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Un punto incancellabile

L'udienza del 15 ottobre e un'operazione rischiosa al rientro in ospedale. Un chirurgo racconta la novità di sguardo su di sé, sul paziente e sui colleghi che si è trovato addosso dopo Roma

Sabato 15 ottobre ero anche io in piazza San Pietro per l’Udienza con il Santo Padre. Più passavano i minuti, mentre ascoltavamo don Giussani, cantavamo La Strada, e più cresceva in me l’attesa di vedere il Papa, un’attesa vera di chi aspetta un padre. L’ho atteso a tal punto che, in un istante di consapevolezza, mi sono riscoperto “figlio”. Quante inevitabili interpretazioni e ragionamenti erano sorte ultimamente in alcuni dialoghi. Ma se dovessi dire di me cosa è tornato presente in quel preciso istante e cosa è rimasto, è proprio la percezione di essere “figlio”. Cosa che mi è diventata ancora più chiara, il lunedì successivo, quando sono rientrato in ospedale. Come chirurgo mi viene chiesto di fare una procedura invasiva ad un paziente anziano per facilitargli il respiro. Ogni procedura ha in sé dei rischi, ma non per questo è meno necessaria. Dopo 24 ore, veniamo chiamati perché il paziente sta peggiorando, proprio a causa di quella manovra chirurgica.

In quelle ore di trambusto, il paziente, già compromesso, si aggrava; non è possibile portarlo in sala operatoria per fermargli il sanguinamento perché non reggerebbe l’anestesia generale. Ai parenti qualcuno, per “mettere le mani avanti”, addirittura riferisce che è già morto. Il mio vice-primario mi dice che possiamo tentare una procedura alternativa, in anestesia locale, meno rischiosa, ma con meno probabilità di successo. La eseguiamo dopo aver parlato con la moglie del paziente, che ci chiede di fare il possibile.

I giorni a seguire sono stai tutti invasi da questo episodio, che mi ha tolto il sonno, nonostante i lunghi turni in ospedale. Ma è anche emerso un punto incancellabile. Tornando a casa mia moglie mi aveva chiesto se ero preoccupato per le conseguenze, le avevo risposto che ero soprattutto addolorato per quell’uomo. Ma mi sono accorto che non mi sarei mai tolto un briciolo di quel dispiacere.

Al lavoro i colleghi più esperti mi rassicuravano dicendo che «ci sono solo due tipi di chirurghi: quelli a cui è capitato, e quelli ai quali capiterà». Anche questa frase, seppur piena di verità, non era in grado di farmi sentire meno coinvolto, di “scagionare” il mio cuore. Quello di cui ho davvero sentito il bisogno è quella posizione di figliolanza, la certezza che non siamo “orfani”. Me ne accorgo dal desiderio di stare e non scappare, di esserci, soprattutto per questo paziente, di seguirlo nei giorni successivi. La situazione si stabilizza. Passo a trovarlo, anche se non è più necessario.

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Penso a quando il Papa ci ha chiesto di coltivare la passione missionaria del movimento. Mi accorgo quanto il primo luogo di missione sia “io”, affinché cresca in me una fede capace di stare da “figlio” nelle circostanze.
Lettera firmata