La partenza della Milano Marathon

Milano. Una corsa per scoprire «chi ci dona a noi stessi»

La maratona come occasione di raccogliere fondi per "Famiglie per l'accoglienza". Dall'organizzazione al dover «rendere ragione pubblicamente della scelta delle nostre vite». Fino al correre: «Tutto ci ha rimessi davanti all'origine di ciò che siamo»

Domenica 7 aprile si è corsa la Milano Marathon, la città si è fermata di fronte allo spettacolo di oltre 108 onlus che si sono sfidate con le loro squadre a sostegno di progetti sociali collegati a performance sportive. Da quest’anno non era possibile partecipare singolarmente, ma serviva associarsi a una non profit e correre a supporto di un progetto. Ciascuna onlus ha, quindi, aperto una raccolta fondi chiedendo alle proprie squadre di quattro runner, che si sarebbero alternati nella corsa, di contribuire facendosi loro stessi promotori della causa. Nel caso di Famiglie per l’accoglienza si è scelto il progetto “I figli della speranza”, quello dei bimbi ucraini che verranno ospitati da alcune famiglie in agosto. Alla partenza, l’associazione aveva 16 squadre, 64 corridori e uno stand colorato, pieno di torte fatte in casa e di bambini.

Tutto è nato un anno fa, quando io e Luca ci siamo incontrati a correre al parco Sempione e la sera, al Direttivo dell’associazione, ci siamo detti: «Perché non proviamo a correre la Milano Marathon per sostenerci?». E siamo partiti. Quello che è capitato, però, per chi si è coinvolto e si è messo davvero in gioco tra di noi, è stato un accadere di rapporti nuovi e di sentirsi uniti in ciò che facciamo, anche se alcuni vivono la dimensione dell'adozione e altri dell'affido.

Il meccanismo della raccolta fondi, per sua natura, ci ha costretto a chiedere aiuto ad altri e a rendere ragione “pubblicamente” non solo del progetto, ma della scelta delle nostre vite tra adozioni, affidi e ospitalità temporanee: non si poteva parlare del progetto senza arrivare a raccontare di ciò che che in questi anni ci ha fatto spalancare le porte di casa e del cuore.

Anche l’aspetto organizzativo si è trasformato da “incombenza pur buona da fare” a qualcosa per cui essere grati. Uno di noi che ci ha aiutato tanto all’inizio, a un certo punto è dovuto partire per il Perù, perché ha avuto l’abbinamento con la sua bimba proprio in quei giorni. Era dispiaciuto di lasciarci senza vedere l’esito di tutto il lavoro. Eppure, il fatto che lui e sua moglie andassero a conoscere loro figlia mi ha dato ancora più intensità e serietà nel preparare la corsa: lui e noi stavamo rispondendo ad un compito e a una chiamata. Insomma, una unità nuova tra noi. Spesso siamo divisi tra gruppi, ognuno "serio" rispetto al suo "compito": chi adotta, chi ospita... Ma questa occasione, il dover dire a tutti chi siamo, perché viviamo la dimensione dell’accoglienza, come cambia la nostra vita e la rende più feconda, cambia il rapporto con i tuoi figli, cambia il volto di tuo marito o moglie… Ecco, tutto ciò ci ha messi insieme all'origine di noi stessi.

Abbiamo avuto oltre 300 donazioni. Ma il vero entusiasmo è stato poter dire - e correre per questo - chi siamo, Chi ha afferrato noi in questa accoglienza e ci fa correre ogni giornata, e ci accoglie sempre nonostante errori e limiti. Così, chi è venuto a donare si è trovato lui stesso a ringraziare, stupito per tutto quello che è accaduto. Uno sponsor ha dato 1000 euro raccontando l’incontro con uno di noi: «Avere davanti agli occhi il suo volto così felice mi fa desiderare di offrire il sudore della mia fronte per questa opera».

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La domenica della maratona, mentre ci si trasferiva in metropolitana da una tappa all'altra dopo la propria parte di staffetta, ci si raccontava di come accogliere una diversità in casa propria educhi davvero a una nuova misura e crei un gusto nella vita di cui poi hai sempre nostalgia. Mario, per esempio, raccontava del desiderio di sua moglie di accogliere un bimbo oltre ai due figli naturali. Le era capitato di ospitare sua cugina, un fatto che le aveva fatto capire meglio cosa voglia dire essere madre dei suoi bambini. A me è successo lo stesso: da quando abbiamo iniziato l’affido ho compreso meglio l’essere madre della mia figlia naturale. Mentre Mario mi raccontava questa cosa, in mezzo a decine di runner sudati, ho pensato che eravamo come i discepoli di Emmaus quando si sono resi conto che era Gesù che era stato con loro: per me si rendeva più chiaro Chi stiamo accogliendo, che cosa c’era in gioco. Ovvero, chi è Colui che accoglie noi. Noi generiamo naturalmente i figli, ma i figli accolti generano noi. Perché ci costringono a riconoscere Chi ce li dona e Chi dona noi a noi stessi.

Maria Elena, Milano