«Uno che cambia l'istante»

Il Coronavirus in Perù, tra le corsie di un reparto per malati di cancro. E poi a casa, tra i familiari, con un pensiero ad amici e parenti in Spagna e in Venezuela. Ecco come Silvia racconta «il cammino di santità a cui tutti siamo chiamati»

Anche la nostra vita, in Perù, è cambiata per le misure prese dal Governo davanti all’emergenza del Coronavirus. Misure che sembrano, allo stesso tempo, così drastiche ed eppure insufficienti di fronte alla gravità di quello che sta succedendo. Tutti vediamo il dolore, l’impotenza, ancora di più quando pensiamo ai nostri amici e parenti che vivono in Italia, in Spagna...

Io ho la possibilità di vedere quello che succede “fuori” da casa; non so se sia un privilegio, ma posso raccontarlo. Sono medico, e questi giorni mi hanno logorata mentalmente e fisicamente, per quanto qui la situazione non sia così grave come in altri Paesi. E non riesco neppure a immaginare cosa succeda in Europa, in Asia. Mi sembra ingiusto, persino irreale.

Da noi il problema è molto serio, ancor più per la debolezza del nostro sistema sanitario, per la povertà e per la difficoltà a capire cosa sta accadendo e stare alle indicazioni.

Non lavoro direttamente con chi è colpito dal virus, ma cerco di proteggere i “nostri” pazienti malati di cancro: bambini e adulti già spaventati dalla loro malattia, che non possono finire le terapie. Aggrappati al desiderio di essere curati e di vivere, corrono il rischio di essere contagiati. E per loro l’infezione sarebbe fatale. Anche se è difficile, dobbiamo chiedergli di stare a casa, “scegliendoli” in base alla gravità, alla possibilità di operarli. È difficile, ma non possiamo prenderci cura di tutti, perché li esporremmo a un rischio altissimo, più di quanto non lo siano già per la loro malattia.

Tanti di loro vivono lontano dall’ospedale, non riescono ad arrivare alle visite, ai trattamenti, e, anche quando ci vengono, non ce la fanno a tornare, perché sono troppo stanchi dopo due o tre ore di strada a piedi per non perdere l’appuntamento o la terapia. Alcune zone dell’ospedale sono state adibite per poterli ospitare a dormire, e lo stesso vale per gli operatori sanitari, che sono sempre qui. Tanti potrebbero dire: «Mi dispiace, me ne vado». E invece rimangono, e servono ciò che sta accadendo con tutta la loro umanità. Ero abituata a vederli ogni giorno nei corridoi, li salutavo come se sapessi già del loro lavoro, ma non pensavo potessero essere così “fermi” in quello che devono fare, nel pulire il pavimento, assistere un paziente, dare una cura, fino a portare i farmaci nelle case.

Noi qui non sappiamo chi è positivo o meno, per cui se qualcuno dell’equipe di guardia ha dei sintomi, tutti vanno in quarantena. Per questo facciamo turni rigidi e ristretti, per non contagiarci. E il nostro ospedale è uno dei più attrezzati: negli altri, la situazione è molto più complessa. Continuiamo a riunirci e a confrontarci con i capi, perché quello che succede è imprevedibile. Io sono a capo di vari reparti e ho una grande equipe che permette che il lavoro continui bene. Ma può bastare questo?

Abbiamo un protocollo per proteggerci, vestirci, tornare a casa e cambiarci in garage per non contaminare la famiglia... Sembra una distanza dalle cose che ami ti porti via, invece ti mette nel posto giusto, per guardare da una prospettiva migliore ciò che più desideri o i dettagli che non vedevi.

In questi momenti di tensione, cioè di attenzione, mi sono resa conto di molti particolari attraverso cui sto sperimentando che più guardi (e, quindi, accogli), più ti lasci sorprendere e ferire, tanto pù entri nella profondità del significato delle cose. Non rimani tranquilla, non più. E “cerchi” come un bambino che poi, quando scopre qualcosa, vuole raccontarlo alla mamma. Mi commuove scriverlo, perché penso che per tutti sia lo stesso. L’istante cambia, è bene, è tuo alleato quanto più scopri il suo significato: Gesù. E, quindi, la compagnia dei Suoi, e miei, amici.

Stare al lavoro o a casa è una possibilità bellissima di fare questo cammino: sembra che facciamo poco, che le nostre azioni siano fragili, inconsistenti, inutili. Ed è una grande tentazione pensarlo. Ma il più piccolo gesto è rapporto con il buon Gesù. È un cammino di santità a cui tutti siamo chiamati, come dice il libro Il pellegrino russo, che ogni battito del suo cuore coincideva con dire: «Signore, abbi pietà»... Come non desiderare questa dolce melodia nella mia vita? E quando lo desidero penso ai miei amici. L’unità del Mistero con me coincide con l’unità mia con loro.

Penso a mia sorella, che vive a Madrid da tanti anni. Lei e suo marito sono in isolamento da due settimane perché, in base ai sintomi, gli hanno detto potrebbero essere positivi, ma che c’è da aspettare, non si può fare altro. E penso alla famiglia di mio marito, in Venezuela, dove già c’è una grande crisi economica e dove ora hanno chiuso le strade e, quindi, la distribuzione del cibo. E dove non ci sono dati sul contagio: è tutta un’immensa incertezza. Mi viene in mente quando don Giussani diceva che il tuo sacrificio salva una persona dall’altra parte del mondo. Con questi due fatti negli occhi io do e desidero dare la mia vita dove sono, ovunque mi trovo.

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Che gratitudine avere una casa, una compagnia, un amico che ti manda un messaggio vocale o ti scrive una lettera in cui nulla è fatto fuori, come la lettera di don Carrón al movimento. Quando parla del miracolo dei pani, per esempio: i discepoli avevano il “panificio” davanti agli occhi e non lo capivano. Non è un problema di essere soli perché non lo siamo, ma di riconoscere chi è Lui. Così il gesto più piccolo e goffo è segno di salvezza, della Sua vittoria.

Silvia, Lima (Perù)