse più essere il «noi», ma che c’era un modo del «noi» che non era adeguato all’io. L’alternativa a un noi distorto non è togliere il noi per sottolineare l’io, ma è ritrovare le ragioni di un noi che sia adeguato alle esigenze dell’io. Affermare l’io non è andare contro il noi. Il problema è che immagine del noi abbiamo nel nostro modo di pensare la politica, di affrontare le elezioni, di accompagnarci, di vivere la comunità, di vivere una Fraternità, di vivere l’amicizia, di vivere i rapporti in famiglia. Qual è la natura del noi? Per questo, quando qualcuno mette in contrasto l’io e il noi sbaglia, perché nessuno vuol togliere il noi dall’esperienza: il problema è chiarire di quale noi stiamo parlando. Allora smettiamola di dire che si contrappone l’io al noi per continuare a non cambiare. Non si contrappone nulla. Si contrappone, questo sì, un noi a un altro noi. Quando don Giussani diceva che Cl era diventata un’organizzazione, non stava dicendo che allora la comunità doveva diventare “liquida”, inconsistente, ma stava facendo una correzione precisa: diceva che la comunità non era più un luogo di generazione dell’io, che non era un noi adeguato alle esigenze dell’io. Un’organizzazione non risponderà mai alle esigenze dell’io - mai -. E se il noi non è un luogo adeguato all’io, a questo io un tale noi non interesserà più e cercherà un luogo altrove, volenti o nolenti; e non basterà difendere astrattamente il noi, perché la gente se ne fregherà; il criterio per giudicare, infatti, ciascuno lo ha dentro di sé.
Allora la questione non è soltanto affermare un noi, ma che tipo di noi, che tipo di comunità è necessaria per fare crescere degli io, perché sia adeguata all’io, perché riaccada un risveglio dell’io. E se non riaccade questo risveglio, finiremo tutti nella confusione. Invece, se sorgono questi io si può porre nella realtà un luogo di speranza. Per questo nella Nota sulle elezioni, ricordando quello che ci diceva Giussani, abbiamo richiamato che «il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza» (L. Giussani, Il Movimento di Comunione e Liberazione. Conversazioni con Robi Ronza, Jaca Book, Milano 1987, p. 118). Ma, attenzione a quello che lì viene detto, perché tutta la questione è negli aggettivi («comunità cristiana viva»): possono sorgere dei luoghi che sono come organizzazioni in cui l’io deperisce oppure si possono moltiplicare, dilatare comunità cristiane «vitali ed autentiche», che risvegliano l’io, che interessano l’io, che lo attirano, e così la comunità cristiana diventa uno dei protagonisti della vita civile. Che tipo di luoghi sono queste comunità in cui l’io fiorisce, che sono in grado di intercettare i bisogni originali dell’uomo e di offrire a essi una risposta adeguata? Se non ci aiutiamo in questo, finiremo col cambiare la parola d’ordine, ma di fatto non cambierà niente. Vorrei che ciascuno di noi ne avvertisse l’urgenza.
Dobbiamo maturare una coscienza piena di ciò che siamo, per poter costruire luoghi adeguati alla crescita dell’io e per non perpetuare luoghi che siano solo «organizzazione». Secondo me si gioca a questo livello la partita, ed è questo a cui don Giussani ci ha richiamato.
Nel 1969 Joseph Ratzinger diceva: «Dalla crisi di oggi verrà fuori domani una chiesa, che avrà perduto molto. Essa diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo. Essa non potrà più riempire molti degli edifici, che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta. Essa, oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. (...) Sarà una chiesa (...) che non mena vanto del suo mandato politico e non flirta né con la sinistra né con la destra. (...) Il processo infatti della cristallizzazione e della chiarificazione le costerà anche talune buone forze. La renderà povera, la farà diventare una chiesa dei piccoli. (...) Il processo sarà lungo e faticoso (...). Ma dopo la prova di queste divisioni uscirà da una chiesa (...) semplificata una grande forza» (J. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 1971, pp. 114-116). È quello che è successo al popolo di Israele: quando è stato spogliato di tutto, è venuto fuori quel «resto» di cui parlava in questi giorni Benedetto XVI, il resto di Israele. È quello che aveva detto anche don Giussani tanti anni fa: «Realmente - non per modo di dire, non intenzionalmente, ma realmente -, se rimanessimo in dieci invece di tutto il movimento questa volontà di verità del movimento ci lascerebbe dolorosamente intatti, dolorosamente nella pace e dolorosamente vivaci da cominciar da capo, da riprendere continuamente». Che cosa intende dire Giussani con questo esempio estremo? Che «il nostro atteggiamento non sarebbe determinato come euforia o come abbattimento, come esaltazione o come noia, o come delusione, dall’esito delle cose, dall’esito sociale delle cose» (Consiglio nazionale di Cl, Milano, 15-16 gennaio 1977). Per questo è come se noi, per tutto quanto stiamo vivendo, dovessimo ripartire con semplicità dal porre di nuovo dei gesti, dei luoghi, in cui nascono delle persone nuove, diverse. Questo ci introduce all’ultimo punto.

3. LA PERTINENZA DELLA FEDE ALLE ESIGENZE DELLA VITA
Non basta qualsiasi noi, non basta qualsiasi luogo, perché possiamo diventare un’associazione invece che un movimento, e possiamo ripartire senza avere imparato niente. È qui dove si uniscono la sfida dell’Anno della Fede, il Sinodo con la sua chiamata alla conversione e il gesto della rinuncia del Papa. Amici, se noi non verifichiamo proprio in questa situazione che stiamo attraversando la pertinenza della fede alle esigenze del vivere, la nostra fede non potrà resistere e noi non avremo le ragioni adeguate per essere cristiani. Potremo non andarcene da Cl, ma il nostro interesse si sposterà altrove: non sarà più Cristo il centro della nostra affezione, non sarà più Cristo ciò che abbiamo di più caro. La sfida di don Giussani sarà sempre lì, davanti ai nostri occhi: o la fede è un’esperienza presente confermata da essa... E qual è la conferma? Che è utile a rispondere alle esigenze della vita, dall’educazione dei figli alla politica, dal problema della malattia al problema del lavoro, dal problema più personale a quello sociale. Se non fosse per questo, non sarebbe una fede in grado di resistere in un mondo dove tutto, tutto, dice il contrario.
Se per noi l’esperienza della fede non è la scoperta costante della pertinenza di essa alle esigenze della vita, perciò alle esigenze che abbiamo nel lavoro o davanti alle elezioni, si introduce l’inizio del dualismo. È qui dove si colloca la sfida: Cristo è così reale da poter rispondere alle nostre esigenze? È così reale - come ci testimonia sant’Ambrogio - da mettere un uomo nelle condizioni di sfidare l’imperatore, da renderlo libero fino a quel punto? La vita dell’uomo si regge su una soddisfazione, come ci ha ricordato san Tommaso: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione» (cfr. Summa Theologiae, II, IIæ, q. 179, a. 1). Allora, o noi facciamo esperienza di una reale soddisfazione, perché Cristo non è astratto ma reale - come il Papa ci ha testimoniato con il suo gesto - o noi, non avendo questa soddisfazione, la cercheremo altrove, nelle briciole del potere. Ma le briciole sono troppo poco per la capacità dell’animo. Se Cristo non è l’esperienza che ci soddisfa, dipendiamo come tutti dall’esito delle altre cose: delle vicende elettorali o della propria carriera o dei propri progetti. Soltanto prendendo sul serio tutto il nostro bisogno possiamo capire che cos’è veramente la proposta cristiana, che razza di promessa fa alla vita la presenza di Cristo. Altrimenti siamo come tutti: quando le cose vanno bene siamo contenti e quando vanno male siamo delusi. Mai liberi! Perché la libertà del gesto del Papa poggia su un pieno, su quella pienezza che viene dal rapporto con Cristo presente. Quando manca la consapevolezza di quello che siamo e non accettiamo la problematicità della vita, da cui viene fuori l’esigenza di totalità del nostro io, non ci rendiamo neanche conto di che cosa sia Cristo, di quale sia il valore di Cristo per noi. Ma allora è a rischio la fede: il problema è che Cristo non è in grado di prendere l’io, e se non lo prende diventiamo delle mine vaganti.
È il momento perciò di tirare le fila, cioè che ciascuno guardi se stesso e dica: ma io da tutto questo periodo, da questo anno, in cui siamo stati sfidati senza tregua, sono venuto fuori con più certezza di Cristo o no? Perché altrimenti, contenti o abbattuti, abbiamo perso tempo. Ci agitiamo di qua e di là, ma siamo potenzialmente delusi della fede: la fede si svuota perché non vediamo nella nostra esperienza la pertinenza di essa alle esigenze del vivere. Non si riparte cambiando semplicemente la parola d’ordine o la strategia, ma solo convertendosi. Se non ci convertiamo, se non facciamo un’esperienza reale di Cristo presente, noi ripetiamo riduzioni ed errori già sperimentati.
Questo ultimo anno trascorso è una potentissima chiamata di Dio alla conversione e perciò a quella esperienza di pienezza e di libertà, generata dalla presenza contemporanea di Cristo, che sola è capace di sfidare l’immagine che tanti hanno di noi: un gruppo politico alla ricerca del potere. Se non facciamo l’esperienza di questo compimento, di questa diversità umana, non potremo rispondere alla sfida della situazione.
Che tale esperienza sia possibile ce lo ha messo davanti agli occhi il Mistero con il gesto disarmante di Benedetto XVI, con il suo volto certo e lieto. Ciascuno può dire quello che vuole, ma dietro la porta di Castel Gandolfo che si chiudeva c’era la faccia lieta di un uomo. Che densità assume, ora, risentire quella frase famosa di sant’Ambrogio: Ubi fides, ibi libertas (Ep. 65,5). La fede è il riconoscimento di una presenza presente, così reale da rendere possibile la libertà, la letizia, la gioia. Questo è il significato del gesto del Papa.