"El abrazo". C'è da guardare molto per poter vedere
A Madrid la presentazione del libro che l'antropologo Mikel Azurmendi ha scritto sul suo incontro con la "tribù" di CL. Con lui don Carrón e il politico basco Joseba Arregi, che confessa: «Questa lettura mi ha ribaltato da capo a piedi»«Alla mia età, credevo di aver acquisito il diritto di una certa comfort zone e all’improvviso appare questo libro e mi ribalta da capo a piedi». Con queste parole inizia la presentazione del libro El abrazo. Hacia una cultura del encuentro (ed. Almuzara) del filosofo e antropologo basco Mikel Azurmendi, che si è svolta a Madrid il 15 novembre. A pronunciarle è Joseba Arregi, dottore in Teologia e Sociologia, che è stato tra i grandi uomini della politica basca e che, soprattutto, è amico dell’autore del libro. Un libro che lo ha «stravolto in un momento della mia vita in cui non attendevo grandi cose».
Arregi confessa di avere molti amici che scrivono e che lo invitano a leggere i loro libri, e di leggerli sempre nello stesso modo, ascoltando e al contempo con spirito critico, ma «questo libro va affrontato con un altro metodo, bisogna fare quello che ha fatto Mikel: lasciarsi colpire». Il già Consigliere della Cultura del governo basco sottolinea tre concetti fondamentali che ha tratto dalla lettura: «Un nuovo senso della realtà, della verità e della libertà. Di solito Dio si argomenta, però qui non si argomenta con discorsi, ma con la vita, con il dono di sé, con lo “svuotarsi” che ridà all’uomo la sua autentica statura umana. Quanto è importante questo “rispettare la vera statura umana”. La verità è che mi sento un po’ come la volpe della favola, molto piccolo e incapace di raggiungere questi frutti. Per questo mi ha interpellato e interrogato molto».
«Sentir parlare di una presenza che ad un uomo lo ribalta e lo tira fuori dalla comfort zone, che lo spalanca perché lo interessa e che lo mette in movimento ad un’età in cui non ci si aspetta più nulla... è un autentico regalo. Ormai non possiamo più uscire da questa sala come siamo entrati», dice Julián Carrón dopo le prime parole di Arregi. «Siamo troppo abituati e quello che stiamo vedendo è letteralmente ciò che raccontano i Vangeli: un incontro che li stravolge letteralmente». Continua il presidente della Fraternità di CL: «Guardare per vedere. Questo è il metodo che ha usato Mikel ed è lo stesso del “venite e vedete”. Gesù li invita a vedere ciò che Lui ha visto. Questo libro ci permette di tornare a vedere il cristianesimo come fatti che accadono e ai quali noi ormai siamo abituati». Poi si rivolge direttamente chi fa parte della “tribù”, come chiama Azurmendi i membri della Fraternità di CL nel libro: «Che cosa abbiamo perso nel cammino, dato che questi fatti non ci sorprendono più?». E citando de Lubac, aggiunge che «quando si separano i fatti dalla origine, il cristianesimo diventa irreale perché smette di irradiare quella origine e diventa forme vuote senza vita. Idoli pallidi che non muovono nulla». Carrón usa una immagine che tornerà spesso durante la serata: «O il cristianesimo si comunica come un fatto o non ci potrà stravolgere, strappare dalla nostra comfort zone. Come una catena che fa vibrare il presente e il passato: quando qualcuno tocca l’ultimo anello, quello del presente, e lo fa vibrare, allora vibrano anche tutti gli altri prima, e il passato ritrova così un valore nuovo. Viviamo avendo tutto tranne qualcosa che ci stravolga, ci conformiamo alla mentalità di tutti, che ci riduce alla comfort zone. Ma così perdiamo la vita vivendo». Poi si rivolge all’autore: «Noi che viviamo nella “tribù” sappiamo molto bene i limiti che abbiamo, ma a te non ti hanno bloccato: allora c’è qualcosa che dobbiamo imparare dal tuo sguardo. Se noi non ci stupiamo è perché abbiamo perso la capacità di intercettare la presenza di Cristo e alla sera non ci corichiamo con gli occhi pieni di quello che abbiamo visto...».
È proprio questo che accadeva ad Azurmendi mentre scriveva il libro: andare a letto con gli occhi pieni e riversarli sui fogli. «Io non ho scritto un libro», dice lui: «Io ho scritto tutto quello che stavo vedendo, ho scritto pagine e pagine che mi facevano pensare». Insiste sull’aver scoperto il grande errore delle scienze umane contemporanee, che partono da schemi prefissati che le portano al fallimento totale. «Perché non si paragonano con tutto ciò che l’uomo vive. Questa è la cosa più importante che ho imparato da voi: il confronto con tutto ciò che l’uomo vive. Se le scienze umane non mettono in discussione i loro schemi e non fanno questo paragone andremo avanti senza conoscere nulla. Dobbiamo guardare all’umano, tuttavia tendiamo a pensare che le nostre convinzioni debbano essere leggi per tutti o che qualsiasi convinzione sia valida – per ognuno la propria -, e così non vi è né scienza né conoscenza, perché non c’è lavoro di confronto».
Per Azurmendi questo lavoro invece è stato intenso. Ha richiesto continue correzioni e soprattutto – insiste – è un lavoro che non finisce, né per lui né per quelli della “tribù”. «La mia conversione è nel vedere. Ed anche la vostra. Per vedervi, io devo sapere da dove vi sto guardando. Per questo ho dovuto correggere molte pagine nel rendermi conto che vi guardavo da una lente che non serviva. Non mi serviva la lente della libertà che io pensavo, perché voi non vivete la libertà in negativo. Ho dovuto mettere da parte tutte le mie lenti per potervi guardare. Per comprendere veramente un cristiano bisogna lasciare gli idoli che ognuno di noi ha, per potersi accorgere e capire. Ho dovuto abbandonare molte lenti per potervi vedere dalla mia angolazione».
Una nuova concezione della libertà che ha colpito anche Arregi: «Una libertà che nasce dalla dipendenza, dallo smettere di dire “io” per essere costituito da un “tu”. Come la carità, tanto diversa dalla solidarietà imposta. Una carità che è “svuotarsi” per l’altro, così che passato e presente si uniscano, come in quella catena, come in quella vostra espressione: Memores Christi. Persone e gesti che rendono presente la memoria di Cristo. Perché gli uomini di oggi sono “orfani” e manca un seme di costruzione della speranza, di cui tanto c’è bisogno».
Questa speranza Azurmendi la descrive ricordando le vacanze trascorse alla Masella con 700 persone del movimento. «Io che ho il panico per la troppa gente, che non sono mai andato ai raduni. Ecco, lì mi sono tolto la lente del “umanismo”, dell’uomo per l’uomo. Credo di averlo capito dopo quello spettacolo di umanità e carità degli uni verso gli altri, che sintetizzo in quattro tratti fondamentali: rispetto, umanità concreta, gioia e libertà. Non ci siamo mai sentiti più liberi – qui includo anche mia moglie, perché è stato un cammino di entrambi – facendo quello che volevamo. Lì abbiamo visto fare insieme e fare bene». Quello spettacolo lo ha costretto a rivedere certi presupposti che credeva già assodati. «Il concetto più difficile è l’uomo. Che cos’è l’uomo? Niente di più o di meno di questo avvicinarsi ad abbracciare l’altro che è come te. Una vicinanza che crea delle cornici simboliche: l’uomo che dipende, l’uomo è dipendente. In 50 anni non mi ero mai preoccupato della salvezza e lì ho capito le tre cose più grandi della ragione umana: quanto sono belli gli essere umani nel mondo; l’essere salvato è la speranza che nulla mi danneggerà; e io sono mediocre ma ti apro la mia casa».
«La nostra prima responsabilità», conclude Carrón, «è renderci conto del regalo che ci fa la vita con una persona ci insegna a guardare. Lasciandosi alle spalle uno dopo l’altro tutti i filtri che gli impedivano di vedere, ci ridona la realtà che crediamo di conoscere già e non ci lascia tranquilli. Giussani diceva che la cultura di oggi crede impossibile che si possa cambiare se stessi e la realtà solo seguendo una persona. La persona non è considerata uno strumento di conoscenza. Eppure, Mikel ci descrive uno sguardo. Si toglie i filtri e si mette a seguire quello che vede. Dobbiamo imparare a guardare quello che ha sorpreso lui. A guardare l’altro senza ridurlo è lo sguardo che ha introdotto Gesù. A Zaccheo tutti facevano la predica, ma nessuno è riuscito a cambiarlo come quello sguardo. La salvezza non lo interessava mentre adesso sì, perché è carica di carnalità. Perché la salvezza consiste in questa esperienza che mi fa essere me stesso e partecipare di una comunità. Possiamo introdurlo nella storia vivendolo».
Alla fine, come dice il moderatore di questo dialogo, il giornalista Fernando De Haro, è una speranza e un cammino, perché «nel vedere e nel sentire queste cose ti rendi conto che c’è molta strada da fare, c’è da guardare molto per poter vedere».