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Chioggia. Il compito di pregare

Alle prese con alunni di sette anni e con il ritorno in dad. Una maestra racconta cosa vuol dire stare davanti alle loro domande, alla loro serietà: «Sanno di poter consegnare ad un Altro la loro fatica»

Lavoro in una scuola primaria paritaria. La mia seconda è reduce da un eroico anno in dad in cui i bambini hanno miracolosamente imparato a leggere, a scrivere, ad ascoltare e parlare al computer. Ho davanti dei piccoli guerrieri che alla ripresa a settembre in presenza hanno dimostrato una volontà di ferro nel voler stare a scuola, hanno imparato a non avvicinarsi, a portare le mascherine e a disinfettarsi come chirurghi, a non scambiare il materiale con gli amici prima di averlo pulito. Hanno imparato a capire la mia espressione e a sentire le doppie del dettato da sotto la maschera. Tutto, pur di non tornare dietro a uno schermo. Ogni mattina alla preghiera ci ricordiamo dei malati, di chi li assiste, di chi fa fatica con il lavoro. E guai se io sorvolo o velocizzo. Sono loro a riportarmi alla necessità di ricordare. Dicono i nomi propri di chi conoscono. Chiediamo la protezione di san Paolo VI, a cui è intitolata la nostra scuola.

Le notizie però non sono incoraggianti. Nella nostra regione i contagi stanno salendo e in alcuni distretti sanitari hanno già chiuso le scuole. Venerdì, congedando i bambini per il weekend, senza calcare troppo i toni, dico di non consegnare l’eserciziario dopo il pomeriggio di compiti, ma di portarlo a casa in modo da averlo sempre con sé. Scatta qualcosa e gli occhi di tutti mi si incollano addosso. «Come mai, maestra?». «Per sicurezza… Così se occorre non vi manca». Alcuni si accontentano della risposta, continuano a preparare la cartella.

B. sette anni, occhi azzurri e capelli biondi sempre arruffati, no. Lascia l’astuccio a metà, un quaderno aperto sul banco e a passo di marcia arriva alla mia postazione. «Maestra che cosa succede?». «Forse dobbiamo chiudere qualche giorno la scuola, ma lo sapremo nel fine settimana. Portate a casa l’eserciziario così possiamo lavorare meglio». Mi guarda seria, non le basta: «Ma non c’è da aver paura, vero?». Allora la guardo meglio perché lei lo sta chiedendo a me con una serietà da adulto dentro. Mi sta chiedendo dove poggiare la tranquillità che le chiedo, mi chiede di poter dire che si fida.

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Gli altri bimbi se ne sono accorti e adesso aspettano la mia risposta. «Al mattino noi chiediamo che i malati possano guarire, ecco adesso dobbiamo chiedere che noi possiamo stare bene. Stare bene per noi vuol dire poter continuare a vederci. Questo fine settimana ve lo lascio come compito. Chiedere con la preghiera che possiamo continuare a stare bene. Vedrete che così saremo sereni». B. mi guarda di sotto in su: «Ah, beh maestra… se preghiamo allora andrà tutto bene. Ci vediamo lunedì». Sono sicura che non importa in che modo ci vedremo lunedì. I miei diciotto piccoli guerrieri hanno capito che essere sereni vuol dire consegnare ad un Altro la propria fatica. Questo è davvero pensare che andrà tutto bene. E lo ricordano a me.
Monica, Chioggia (Venezia)