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«Lo sport è fermo? Noi facciamo squadra»

Calcio, nuoto, dodgeball... Tutto fermo. Per una piccola società sportiva, la pandemia rischia di essere una condanna all'immobilismo. Ma che cosa fonda l'impegno con i giovani? Qualcosa che neanche gli obblighi di legge possono fermare

Certi sport, per via delle misure anti Covid, sono fermi. È un fatto. Calcio, psicomotricità, nuoto, dodgeball… Non si possono proporre online. Ma allora, dato che nella piccola società sportiva di cui faccio parte, sono proprio questi gli sport che proponiamo a bambini e ragazzi, spesso di famiglie disagiate e/o straniere, siamo condannati all’immobilismo?

La situazione ci ha costretto (siamo una mezza dozzina di responsabili) a interrogarci e a scoprire che, in forza dell’esperienza di questi anni e pur nel blocco totale, due cose sono rimaste vitali: la nostra spinta a proporre un bene sperimentato per la nostra vita (attraverso lo sport, ma che va oltre) e la domanda di tanti intorno a noi che, con l’emergenza, si dimostrano più vivi e disponibili ad incontri veri.

Quello con due attrici che conducono un corso di teatro vicino alla nostra scuola calcio, per esempio, con cui si è generata una compagnia che va oltre le differenze di disciplina. Tanto che, di lì a poco, si è aggiunto un altro educatore, esperto nell’intaglio del legno. Il tutto sotto gli occhi stupiti di don Emanuele, coinvolto anche lui come “maestro di giovani”, che oggi osserva lievitare nella sua problematica parrocchia di periferia questa anomala compagine di adulti. Piccola, ma cosciente di ciò che può offrire ai giovani, al punto da chiedere un contributo a una fondazione bancaria locale.

«Cosa avete visto che prima non si vedeva? Avete cambiato priorità? Questo tempo è stato una palestra di innovazione? Quali apprendimenti operativi, progettuali?». A porre questa raffica di domande è Paolo Venturi, direttore di Aiccon, istituto dell’Università di Bologna per la ricerca sul Terzo Settore. Colpiti da alcuni suoi articoli sul valore insostituibile delle opere sociali per una vera ripresa post Covid, insieme ad altri operatori del no profit, gli avevamo chiesto un confronto. E lui ha subito aderito perché «ho bisogno di imparare da voi che siete in prima linea. Altrimenti il mio studio rimane astratto». «Ci siamo resi conto di essere forti nei rapporti», gli ha risposto Simone, giovane mister di nostri Under 23: «È da quelli che si parte per progettare tutto».

Come quando, intercettato un bando ministeriale sull’integrazione e la cultura riservato ai Comuni, ci siamo precipitati a contattare una dirigente scolastica, l’assessore, due funzionari comunali ed un grande imprenditore di un paese dove gestiamo un progetto educativo-sportivo per le elementari, dove i bambini stranieri sono la stragrande maggioranza. D’altra parte, senza la manodopera dei loro genitori le aziende della vallata, spopolata di italiani, avrebbero chiuso da gran tempo.

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Fissato un appuntamento, siamo entrati nel Municipio brandendo l’intervista di Tracce a Mireille Yoga del Centro Edimar di Yaoundé, in Camerun: «Solo l’attrattiva di una bellezza e di una bontà può far diventare compagni di cammino persone di culture diverse: questa è l’unica integrazione che conosciamo. Facciamo un gemellaggio con Edimar». Potevano riderci in faccia o snobbarci. E invece hanno voluto che raccontassimo il nostro lavoro fino nei dettagli. Il rapporto aperto da un nostro istruttore con un papà tunisino, per esempio, con il figlio di 8 anni che traduceva, restio a iscrivere il bimbo al corso di calcio. Anche lì, è stata un’attrattiva, quella del calcio sul bambino, a vincere. Ma lo sguardo dell’educatore ne ha fatta balenare un’altra, più grande, al padre che, conquistato, ha ceduto.

Non sappiamo se il progetto si farà, ma la novità era già lì, in quel dialogo serrato tra persone tanto diverse ma che implicitamente riconoscevano un bene presente.

Alberto, Forlì