«Volle venire Colui che si poteva accontentare di aiutarci»

Pagina Uno
Julián Carrón

Appunti dalla Sintesi conclusiva di Julián Carrón agli Esercizi spirituali per sacerdoti proposti da Comunione e Liberazione. Pacengo del Garda (Verona), 26 ottobre 2016

Più passa il tempo, più mi rendo conto di quanto sia vero ciò che afferma don Giussani sulla portata delle circostanze: esse non sono qualcosa di secondario, ma di essenziale per comprendere - possiamo dire sinteticamente - la natura del cristianesimo (cfr. L. Giussani, L’uomo e il suo destino, Marietti 1820, Genova 1999, p. 63).
Si tratta di una percezione che riscontriamo nelle persone più coscienti di ciò che sta capitando. Qualcuno citava di recente un famoso testo di Joseph Ratzinger, scritto negli anni Sessanta, sul fenomeno dell’ateismo, che egli percepiva come un richiamo per i cristiani a vivere una fede più consapevole: «In rapporto ai pagani moderni, il cristiano deve sapere che la loro salvezza è nascosta nella grazia di Dio, dalla quale dipende appunto anche la sua salvezza; egli deve sapere che per quanto riguarda la loro possibile salvezza non si può dispensare dalla serietà della sua propria esistenza di fede, che anzi la loro mancanza di fede deve spingerlo ad una sua fede più piena, poiché si sa coinvolto nella funzione di rappresentanza di Gesù Cristo, dalla quale dipende la salvezza del mondo e non solo quella dei cristiani» (J. Ratzinger, «I nuovi pagani e la Chiesa», in Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1992, p. 362).
Molti anni dopo, Ratzinger descriveva con perentoria lucidità l’esito del tentativo, durato secoli, di mettere i valori universali (introdotti dal cristianesimo) al riparo dai conflitti religiosi scatenatisi dopo la Riforma, staccandoli dal fatto storico che li aveva fatti emergere e resi evidenti. Nell’approfondirsi delle contrapposizioni tra le confessioni e nella sopravveniente crisi dell’immagine di Dio, fu compiuto il tentativo di sottrarre i valori essenziali della morale alle contraddizioni, cercando per essi un’evidenza autonoma, che li rendesse indipendenti dalle contese e incertezze delle varie filosofie e confessioni. Al momento le grandi convinzioni di fondo create dal cristianesimo sembrarono resistere e mantenersi nella loro innegabilità. Ma, concludeva Ratzinger, «la ricerca di una tale rassicurante certezza, che potesse rimanere incontestata al di là di tutte le differenze, è fallita» (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, LEV-Cantagalli, Roma-Siena 2005, pp. 61-62).
Un altro osservatore acutissimo come Henry de Lubac scriveva che tanti tentativi della società moderna «conservavano spesso (...) molti valori di origine cristiana, ma poiché avevano separato questi valori dalla loro sorgente, non furono in grado di mantenerli nella loro forza e nemmeno nella loro originale integrità. Spirito, ragione, libertà, verità, fratellanza, giustizia: queste grandi cose senza le quali non c’è vera umanità, che il paganesimo antico aveva intravisto e che il cristianesimo aveva fondate, diventano presto irreali [impressionante: irreali!] nel momento in cui non appaiono più come un irradiamento di Dio e la fede nel Dio vivente non le alimenta più con la sua linfa». O continuano a presentarsi come irradiamento di Dio o diventano irreali. Non penso che lo si possa dire in un modo più cogente: irreali. «Diventano allora forme vuote e ben presto si riducono a un ideale senza vita», perché «senza Dio, la verità stessa è un idolo, la stessa giustizia è un idolo. Idoli troppo puri e troppo pallidi rispetto agli idoli di carne e di sangue che si rialzano; ideali troppo astratti rispetto ai grandi miti collettivi che risvegliano gli istinti più potenti» (H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, vol. 2, Jaca Book, Milano 1992, p. 59).
Per vivere la nostra fede oggi non possiamo prescindere da questa consapevolezza, documentata dagli spiriti più attenti del nostro tempo.
All’origine del cambiamento d’epoca che stiamo attraversando c’è dunque questa separazione delle cose più vere - che hanno caratterizzato per secoli la nostra storia - dalla loro sorgente. È stato questo il tentativo illuministico, come dicevamo già il primo giorno citando G.E. Lessing: «Casuali verità storiche non possono mai diventare la prova di necessarie verità razionali» («Sul cosiddetto “argomento dello spirito e della forza”», in La religione dell’umanità, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 68). Kant si è mosso sulla stessa linea: «Una fede storica, semplicemente fondata su fatti, non può estendere la sua influenza al di là del limite di tempo e di luogo cui possono giungere le notizie che consentono un giudizio sulla sua credibilità» (La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 2014, p. 110).

Che cosa c’entrano queste osservazioni con un corso di Esercizi spirituali, con quanto è accaduto tra di noi in questi giorni? C’entrano anzitutto perché potremmo avere vissuto dualisticamente questo momento - da una parte il sapere, le provocazioni della storia, dall’altra il credere, l’annuncio cristiano -, collocando l’esperienza degli Esercizi spirituali come “a lato” della sfida indicata da Ratzinger, da de Lubac o da papa Francesco quando parla di un cambiamento di epoca, riducendo conseguentemente la consapevolezza e la portata di ciò che abbiamo vissuto. Cerchiamo allora di guardare che cosa è capitato.
Abbiamo detto che senza un’esperienza della misericordia il dualismo tra il sapere e il credere non viene vinto. Per questo la prima verifica riguarda noi: che cosa è successo tra di noi, che cosa è successo in ciascuno di noi? Dobbiamo renderci conto di tutti i fattori dell’esperienza che abbiamo vissuto, altrimenti finiremo con il ridurla. Diremo: «Quello che abbiamo ascoltato va bene per noi», ma davanti all’incalzare di una certa mentalità, davanti alla portata delle sfide culturali, questo è troppo fragile; è troppo sommesso il metodo, è adeguato a degli Esercizi spirituali, ma per affrontare il mondo ci vuole altro.
In questo senso, mi sembra decisivo quello che don Giussani ci sta aiutando a capire, vale a dire che la questione del cambiamento d’epoca rende necessario comprendere il rapporto tra appartenenza ed espressione culturale. Se non cogliamo fino in fondo questo nodo, finiremo per riproporre le stesse soluzioni, gli stessi tentativi che si sono già rivelati fallimentari nel nostro passato. Attenzione, questo riguarda la nostra vita quotidiana, perché nel modo con cui siamo preti noi poniamo davanti a tutti un’espressione culturale, cioè documentiamo una certa modalità di porci nel reale. L’espressione culturale “esprime” il nostro essere preti, cioè l’appartenenza che viviamo, la concezione della fede che abbiamo. Di fronte a quello che accade, possiamo anche noi, pur ripetendo parole giuste, cercare di proporre alle persone le «grandi cose» di cui diceva de Lubac, ma staccate dalla loro origine, dalla loro sorgente, dal metodo attraverso il quale il Mistero le ha comunicate agli uomini. Anche noi possiamo usare un metodo diverso da quello scelto dal Mistero, possiamo cioè replicare quel metodo che le ha fatte diventare «irreali», «forme vuote» agli occhi dei nostri contemporanei. Io penso che la Chiesa non abbia davanti a sé una sfida più potente di questa, ed essa riguarda anche noi.
Perciò la prima cosa da considerare è quale esperienza abbiamo fatto: la partenza è sempre dalla nostra esperienza. Che cosa ha spalancato la nostra ragione, facendocela usare in modo adeguato, che cosa ha fatto emergere tutta la nostra capacità di fraternità? Che cosa c’entrano tutte le osservazioni sull’epoca attuale con ciò che abbiamo vissuto in questi giorni? Che cosa c’entrano la nostra libertà, il nostro desiderio di verità e di giustizia con questi nostri Esercizi? Da dove nascono le «grandi cose» di cui abbiamo parlato, qual è la loro sorgente? Se non cogliessimo il nesso, l’appartenenza in cui pure ci siamo immersi in questi giorni resterebbe un atto “devoto”, più o meno intimistico, e non riguarderebbe la nostra capacità di sapere, cioè di conoscere la realtà; sarebbe la vittoria in noi della frattura tra il sapere e il credere.
La storia ci ha dimostrato che senza la permanenza di Colui che le fa sorgere, le cose più belle, più grandi, più vere, quelle che più ci affascinano, diventano irreali, crollano nella loro evidenza: non le vediamo più, non le tocchiamo più, sembrano non esserci più. A questo proposito, che cosa ci dice la frase di san Bernardo citata da padre Lepori durante questi Esercizi? «“Volle venire Colui che si sarebbe potuto accontentare di aiutarci”. (...) Sì, Dio avrebbe potuto accontentarsi di soccorrere la nostra miseria, il nostro bisogno. Avrebbe potuto salvare tutta l’umanità con un solo pensiero, con una sola parola. Come all’inizio ha detto “Sia la luce” e la luce fu, avrebbe potuto dire “Sia la Salvezza”, e tutti saremmo salvi. Non era necessario che entrasse nel tempo, nella storia che Lui stesso ha creato, che il Creatore entrasse nella creazione, che si accompagnasse ad essa, che il Verbo che poteva realizzare tutto con una sola parola, si facesse carne, uomo, vita di un uomo, non solo per trentatré anni, ma per tutto il tempo della Chiesa, suo Corpo, per tutto il tempo del dipanarsi ecclesiale, eucaristico, apostolico, della sua Presenza. Ma ha voluto così, lo ha fatto. Si è fatto “Fatto”; è avvenuto, è accaduto come “Avvenimento”» (M.G. Lepori, «Riconoscere Cristo, misericordia del Padre», il volume è in corso di pubblicazione per Itaca).
«Volle venire Colui che si sarebbe potuto accontentare di aiutarci» (san Bernardo di Chiaravalle, In vigilia Nativitatis Domini, Sermo III,1, PL 183). Con questa frase san Bernardo ci sta dicendo l’essenziale del metodo di Dio, tutta la sua portata. Non riduciamola a una frase pia, devota, a cui magari aderiamo cordialmente - nessuno lo mette in dubbio -, ma senza lasciarci sfidare fino in fondo. Don Giussani parlava in proposito di «coincidenza fra contenuto e metodo tipica della rivelazione cristiana» (L. Giussani, «Il metodo di una Presenza», Tracce, n. 1/2003, p. 108).
La circostanza storica che stiamo vivendo ci aiuta a cogliere tutta la portata dell’osservazione di san Bernardo. Oggi capiamo con chiarezza fino a che punto, diversamente da quanto pensava Lessing, era necessario un fatto storico per farci scoprire necessarie verità razionali. Perché è venuto Colui che si sarebbe potuto accontentare di aiutarci senza entrare nel tempo? È venuto perché, per la nostra debolezza mortale, la nostra umanità non riesce a mantenersi all’altezza di ciò per cui è fatta: la nostra ragione si offusca, la nostra libertà si rattrappisce, la nostra affezione si blocca. Senza la presenza di Colui che le fa risplendere, le «grandi cose senza le quali non c’è vera umanità» (spirito, ragione, libertà, verità, fratellanza, giustizia) diventano irreali: è Cristo che ci fa scoprire che cos’è la ragione, perché la spalanca con la Sua presenza; che ci fa scoprire che cosa è la libertà, perché la compie riempiendoci della Sua attrattiva; che ci fa scoprire che cos’è la comunione, la fraternità, perché ci rende una cosa in Lui. Ecco perché l’unica possibilità affinché queste «grandi cose» diventino accessibili all’uomo è che siano, come ci ricorda de Lubac, «irradiamento di Dio» attraverso l’umanità di Cristo. Per questo ha mandato suo Figlio: volendoci aiutare davvero, Dio non si è accontentato di fare diversamente, ha voluto diventare avvenimento nella vita dell’uomo.

Il Signore ci fa scoprire tutto questo dall’interno di un’esperienza. Per questo ha voluto venire ed è questo che lascia stupefatti, come diceva padre Lepori: «È con sorpresa, è con stupore che san Bernardo esclama, e certamente ripete a se stesso continuamente, “Venire voluit, qui potuit subvenire”. Non sta capendo qualcosa, sta guardando un fatto, un avvenimento incredibile. Sta ammirando la “mirabile misericordia”, si riempie di stupore di fronte alla misericordia di Dio che si manifesta in Cristo». La fede è questo riconoscimento pieno di stupore, l’apertura a «lasciar venire Cristo in casa nostra, nella nostra vita, nella vita dei nostri cari, nella vita del mondo, per salvarci. (...) La fede comincia quando ci si arrende a questo stupore, e si fa come i bambini che quando sono di fronte alla bellezza spalancano gli occhi, la bocca, le narici, allargano le braccia, tendono le mani, in un istintivo aprirsi, in un farsi capienza di ciò, di chi ci sorprende, per lasciarsene riempire, per lasciar venire in noi la bellezza buona che ci sorprende» (M.G. Lepori).
A che cosa siamo invitati, dunque? A lasciare che ci pervada - sempre e prima di ogni altra cosa - il Suo sguardo che ci chiama per nome. Da questo nasceva in Pietro il riconoscimento di Colui che lo aveva riconosciuto per primo, che riconosceva Pietro e che riconosce anche noi. «Sul riconoscimento di Cristo (...), il punto di riferimento inesauribile è l’esperienza di Pietro, tanto ripresa e approfondita nel nostro cammino. Anche lui, soprattutto lui, ha dovuto fare un’esperienza fondamentale - fondamentale per lui e quindi per tutta la Chiesa - di riconoscere Colui che lo riconosceva. Pochi santi, pochi discepoli hanno avuto tante prove di come Gesù ci conosce “prima” quante ne ha avute Pietro» (M.G. Lepori).
Senza immergersi in questa esperienza, tutto diventa astratto; appunto, irreale. Allora, rispetto a quanto detto sull’epoca che viviamo, la questione è se noi, che abbiamo sperimentato questo sguardo - chi non ne ha sperimentato almeno una briciola? -, sottomettiamo la ragione all’esperienza, rendendoci conto che non possiamo comunicarlo ad altri in un modo diverso da come è avvenuto in noi: attraverso una testimonianza, in cui si rende presente a noi l’irradiamento di Dio. Possiamo collaborare con Cristo solo lasciandoci trascinare da Lui. La sequela è solo un lasciarsi trascinare, e per questo l’alternativa ad essa è la dialettica: o Giovanni o Giuda, cioè «due modi di vivere la sequela di Cristo, la discepolanza a Cristo. Giovanni le vive secondo Cristo, corrispondendo fino in fondo all’avvenimento incontrato; Giuda secondo una propria concezione dell’avvenimento, secondo una propria interpretazione di Cristo» (M.G. Lepori).
In gioco qui, amici, c’è precisamente la fede: non le conseguenze che possiamo trarre noi, ma l’origine. Per questo, ponendo la questione del rapporto tra l’appartenenza e l’espressione culturale, don Giussani vi risponde con il «sì» di Pietro, sfidandoci radicalmente: «Il capitolo ventunesimo del Vangelo di Giovanni è la documentazione affascinante del sorgere storico dell’etica nuova. La storia particolare che vi si documenta è la chiave di volta della concezione cristiana dell’uomo, della sua moralità, nel suo rapporto con Dio, con la vita, con il mondo» (L. Giussani-S. Alberto-J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, p. 82). Dobbiamo cogliere il significato decisivo di questa affermazione, altrimenti il nostro modo di vivere la fede sarà dualistico, volenti o nolenti; anche se parliamo in continuazione del «sì» di Pietro, comunicheremo la morale e la cultura come se esse nascessero da un’altra fonte, non dall’immergersi nell’avvenimento di una storia particolare.
La vera sfida che abbiamo davanti è questa: prendere coscienza che non possiamo prescindere da una «storia particolare» - riconosciuta come metodo - per vivere e trasmettere la concezione cristiana, per vivere e trasmettere la morale, la cultura, perché senza Presenza - dice Giussani parlando del «sì» di Pietro -, senza adesione a una Presenza non c’è morale, i valori non attecchiscono in noi, non entrano nelle nostre viscere e diventano prima o poi «irreali». Senza l’incontro con Cristo che mi spalanca costantemente gli occhi, io guardo come tutti, non si spaccano i miei pregiudizi e non cambia la mia mentalità, rimane come quella di tutti. Difendendo i valori, di cui parlava de Lubac, ma staccati dalla loro origine storica, anche in noi essi possono diventare irreali, «diventano allora forme vuote e ben presto si riducono a un ideale senza vita […]. Idoli troppo puri e troppo pallidi rispetto agli idoli di carne e di sangue che si rialzano; ideali troppo astratti rispetto ai grandi miti collettivi che risvegliano gli istinti più potenti». Senza la presenza di Cristo qui e ora - lo abbiamo verificato anche nell’esperienza di questi giorni -, né l’antropologia cristiana, né la morale cristiana hanno presa e attecchiscono in noi. Perciò occorre un grembo, occorre un luogo - la Chiesa, la nostra compagnia, una storia particolare - in cui la Sua presenza contemporanea si renda evidente, sperimentabile, e plasmi la nostra ragione, attiri la nostra libertà, educhi il nostro sguardo.

La vera decisione da prendere, allora, è se noi acconsentiamo o non acconsentiamo alla Sua iniziativa, se seguiamo o non seguiamo. Che cosa ci è stato proposto in questi giorni da padre Lepori? «La sequela è proprio un lasciarci trascinare dal venire di Cristo nel mondo. Uno che si stupisce perché Dio ha voluto venire quando si sarebbe potuto accontentare di mandarci degli aiuti, segue. Cosa può fare d’altro che seguire? Che seguire questa Presenza nel suo continuo, gratuito e incondizionato venire al mondo, venire a salvarci e non solo ad aiutarci?». A questo punto, si introduce il tema dell’autorità. Chi è autorità? L’autorità è Cristo.
Autorità è il metodo con cui Cristo fa le cose. L’autorità è Cristo che ha introdotto alla concezione cristiana in un certo modo, attraverso un determinato metodo: diventando carne. «Volle venire Colui che si sarebbe potuto accontentare di aiutarci». Che portata hanno queste parole! Ma queste cose chi le coglie? Chi coglie la portata del «sì» di Pietro e il fatto che una storia particolare è la chiave di volta della concezione cristiana?
Seguire l’autorità è obbedire al metodo usato da Dio, lo stesso metodo usato e proposto dal carisma che ci ha raggiunti. Non pensate che don Giussani sia un ingenuo quando ci parla del «sì» di Pietro, perché sta dialogando precisamente con la cultura moderna. Ascoltiamo che cosa dice: «La cultura di oggi ritiene impossibile conoscere, cambiare se stessi e la realtà “solo” seguendo una persona [cioè ritiene impossibile il cristianesimo]. La persona, nella nostra epoca, non è contemplata come strumento di conoscenza e di cambiamento, essendo riduttivamente intesi, la prima [la conoscenza] come riflessione analitica e teorica, e il secondo [il cambiamento] come prassi e applicazione di regole» (L. Giussani, «Dalla fede il metodo», Tracce, n. 1/2009, p. III). Questa era la posizione illuministica e questo è in gioco oggi, poiché - come abbiamo visto - le verità universali che si volevano difendere astrattamente sono diventate irreali. Quel tentativo è fallito, proprio perché la persona non era più contemplata come strumento di conoscenza. Ma anche oggi la ragione viene illuministicamente concepita solo «come riflessione analitica e teorica», per cui noi possiamo conoscere senza avere bisogno di seguire qualcuno, senza l’incontro vivente e decisivo con un altro: basta una «riflessione analitica e teorica»; e insieme a ciò, per cambiare bastano delle regole da applicare, il cambiamento essendo inteso come prassi e come applicazione di regole. Questa posizione può insinuarsi anche in un contesto cristiano. Come dire: «Le regole ci sono state date, a noi non resta che applicarle e farle rispettare agli altri. Non c’è bisogno d’altro!». Ma è preoccupante quando si vuole promuovere questo non con altre parole, bensì con le parole cristiane: con le stesse identiche parole, con gli stessi ingredienti, si ottiene così una minestra totalmente diversa.
Da dove parte don Giussani per rispondere al problema della ragione, della conoscenza e della morale? «Invece Giovanni e Andrea, i primi due che si imbatterono in Gesù, proprio seguendo quella persona eccezionale hanno imparato a conoscere diversamente e a cambiare se stessi e la realtà». Non attinge la risposta da un qualche dizionario di filosofia o di morale, da un qualche testo arcano: «Invece Giovanni e Andrea...», egli cerca la risposta nell’esperienza dei primi che Lo hanno seguito, così come è descritta dal Vangelo, non riducendo quell’esperienza a intimismo. «Giovanni e Andrea» sono la chiave di volta del metodo di Dio, indicano la modalità attraverso cui noi stessi possiamo conoscere, esattamente come è accaduto a loro. «Invece Giovanni e Andrea (...), proprio seguendo quella persona eccezionale hanno imparato a conoscere diversamente e a cambiare se stessi e la realtà. Dall’istante di quel primo incontro il metodo ha incominciato a svolgersi nel tempo.» (ibidem, pp. III, V)
Don Giussani insiste: «La nostra compagnia è definita da un metodo. Si può affermare che la “genialità” del nostro movimento è tutta nel suo metodo [non nel metodo inteso come un insieme di istruzioni e di formule da ripetere, ma come sequela della modalità con cui Lui si comunica fin dal primo incontro]. Per questo è innanzitutto una “genialità” di tipo educativo, essendo il metodo la strada attraverso cui un uomo [un uomo!] giunge ad avere coscienza della esperienza che gli viene proposta. È proprio salvaguardando l’autenticità del metodo che il contenuto della nostra esperienza può essere trasmesso». Qui vediamo come don Giussani affronti e superi la posizione di Lessing, emblematica della modernità, cioè la frattura sapere-credere, riaffermando il metodo di Dio: «È (...) salvaguardando l’autenticità del metodo [usato da Dio] che il contenuto [la verità] della nostra esperienza può essere trasmesso». Non c’è un’altra strada. E noi dobbiamo decidere se seguirla oppure no: questo è decisivo per noi, per la Chiesa e per il mondo. «Il metodo ha origine dalla fede, che è il riconoscimento nella propria vita di una presenza eccezionale che c’entra con il destino. La fede [infatti] giunge a investire tutto l’orizzonte della vita attraverso il rapporto con una presenza che corrisponde al cuore» (ibidem, p. II). È questa la portata epocale della frase di san Bernardo. «Se non ci apriamo a questa esperienza, parlare di misericordia, (...) perdonare i nemici, dare la vita per gli altri, tutto diventa astratto, tutto scivola in un moralismo e in una ideologia» (M.G. Lepori).
La vera decisione, dunque, è se noi assecondiamo questo metodo, sottomettendoci all’esperienza, come hanno fatto Giovanni e Andrea: Lo hanno seguito perché si sono arresi all’esperienza che facevano. Dopo averLo incontrato non hanno dovuto andare a cercare altrove la cultura e la morale, non hanno avuto bisogno di attingere fuori dalla loro esperienza i criteri per giudicare e affrontare le provocazioni del reale. Insomma, non è stato necessario staccarsi dal rapporto con Lui, dalla Sua presenza storica, per conoscere la verità e per essere morali. Era tutto in quel rapporto: i discepoli non hanno separato l’esperienza vissuta con Lui dal giudizio, non hanno staccato la storia particolare, che era l’incontro con Lui, dall’emergere della verità, perché l’esperienza porta dentro di sé il giudizio, altrimenti non è esperienza: rimarrebbe il puro «provare» non giudicato, inutile per la conoscenza.
L’esperienza «porta le sue ragioni», diceva Giussani (Vivendo nella carne, Bur, Milano 1998, p. 211). E «ciò che sfida la società (...) non può essere che una esperienza che veicoli, porti sul suo frontespizio le sue ragioni» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza. 1975-1978, Bur, Milano 2006, p. 295). Ma proprio questo fatica a «passare» in noi, tanto è vero che vediamo ripresentarsi certi problemi del passato. Gli altri potevano esserne consapevoli oppure no, ma a don Giussani era ben chiaro fin dalla metà degli anni Sessanta che dall’interno della stessa appartenenza possono fiorire due modi di vivere la fede, che si documentano in una diversa espressione culturale: «Coloro, che poi avrebbero lasciato GS, ponevano l’accento su una concezione secondo cui il cristianesimo veniva in pratica inteso come una forma di impegno morale e sociale. Così facendo, essi perdevano di vista la stessa natura specifica del fatto cristiano, e quindi finivano inevitabilmente per riporre la loro speranza nell’azione e nell’organizzazione dell’uomo, e non nel gesto gratuito con cui Dio ha scelto di entrare nella storia» (L. Giussani, Il movimento di Comunione e Liberazione 1954-1986. Conversazioni con Robi Ronza, Bur, Milano 2014, p. 62).
In ogni epoca si ripropone lo stesso dramma, dagli inizi fino ad ora. Non è diverso. «Invece Giovanni e Andrea...»: questa espressione di Giussani ci accompagnerà sempre. «Invece Giovanni e Andrea, i primi due che si imbatterono in Gesù, proprio seguendo quella persona eccezionale hanno imparato a conoscere diversamente e a cambiare se stessi e la realtà»! Questa è la grazia che ci è stata data: un’esperienza che ci consente di cogliere tutta la portata del metodo di Dio, la sua utilità per superare l’inghippo moderno che ha generato il clima in cui viviamo, per cui le cose più sacrosante sono diventate irreali. Un’esperienza che ci impedisce di illuderci di poter risolvere questa mancanza di realtà usando lo stesso metodo che ha generato il problema, che ha condotto le «grandi cose» portate da Cristo a diventare irreali.

Aiutiamoci a comprendere queste cose, per non diventare a nostra volta parte del problema; non per cattiveria - ci mancherebbe! -, ma perché non ci rendiamo conto di che cosa è in gioco. Immaginate quale responsabilità abbiamo per il compito a cui siamo stati chiamati con il nostro ministero! Possiamo viverlo diversamente - senza che debba cambiare niente in termini di circostanze e di sforzi -, semplicemente affrontando le incombenze quotidiane con una novità dentro, avendo cioè come contenuto della nostra coscienza la Sua presenza presente, come ha fatto Gesù: «L’uomo Gesù di Nazareth - investito dal mistero del Verbo e perciò assunto nella natura stessa di Dio (ma la sua apparenza era assolutamente uguale a quella di tutti gli uomini) -, questo uomo non lo vedevano fare un solo gesto senza che la sua forma dimostrasse la coscienza del Padre» (L. Giussani, «Un uomo nuovo», Tracce, n.3/1999, pp. VII, IX). La forma stessa della Sua testimonianza documentava il Suo rapporto costitutivo con il Padre. «Questa rivelazione del mistero del Verbo, che ci rivela il mistero dell’uomo, ci viene da Gesù solo in quanto è “nel seno del Padre”», ricordava padre Lepori.
Solo rivivendo in noi questa immedesimazione con il mistero di Cristo presente potremo rispondere al bisogno dei nostri fratelli uomini: «La testimonianza, la missione, è un amore al cammino dell’uomo, all’unità del gregge di Dio, alla crescita dei nostri fratelli e sorelle, dell’umanità intera, che è possibile solo rimanendo attaccati con tutta la nostra sete di amore alla sete di amore di Cristo, seguendo la Presenza che ci guarda, ci parla e ci ama» (M.G. Lepori).