Una scuola durante l'occupazione (©Ansa/Alessandro Di Marco)

«Io, prete, e i ragazzi dell'occupazione»

Un prof di religione racconta i dialoghi e l'amicizia con un gruppo di ragazzi che hanno organizzato la manifestazione nella sua scuola. E di come le loro domande «mi ridonano la mia vocazione»

Insegno religione alle superiori. Un giorno mentre stavo andando a scuola, un mio alunno di quinta mi invia questo messaggio: «Prof, vorrei invitarla alla lezione che terrò questa mattina». Scopro così che è iniziata l’occupazione e che lui è uno degli organizzatori. Nel volantino dell’occupazione leggo: «Vogliamo una scuola che non sia solo nozionistica, ma che risponda alle domande della vita, che intercetti ciò che ci sta veramente a cuore». Questo mio alunno tiene una delle lezioni dimostrative con a tema: il rapporto tra legge e giustizia. Una lezione di due ore, fatta davanti ad una trentina di alunni di varie classi, in cui lui riprende il percorso che io avevo proposto nella sua classe, spaziando da Hannah Arendt alla Rosa Bianca, e poi con lo stesso metodo imparato nelle mie lezioni, approfondisce altri autori e testi sullo stesso tema. Alla fine della lezione, davanti a tutti, dice: «Prof, volevo ringraziarla di essere venuto, perché quello che ho raccontato, la scuola che desidero, quella che ho visto rispondere alle mie domande, è quella che ho imparato da lei».

Mai mi sarei aspettato da uno dei responsabili dell’occupazione, che davanti a tutti potesse mettersi in gioco così tanto. Affermare che la scuola che desideri è quella che hai visto fare da un prete, tuo prof di religione, e non dirglielo in privato in corridoio, ma davanti a tutti è un gran passo di libertà.

Tutte le mie obiezioni sull’occupazione si sono trasformate in curiosità. Ho iniziato ad incontrare e a dialogare con altri studenti. Un altro punto del loro volantino era: «Non siamo d’accordo con la seconda prova scritta, perché non traduciamo da molto tempo». Ho chiesto ad alcuni di loro se non fosse meglio togliere per quest’anno l’esame, facendo semplicemente la media dei voti. Una ragazza mi ha risposto: «Non voglio essere trattata come la poverina che a causa della pandemia non ha potuto fare veramente scuola; io mi sono impegnata, ha dato tutto quello che ho potuto e lo voglio dimostrare a me stessa e a tutti». «Questa è la ragione per cui fare un esame», ho risposto. «Adesso potete giudicare se la modalità è adeguata».

Finita l’occupazione, riparlo con il mio alunno e gli propongo di vederci a cena, per dialogare su quei giorni. Vengono tutti: il comitato occupazione al gran completo. In pizzeria ci raccontiamo cosa ci ha stupito e al termine chiedo loro: «Cosa resta di questi giorni?». Mi dicono di aver chiesto alla preside di rimettere la macchina del caffè e gli intervalli all’aperto. Ribatto: «Ma non volevate una scuola che parlasse alla vita? Vi basta la macchina del caffè?». «Quale cambiamento potevamo chiedere all’istituzione?». Ritorniamo sulla lezione tenuta da uno di loro e gli dico: «Perché trenta ragazzi ti hanno ascoltato per due ore, sapendo che potevano andare nella classe a fianco dove si ascoltava la musica? Per la ragione che hai detto: tu eri già cambiato per le lezioni che avevi visto fare a me. Il cambiamento che ci interessa di più non lo chiediamo all’istituzione, è qualcosa che è già accaduto in noi. Una persona cambiata rende nuova una lezione. Le mie cambiano quando uno di voi si pone così, desiderando che quel momento c’entri con la vita».

«Ma lei che è uomo dell’istituzione-Chiesa non ci dice che il cambiamento è collettivo?». Di fronte a questa domanda gli racconto che il cristianesimo per me è stato ed è l’incontro con persone cambiate, rese affascinanti dall’esperienza vissuta. Dopo qualche settimana, sono loro a chiedermi di vederci di nuovo a cena. Domande a raffica. «Nella prima cena non ha mai nominato la parola Dio, ma lei ci crede?», «Cosa riempie la sua vita da prete?», «Per che cosa si sveglia al mattino?». Rispondo che ciò che mi riempie la vita è qualcosa che accade e mi sorprende ogni volta in tutto ciò che vivo. Mi dicono che questa risposta potrebbero darla tutti, «Cosa c’entra con il cristianesimo?». «Io non ho mai avuto il “problema” del cristianesimo, ma di qualcosa che corrispondesse al mio desiderio di felicità, così ho incontrato persone che poi ho scoperto essere affascinanti dall’incontro che avevano fatto con Cristo. Ancora adesso ciò che rende vivo il mio rapporto con Gesù è vederlo riaccadere in tanti incontri. Per me il cristianesimo è il fascino della vita». Altra serie di domande a raffica sulla Chiesa. «Guardate che per me la Chiesa è un’amicizia, con volti concreti che mi aiutano a non rinunciare al mio desiderio di felicità, tutto parte da uno sguardo totale sulla realtà non da una dottrina», gli dico.

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A fine cena, uno di loro dice: «Dopo due cene in cui abbiamo messo a tema la vita, possiamo dire che siamo diventati amici». Ed io aggiungo: «Proprio questa è l’esperienza della Chiesa: un’amicizia come compagnia alla vita». Sono grato della mia presenza a scuola perché ricca di incontri, che mi ridonano la mia vocazione, cioè il riconoscimento di Cristo presente e la possibilità di aiutare altri a rendersene conto.
Don Alessandro