L'evidenza dell'esperienza
La Pagina Uno di "Tracce" di marzo, gli appunti dall’intervento di Julián Carrón all’Assemblea Responsabili dell’Italia di Comunione e Liberazione, Pacengo (Vr), 27 febbraioUno stupore pieno di gratitudine che il Signore abbia ancora pietà del nostro niente mi ha invaso questa mattina, quando mi sono svegliato, pensando alla giornata di ieri; e mi è venuto subito alla mente un passo di don Giussani che mi ha letto un amico in settimana: «Specialmente in questi tempi mi veniva in mente che ciò che spiega perché il nostro movimento è cresciuto senza nessun programma, senza nessun progetto e senza nessuna pretesa: è cresciuto dal niente. L’ultimo pensiero era che la settimana dopo si potesse vivere ancora, ci fossimo ancora. Siamo nati con questa, non dico umiltà, ma senso realistico della nostra pochezza» (L’uomo e il suo destino. In cammino, Marietti, Genova 1999, pp. 76-77). È esattamente l’impressione che mi invade spesso: che ancora ci siamo, non che ci siamo come organizzazione, ma che ci siamo, che il Signore continui ad avere pietà del nostro nulla, del nostro niente, e che possa costantemente risvegliarsi la nostra libertà davanti all’eccezionalità della Sua presenza. Mi sembra che la giornata di ieri sia una conferma di questo.
Le domande che ci eravamo fatti erano: come il percorso su Si può vivere così? è stato ed è di aiuto a che l’intelligenza della fede diventi intelligenza della realtà? E che cosa la presentazione pubblica de Il senso religioso (insieme all’articolo di Natale su L’Osservatore Romano e al volantino «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo») ha messo in moto nella vita del movimento? Perché sarebbe logico aspettarsi di essere in condizioni migliori per giudicare. Invece abbiamo registrato in alcuni una reazione impaurita rispetto al gesto del Palasharp (la presentazione del libro di don Giussani); in altri una posizione confusa rispetto al momento storico-politico. C’è chi tenta di risolvere il problema facendo analisi, chi invita nelle comunità l’esperto di turno (il politico, lo psicologo, il giornalista) per un “supplemento” di giudizio; riducendo così il carisma del movimento a riflessioni pie e “interne” che non servono per vivere.
La questione è molto, molto seria. A che cosa serve la fede? O, per dirla in un altro modo (soprattutto tenendo presente le difficoltà emerse nella Scuola di comunità sulla prima premessa de Il senso religioso): dove si genera il nostro giudizio?
Eravamo partiti - per dirla in modo sintetico - da quello che don Giussani risponde nell’intervista ad Angelo Scola: «Il cuore della nostra proposta è piuttosto l’annuncio di un avvenimento accaduto, che sorprende gli uomini allo stesso modo in cui, duemila anni fa, l’annuncio degli angeli a Betlemme sorprese dei poveri pastori. Un avvenimento che accade, prima di ogni considerazione sull’uomo religioso o non religioso. È la percezione di questo avvenimento che resuscita o potenzia il senso elementare di dipendenza e il nucleo di evidenze originarie cui diamo il nome di “senso religioso”» (Un avvenimento di vita, cioè una storia, Il Sabato, Roma 1993, p. 38). A noi è capitato in un incontro, che si è prolungato in una storia; in noi è accaduto questo potenziamento delle evidenze originali; e abbiamo avuto esperienza di una corrispondenza tale che è imparagonabile, tanta è l’eccezionalità di quello che ci è capitato e ci è successo nell’incontro con Cristo: qualsiasi altra esperienza (innamorarsi di una donna o struggersi per un amico) è una «ombrata analogia» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), Bur, Milano 2010, p. 44).
Dovrebbe, quindi, essere facile giudicare; se si sono potenziate tutte le evidenze originali che sono il criterio di giudizio, se abbiamo avuto un’esperienza di corrispondenza tale che è senza paragone con nessun’altra, tutto sembrerebbe a posto per un paragone immediato, di schianto. E invece ci sentiamo dire che siamo confusi, e spesso lo siamo. Come quando per venire fuori dalla confusione politica si leggono tutti i giornali, e tutto diventa ancor più confuso! Oppure quando ci si rivolge agli “esperti” per i problemi nella politica, nella scuola o nella vita affettiva. Col che, di fatto, il cristianesimo si dimostra inutile, malgrado le nostre intenzioni, malgrado i nostri discorsi, malgrado le nostre logiche; e ci ritroviamo alienati come tutti: dipendiamo sempre da qualcuno fuori dell’esperienza. E uno si domanda: ma allora qual è la convenienza umana della fede, qual è la ragionevolezza della fede?
A questo si aggiungono due altre forme di complicazione.
Una riguarda il rapporto tra la Scuola di comunità in collegamento video e i gesti nelle comunità locali. A un raduno una persona mi ha detto che notava che alcuni partecipano al collegamento e non alle Scuole di comunità. E dove starebbe il problema? «Nel collegamento che deresponsabilizza le persone», ha detto lei. Io ho replicato: «Non è che forse è il contrario? Che se non stiamo a quel livello nelle nostre comunità locali, è difficile sopportare il nostro ritrovarci?». Il giorno dopo ho ricevuto questa lettera da una nostra amica: «Durante questi anni ho fatto questo percorso. Primo: “Cristo me trae tutto tanto è bello”, come dice il titolo degli Esercizi della Fraternità che mi hanno cambiato la vita. Secondo: allora voglio vivere solo così, se la realtà mi dà la possibilità di scegliere non voglio niente di meno. Ora ti voglio dire che per molti anni ho sofferto alla Scuola di comunità, perché era pesante e noiosa. Pensavo che fosse un mio problema, ma ci son sempre stata; non per timbrare il cartellino, ma perché oggettivamente era l’unica strada per vivere il rapporto con Cristo secondo il carisma che ho incontrato. E per me questo è indispensabile, a qualunque costo. Poi è arrivata la tua Scuola di comunità: è stato un dono infinito, oltre ogni speranza e immaginazione. Ho ripreso il gusto dell’inizio, la Scuola di comunità è diventata nuovamente vitale. Quando arriviamo agli avvisi mi dico: “Come, è già finita?”. Il punto non è che tu sei bravo, il punto è che ti poni come un amico che sta facendo una scoperta, ce la comunica e ci spinge a farla anche noi. Insomma, per me è un respiro infinito. Perciò non mi viene voglia di andare alla Scuola di comunità locale, così incastrata e pesante, dove per me non solo non c’è attrattiva, ma anzi c’è la grande tentazione di guardare solo quello che non va. Io lo chiedo a te, perché dove dovrei altrimenti porre questa domanda?». A lei risponderò quel che devo rispondere per il suo cammino personale. Ma a noi cosa chiede la sua urgenza?
La seconda difficoltà l’ho rilevata spesso in queste ultime settimane: alcuni pensano che saremmo più incidenti storicamente se facessimo altre cose rispetto a quel che stiamo facendo, per esempio se dessimo altri e più “puntuali” giudizi, perché i nostri sarebbero troppo astratti. Che cosa ci dice questo complesso di minorità?
In questi tre giorni è venuto fuori con chiarezza ciò che è al centro di tutto il nostro metodo (e sul quale dobbiamo avere le idee veramente chiare, sottomettendo la ragione all’esperienza): quale è la natura del cristianesimo, quale è la natura del nostro movimento. Perché se a questo riguardo non guadagniamo una chiarezza, in fondo penseremo sempre che sarebbe meglio fare altro (il partito, o la consulenza psicologica, o l’assistenza sociale); e c’è chi ci prova, cercando di ridurre il carisma a qualcuna di queste varianti, in nome di una presunta inincidenza storica. Come se nella nostra storia non fosse successo niente, come se non avessimo già vissuto il ’68, quando tutto sembrava più incidente del cristianesimo e della comunione cristiana! Tutti ricordiamo quell’episodio di don Giussani che, vedendo un universitario che fa le barricate, gli chiede: «Cosa fai?». «Sono qui con le forze che cambiano la storia». E Giussani gli risponde con la frase geniale che abbiamo richiamato in un recente volantino: «Le forze che cambiano la storia sono le stesse che cambiano il cuore dell’uomo».
Per questo vogliamo domandarci sempre più, insieme al Papa, «che cosa possa ultimamente muovere l’uomo nell’intimo» (Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 2): che cosa è veramente concreto, che cosa è veramente incidente alla radice dell’io perché possa cambiare anche la storia? Se su questo non siamo chiari - e questo dice fino a che punto è adeguato il lavoro che stiamo facendo -, non si risveglia il senso religioso; se il cristianesimo non è in grado di risvegliare il nostro io, siamo come tutti, e quello che viviamo non è decisivo né per noi né per gli altri. Che tenacia e che certezza del don Gius lungo tutta la nostra storia per non mollare su questo punto! E davanti a qualsiasi tentativo di cercare al di fuori dell’esperienza qualche soluzione, don Giussani ci ripropone continuamente un metodo diverso. Già dal primo capitolo de Il senso religioso ci ricorda che se uno vuole capire che cosa è il senso religioso, non deve andare a cercare altrove (che cosa dice internet, che cosa dicono i libri, che cosa dicono gli esperti). No. E perché no? Perché don Giussani è un fissato o perché l’esperienza ci mostra che il metodo dialettico della moltiplicazione dei punti di vista ci fa finire con l’essere ancora più confusi? Perché tu puoi leggere tutto quanto si dice su una cosa, ma se non parti dall’esperienza non hai il criterio di giudizio per giudicare nemmeno quello che leggi... È l’esperienza il metodo - dice lui -: «Se non si partisse dall’indagine esistenziale, sarebbe come chiedere la consistenza di un fenomeno, che vivo io, a un altro. Il che, se non fosse conferma, arricchimento o contestazione a seguito di una riflessione già personalmente intrapresa, renderebbe l’opinione altrui supplenza di un lavoro che mi compete e veicolo d’opinione inevitabilmente alienante» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 2010, p. 6).
Don Pino ieri diceva: «Il don Gius ha sempre proclamato la precedenza del fatto sulle interpretazioni. Il problema tra noi non può essere l’interpretazione migliore di Giussani, perché questa è gnosi. Se è un conflitto di interpretazioni secondo la storia di ciascuno, allora ci saranno solo opinioni e nessun giudizio, nessuna liberazione, nessuna novità». E l’autorità, poi, dovrebbe fare la sintesi tra le diverse interpretazioni. Io sarei qui a gestire il punto su cui mettersi d’accordo, come fosse una questione di potere.
Tutto questo spiega qual è la sfida che abbiamo davanti, amici: se noi vogliamo seguire Giussani già dal primo capitolo de Il senso religioso e mettere a tema l’esperienza; perché altrimenti avremo sempre bisogno dell’esperto, di un supplemento di verità al di fuori dell’esperienza stessa. O l’esperienza porta in sé le ragioni («L’esperienza porta in sé l’evidenza», diceva ieri mattina una di voi), oppure dovremo sempre prenderle da fuori. Ma così crollerebbe tutto. E, ancor più grave, così renderemmo “inutile” il cristianesimo. Invece tutti sappiamo e tutti accettiamo che per rispondere al desiderio di compimento non bastano le tante frecce che puntano al Mistero, ma occorre qualcosa d’altro, che non è una dialettica o un conflitto di interpretazioni, ma un fatto, anzi, “il” Fatto. Perché il dualismo, in cui tante volte stiamo immersi fino al midollo, non è vinto da un discorso, ma da un’esperienza. Senza di questo la nostra intelligenza della fede non diventa intelligenza della realtà, e per questo noi non siamo decisivi. Il nostro contributo sarà decisivo «solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà», come ha detto Benedetto XVI.
Che cosa è successo in questi giorni? Diceva ieri uno di voi: «Cristo è Memor mei», e le testimonianze che aveva sentito gli facevano dire: «I miei occhi hanno visto, le mie mani hanno toccato il Verbo della vita. Io sono memor Domini perché Lui è Memor nostri, Memor mei, cioè c’è Qualcuno che mi tira via dal mio nulla, si rende così palese ai miei occhi che tutta la mia vita è riempita della Sua memoria, della Sua presenza, e io vedo che cosa è Lui perché sono più consapevole della irriducibilità del mio io». O come descriveva un altro: «Sono più consapevole della natura del mio bisogno, perché io devo confessare che stando da tanto tempo nel movimento avevo ridotto la mia domanda umana. Tu eri felice e io no, e ho capito che nessuno riesce a mantenersi da sé nell’atteggiamento giusto cui l’incontro con Cristo lo ha spalancato. Se non vivo personalmente questa sproporzione strutturale, non sono un soggetto». Ascoltandolo, mi veniva in mente quello che dice il don Gius: «Bisogna stare molto attenti perché troppo facilmente non partiamo dalla nostra esperienza vera, cioè dalla esperienza nella sua completezza e genuinità. Infatti spesso identifichiamo l’esperienza con delle impressioni parziali, riducendola così a un moncone, come frequentemente avviene nel campo affettivo, negli innamoramenti, o nei sogni sull’avvenire. E più spesso ancora noi confondiamo l’esperienza con dei pregiudizi o degli schemi magari inconsapevolmente assimilati dall’ambiente. Per cui, invece di aprirci in quell’atteggiamento di attesa, di attenzione sincera, di dipendenza, che profondamente l’esperienza suggerisce ed esige, noi imponiamo all’esperienza categorie e spiegazioni che la bloccano e la angustiano, presumendo di risolverla» (L. Giussani, Il cammino al vero è un’esperienza, Rizzoli, Milano 2006, pp. 84-85). Perché? Perché noi non partiamo dai nostri bisogni veri, non sappiamo a volte neanche che cosa siano. In che cosa si vede che Cristo si ricorda di noi, che Cristo è presente in mezzo a noi? Nel fatto che ci rende più consapevoli del nostro bisogno, del nostro mistero, della irriducibilità del nostro io, della sproporzione strutturale; e questo porta a una scoperta di me, della vera natura del mio io, di quanto sono mendicante, di quanto sono dipendente.
Allora qual è il criterio della verità e della chiarezza? Che succeda l’avvenimento di Cristo - che porta dentro l’evidenza delle ragioni, che mi tira via da tutta la mia confusione, che mi dà la chiarezza sul mio io e sul reale -! E per questo non basta tutto il passato, tutta la storia; abbiamo bisogno ora della contemporaneità di Cristo, occorre che Qualcuno continui ad avere pietà di noi, perché altrimenti noi finiamo nella confusione di tutti e siamo inutili per il mondo. Allora quando vediamo ridestarsi di nuovo lo stupore, non è scontato, non è scontato; quello che è successo ieri non è scontato: che dopo sei anni dalla morte di don Giussani il Signore continui ad aver pietà di noi non è scontato, ma questo chiede a noi una disponibilità a lasciarci generare.
Mentre preparavo la presentazione de Il senso religioso mi è venuto in mente che il primo tentativo educativo di Dio è stato il popolo d’Israele. Eppure da questo popolo sono venute fuori due figure, che il Vangelo mette davanti ai nostri occhi. Gli scribi avevano preso sul serio la storia, si erano impegnati a studiarla, sapevano la logica, ma questo non li ha resi disponibili; la tentazione del “già saputo” è sempre in agguato per tutti, e gli scribi lo documentano - anche noi, in nome del “già saputo”, potremmo non essere disponibili a quello che il Mistero fa ora, perché la vera intenzione dell’educazione di Dio non è il “già saputo”, che sarebbe la tomba, ma la povertà di spirito -. Chi si è dimostrato aperto e disponibile alla modalità di Dio è stata la Madonna, o Giovanni e Andrea, o Zaccheo. Saremo tutti sempre davanti a queste due possibilità. Non è soltanto una storia del passato, ma è una storia del presente: in nome del “già saputo” possiamo misurare il presente, invece di lasciarci colpire dal presente e fare l’esperienza della liberazione.
Mi ha colpito il racconto di uno che da tanti anni è nel Gruppo Adulto, che ha ricordato quando don Giussani nel 1992, disse citando il filosofo Finkielkraut che si può conoscere solo per avvenimento: «Più guardavo questa affermazione, più ne prendevo coscienza, e più mi sembrava che davanti ai miei occhi emergesse il tipo umano che fa un’esperienza di quel genere, cioè un uomo baldanzoso, un uomo libero. Mi affascinava moltissimo questa concezione della conoscenza come avvenimento. Allora ho domandato a Giussani: “Ma io tutto il tentativo che ho fatto in tutto questo tempo nel Gruppo Adulto è stato voler imparare seguendoti. Se tutto questo che io ho imparato è una gabbia, allora come posso vivere costantemente davanti a questo avvenimento? Quel lavoro che ho costruito intorno al mio io può diventare una gabbia e resto così imprigionato proprio dall’esito della mia passione, che era imparare. Altro che uomo libero, altro che uomo povero, baldanzoso, libero e creativo!”. Il don Gius mi rispose: “Sì, quello che dici è vero; a meno che quello che sai non ti venga ridonato da uno presente”. Questa frase mi piacque moltissimo, ma non la capii e forse non capii neanche di non capirla, però me la sono ricordata per tanti anni come un sottofondo presente nella mia memoria, e come un fiume carsico mi è ritornata esplicitamente alla coscienza sentendo in questi anni parlare Carrón: sentendo parlare lui ho fatto e faccio l’esperienza di cui parlava il don Gius». Posso essere io o può essere un altro, non è questa la cosa importante. Decisivo è se io sono disponibile nei confronti di colui attraverso il quale il Mistero si rende presente ridonandomi quello che già sapevo, perché se io non sono disposto ad accoglierlo come presente, siamo finiti. E questo in che cosa si vede, in che cosa si documenta? Che io sono disponibile, che non capisco, ma mi sento di nuovo afferrato, che io ricomincio a respirare, e questo mi fa veramente capire.
Questa, amici, è l’unica possibilità che il movimento continui a essere movimento: se noi ci lasciamo generare da qualcosa di presente, qualsiasi sia la modalità attraverso cui il Mistero lo fa riaccadere, che può essere - come dicevamo ieri - l’ultimo arrivato, uno “vecchio”, uno “nuovo”, con storia o senza storia, chiunque. Perché la libertà del Mistero si mette in evidenza così. Noi lo stiamo vedendo in tante occasioni, come documentavate ieri, perché quando le persone si lasciano generare, sorprendiamo il fiorire di figure autorevoli, che vengono fuori dallo stato di minorità, perché poggiano sull’evidenza delle ragioni dell’esperienza che fanno, diventando così protagonisti, non gregari bisognosi sempre di qualche conferma del capo per mancanza di evidenze. E il test di questo protagonismo è il modo di stare nel reale, la lealtà con i dati, l’affezione, perfino la dimensione cosmica di quello che si vive.
A differenza di quello che potevamo pensare, mettere a tema questo non soltanto non ha fatto venir meno l’amicizia, ma ha generato una intensità di rapporti di amicizia prima sconosciuta, non formale, di una verità che stupisce, una amicizia nell’essenziale, in quello che abbiamo più a cuore, e non nelle conseguenze soltanto, non nel secondario. Perché quando il dramma della vita bussa alla nostra porta - come ci ha testimoniato un amico ieri, parlando della morte di suo figlio - non basta qualsiasi altra cosa che non sia Cristo: nessun’altra cosa ci consente di stare davanti alle sfide vere della vita! Perciò è come se la parola amicizia acquistasse anche davanti ai nostri occhi una intensità di rapporti prima sconosciuta, e questo si vede nel rifiorire delle comunità, che sono anche generate da questi “ii” nuovi, da queste creature nuove, da questi protagonisti che sono prima di tutto un dono per le comunità stesse, e che allo stesso tempo hanno bisogno di spazio, di accoglienza, di un abbraccio se non vogliamo perderli - perché questi l’evidenza ce l’hanno, non sono dei sottomessi -.
Che razza di conversione, amici, chiede questo a chi ha responsabilità, perché non è il programma di conversione fatto a tavolino: la conversione è a quello che il Mistero fa. Quale altro modo di affrontare la Quaresima è più interessante e più incidente e più adeguato che non il fatto di accogliere l’Avvenimento presente, che il Signore ci dona facendolo accadere davanti ai nostri occhi? Perché la responsabilità è la conversione dell’io all’Avvenimento presente. Domandiamo alla Madonna di avere questa semplicità sua: la capacità di accogliere il nuovo che il Signore fa, che ci è dato per noi e per il mondo.
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