«Il vero protagonista della mia storia»
La malattia, il trapianto, le complicazioni. E poi la rinascita, a poco a poco. E una coscienza nuova. Con una «gioia mai provata» per cui «ogni cosa, anche la più banale, è cominciata ad essere un regalo». La lettera di AlbertoDue anni fa, alle soglie della pensione, dopo gli ultimi quindici anni di lavoro spesi come preside della Scuola Professionale Dieffe di Valdobbiadene, mi è stata diagnosticata una grave forma di insufficienza renale. Sono seguiti mesi di esami, biopsie e due lunghi ricoveri. All’inizio del 2023 ho iniziato a sottopormi ad emodialisi. Nel frattempo mi sono rivolto al primario di nefrologia all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna per un secondo consulto. Dopo aver guardato le carte il professore ha detto a me e mia moglie Luisa che c’era la possibilità di procedere con il trapianto da vivente. Ancor oggi, a ripensarci, mi stupisce la semplicità e la prontezza con cui Luisa si è resa subito disponibile alla donazione. Quando siamo usciti dall’appuntamento ero un po’ imbarazzato, non sapevo cosa dire. Ho sussurrato solo: «Grazie».
Il 7 novembre io e Luisa eravamo a Bologna per il trapianto. Dopo l’intervento, tutto sembrava andare per il meglio, ma il giorno dopo c’è stato il crollo. Sono stato assalito da tremendi dolori provocati da una grave forma di emorragia e contemporaneamente sono stato vittima di shock settico. In seguito, i medici mi hanno detto che nelle condizioni in cui ero finito pochi pazienti statisticamente se la cavano. I dieci giorni successivi sono stati per me un supplizio: in un salone con altri quattordici pazienti, intubato, con difficoltà respiratorie, assetato fino allo stremo, senza poter dormire, in mezzo a un baccano di macchine che suonavano continuamente e, soprattutto, in preda a degli incubi terribili. Appena chiudevo gli occhi apparivano le immagini più assurde e tremende.
Il 16 novembre, i medici di rianimazione hanno deciso di trasferirmi nel reparto di terapia semi intensiva. Sono stato sistemato in una cameretta singola, finalmente con un po’ di pace. Gli incubi hanno cominciato a diradarsi e pian piano ho iniziato a prendere coscienza della realtà. Innanzitutto del grande dono che mi aveva fatto mia moglie Luisa donandomi un suo rene. Lo sapevo anche prima, ma ora il suo dono mi apriva davanti un’altra vita. Assieme a questo, la grande compagnia dei miei figli che a turno erano andati avanti indietro da Padova a Bologna. Poi ho cominciato a rendermi conto di tutti gli amici che mi avevano accompagnato con la preghiera e con il pensiero. Tutto questo ha costituito per me una testimonianza che mi ha riempito di una infinita gratitudine.
La seconda grande testimonianza è arrivata dai colleghi docenti di Valdobbiadene. Mi ha chiamato la segretaria della scuola e mi ha detto: «Alberto, adesso te lo possiamo dire. Il giorno dell’operazione abbiamo posticipato di un paio d’ore l’inizio delle lezioni e con tutti i docenti siamo saliti alla piccola chiesetta della Madonna della Rocca e abbiamo partecipato alla messa delle 7.30. Sono venuti “tutti”, anche quelli che non credono. Per te hanno voluto esserci». È stato un dono grandissimo. Improvvisamente mi si è fatta chiara quella espressione tanto cara a Giussani: «Oh Madonna, tu sei la sicurezza della nostra speranza».
Da quel momento tutto in me e attorno a me è cambiato. Ho provato una pace e una gioia mai provata. Ogni cosa, anche la più banale, è cominciata ad essere un regalo. Da quel giorno le ore notturne sono diventate serene, ho cominciato a rimanere assopito, e a ripassare nella mente tante cose anche molto semplici: il vialetto che porta a casa mia, il piacere che avrei avuto a ripercorrerlo a piedi; il regalo di Natale per mia moglie; qualche mio amico che era venuto a trovarmi a Bologna, le vacanze estive, l’auto nuova che io e Luisa pensavamo di comprare prima dell’intervento. E poi sono molti episodi della mia storia, ora finalmente illuminati in modo chiaro da una Presenza amica, che costituisce la vera sostanza della storia, mia personale e di tutta la realtà. Mi sono stupito di come tutte queste cose ora le vedevo con una nitidezza e una chiarezza mai avuta prima.
La prima volta che ho messo le gambe fuori dal letto, ho avuto la sensazione di avere due legni al posto delle gambe. Non riuscivo a stare in piedi. Ho pensato: «Forse non camminerò più». Mio figlio Luigi, fisioterapista, è venuto a Bologna parecchie volte e mi ha dato coraggio: «Vedrai che passo dopo passo, camminerai come e meglio di prima». Il 4 dicembre sono stato dimesso dall’ospedale. Il rene di mia moglie da subito ha dimostrato di funzionare benissimo, i parametri fisici hanno continuato a migliorare.
Ma è soprattutto la mia coscienza che è uscita del tutto rinnovata da questa esperienza. Ogni istante delle mie giornate, comprese le molte ore notturne che hanno continuato ad essere insonni, l’ho vissuto e lo vivo alla luce della grazia e della testimonianza che ho ricevuto. Ho cominciato a fare videochiamate ad amici e persone care. Al sindaco di Valdobbiadene, che mi ha chiamato più volte, agli amici di Padova, ad alcuni cantinieri di Valdobbiadene che si sono informati costantemente delle mie condizioni, telefonate piene di una sorprendente gratitudine reciproca. Giunto a casa, tutto realmente si è dimostrato più bello: la stradina che porta a casa, l’attesa del Natale, accanto al presepe che con mia moglie abbiamo fatto, magari di dimensioni più piccole degli anni scorsi, ma con un gusto infinitamente più intenso.
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«Per sperare, bambina mia, bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia», diceva Charles Péguy, ed è esattamente quello che ho cominciato a provare. Ora mi appare così chiaro ciò che affermava Giussani in quella mirabile espressione: «Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Il vero protagonista anche della mia storia personale è Cristo, mendicante di me, e io povero mendicante di Cristo. Ciò che oggi domina le mie giornate è la costante domanda che questa memoria rimanga viva per tutto il tempo della vita che mi resta da vivere.
Alberto, Padova