Appuntamento a sabato 24 novembre con la Colletta alimentare

Verso la Colletta/5. «Ma cosa avete fatto a mio figlio?»

Tutto organizzato, anni di esperienza e di meccanismi rodati. Ma anche quando tutto sembra pronto per la giornata di raccolta del 24 novembre, i conti non tornano. Se non per un abbraccio e un bambino cambiato...

La Colletta alimentare è vicina, mancano pochi giorni. Nella mia comunità si stanno ultimando i preparativi, definendo turni e responsabili. Il meccanismo è rodato. Anni di Colletta hanno reso tutti molto esperti. Insomma, la sappiamo fare, la conosciamo già.

Ma quando i conti sembrano tornare al primo colpo, diventano aridi e non soddisfano. Così io, che pure faccio la raccolta di fine novembre da molto tempo, non ero soddisfatta. Avevo bisogno di ricomprendere la portata di un gesto che rischiava di sparire dentro il grande buco nero del “già saputo”. In più, la fatica di questo periodo di lavoro a scuola, pieno di appuntamenti e scadenze, riempie le giornate e i pensieri: apnea fino a Natale, non si può prendere fiato, non c’è tempo.

Un pomeriggio ho i colloqui individuali. È l’occasione per incontrare i genitori e relazionare sui figli, ma anche scambiare due chiacchiere e, in alcuni casi, cominciare a conoscersi. Arriva una coppia. Si siedono, senza togliere il giubbotto, un po’ sulla punta della sedia. Si capisce che sono sulle spine. Li avevo conosciuti a giugno, quando ci avevano presentato il caso del loro figlioletto, invitato a cambiare scuola. Mi avevano raccontato di lui, del suo difficile rapporto con l’ambiente scolastico, dell’esperienza complicata l’anno precedente. Anche noi insegnanti avevamo preso le nostre informazioni che confermavano una situazione difficile. Poi l’anno scolastico è iniziato e non abbiamo mai rintracciato i segni del quadro così negativo che ci era stato presentato. Non c’era stata, perciò, la necessità di incontrare prima la famiglia.

Per sciogliere il ghiaccio chiedo loro come vedono il bimbo, cosa racconta a casa. Il papà comincia a parlare e, man mano, gli si inumidiscono gli occhi: «Sono qui a chiedervi cosa avete fatto a mio figlio... La prima settimana di scuola pensavo che fosse solo spaesato. Poi, che fosse l’effetto della novità, ma che non poteva durare. Lo vedevo contento, tranquillo e sereno, con la voglia tutte le mattine di venire a scuola e senza lamentarsi del mal di pancia. Io e mia moglie non ci volevamo illudere. Poi è iniziato il basket. Fino all’anno scorso era un’altra occasione di crisi. Invece l’istruttore mi ha preso da parte e mi ha chiesto se gli avessimo dato finalmente un calmante. Maestra, lì ho capito che non era una mia idea: era davvero cambiato qualcosa. Mi dica lei... Che cosa avete fatto?».

Io e la mia collega raccontiamo della giornata scolastica, della preghiera iniziale, del lavoro lento e paziente, delle pause in cui rilassarsi, del gioco in cortile. «E poi ogni tanto lui chiede un abbraccio... E noi glielo diamo, perché no?». I genitori si guardano e la mamma, puntandomi lo sguardo addosso dice: «È quello di cui lui ha sempre avuto bisogno!».

Io ripenso al colloquio, a quei due genitori, al loro sguardo teso che si scioglie e alla loro gratitudine. Penso a come, semplicemente, il nostro modo di fare scuola abbia riaperto una possibilità per quel bambino e per quella famiglia, abbia colmato un vuoto. Penso anche al gesto della Colletta. Anche lì, raccogliendo barattoli di piselli e pacchi di pasta noi soddisfiamo un bisogno che non coincide solo nel pacco viveri mensile, ma permette alle persone che incontriamo di mantenere viva la speranza.

Mi serviva qualcosa per ricomprendere il gesto della Colletta e il buon Dio mi ha mandato quel mio abbraccio spontaneo e gli occhi umidi di quel papà.

Monica, Chioggia