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Caritativa. «Un sorriso negli occhi che non è mio»

L'aiuto ai senzatetto con le suore di Madre Teresa che cambia forma per Covid e restrizioni. Anche Pietro, universitario, è costretto a cambiare scoprendo qualcosa di nuovo. Come racconta in questa lettera

Faccio caritativa il mercoledì mattina in una parrocchia insieme alle suore di Madre Teresa di Calcutta, portando ai senzatetto colazione e vestiti. Inizialmente, con chi era motorizzato, preparavamo i sacchetti e andavamo in centro a distribuirli ai vagabondi che incontravamo. Altri, invece, restavano con le suore a servire quelli che arrivano ogni mattina.

Il fatto di andare in centro mi caricava, soprattutto perché così la caritativa durava poco (circa 40 minuti) e potevo andare in facoltà a fare la mia vita di tutti i giorni. Poi, a seguito delle restrizioni e per il fatto che le suore hanno preso il Covid, ci è stato chiesto di rimanere tutti in parrocchia perché c’era tanto bisogno.

Per quanto mi scocciasse, anche perché si prega tanto e i turni durano più di un’ora, ho deciso di starci, continuando con fedeltà. E in questo ultimo mese ho visto due importanti cambiamenti. Il primo è una contentezza: le cose rimangono pesanti e la mia testa tante volte è altrove, ma mi sorprendo lieto e mi ritrovo a invitare amici della comunità che fanno più fatica a prendere sul serio la caritativa. Come scritto ne Il senso della caritativa: «Quanto più noi viviamo questa esigenza e questo dovere, tanto più realizziamo noi stessi; comunicare agli altri ci dà proprio l’esperienza di completare noi stessi».

Secondo aspetto, mi stupisce sempre di più la tensione che mi sento addosso a comunicare ai senzatetto la mia letizia. Di solito, riempio le bottigliette di tè, caffè o caffelatte e, visto che abbiamo le mascherine e non si vede la mia bocca, cerco di accentuare il sorriso con gli occhi. Non ho difficoltà a stare con loro, ironizzo e cerco di sdrammatizzare le loro sfuriate, ho iniziato a non dargli più del “tu”, ma del “lei” perché si sentano rispettati. Alcuni hanno richieste folli e si mettono a sindacare sulla quantità di bevanda che verso nella bottiglietta, ma io non mi arrabbio e cerco per come posso di accontentarli. E sono tanti i momenti in cui ho pensato: «Ecco, questo atteggiamento non è mio».

Mi ritrovo quando il testo dice: «Noi andiamo in “caritativa” per imparare a vivere come Cristo». La mia felicità non dipende dal ritorno che posso avere da queste persone, come scritto: «È la scoperta del fatto che proprio perché li amiamo, non siamo noi a farli contenti; e che neppure la più perfetta società, l’organismo legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà più educata li potrà mai fare contenti».

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Lo stesso quando do ripetizioni a pagamento a due ragazzi di terza superiore: ultimamente guardandoli mi chiedo: «Come posso comunicare loro la salvezza che mi ha conquistato?». La caritativa contribuisce a questo sguardo nuovo che mi ritrovo addosso.
Pietro, Bologna