Cile. Se a Santiago si costruisce un bene per tutti
Il caos e le violenze degli ultimi giorni sono ancora negli occhi. Ma, nel weekend, nella capitale sudamericana si è parlato anche di dialogo, educazione, incontro con la diversità. In un contorno di musica e mostre. La cronaca di Encuentro Santiago«Dall’odio e dal lamento non si esce da soli». È per questo che è ancora più urgente dirlo di nuovo, a tutti: “Tú eres un bien para mì”, tu sei un bene per me. «Perché l’altro è il cammino del dialogo e anche dell’autocritica. È quello che c’è in gioco, in un contesto di sfiducia e recriminazioni, è lo sguardo di un uomo libero che desideri incontrare l’altro, la persona - senza etichette - con la sua storia particolare, i suoi desideri, le sue sofferenze».
Si apre così, Encuentro Santiago 2019. Con le parole di un documento molto bello diffuso pochi giorni prima, quando la situazione convulsa del Cile aveva messo in dubbio tutto e non si era ancora deciso che l’evento ci sarebbe stato lo stesso. Con un programma ridotto (di un giorno), qualche ospite in meno e in un’altra sede (il Colegio San Pablo Misionero di San Bernardo, più periferico e tranquillo rispetto alla centralissima Università San Sebastián), ma ci sarebbe stato. Perché ne valeva la pena. Ancora di più.
In un Paese che neanche dieci giorni fa si è ritrovato di colpo immerso in un caos fatto di proteste di piazza e stato d’emergenza, saccheggi nei negozi e coprifuoco, arresti e vittime (almeno 18), in un’«ora amara» che chiama tutti ad una responsabilità, gli organizzatori hanno deciso di rischiare, di offrire al mondo un altro sguardo. «Abbiamo necessità di un bene, di incontrarci e riconoscerci per quello che siamo, perché anche l’esigenza di giustizia è parte del nostro desiderio più profondo».
Così, sabato mattina si comincia. Si respira ancora il nervosismo lasciato da giorni convulsi, l’eco della marcia imponente del giorno prima, che aveva portato in piazza un milione di persone, l’incertezza del coprifuoco rinnovato sera per sera. In questo contesto, è iniziato tutto con qualcosa che non poteva che essere significativo: la presentazione di una mostra fotografica intitolata “Aima. Uno sguardo più in là del paesaggio”. L’autore, il fotografo Carlos Infante, ha spiegato il significato del titolo. “Aima” è buono, ciò che è un bene per me. Anzitutto, lo è la natura, un bene che lo ha spinto a cercare foto che nascono da un insaziabile bisogno di bellezza. È stato il preludio ideale perché il pubblico potesse meravigliarsi davanti al lavoro di questo artista. Una bellezza senza fine, in ogni paesaggio del Cile e del Sudamerica come nei volti di alcuni ritratti, imponenti per la loro profondità. Un modo per entrare direttamente, da subito, nel titolo di Encuentro.
Poi, la tavola rotonda sull’“Educazione, una grande occasione di incontro”. Ospiti, l’ex ministro dell’educazione Mariana Aylwin, figlia del primo presidente eletto democraticamente dopo la dittatura di Pinochet, e Davide Perillo, giornalista e direttore di Tracce. Alla domanda iniziale, «la crisi di questi giorni può essere un’occasione di unione? Come si può generare un dialogo?», la Aylwin risponde con una frase di peso: «Dopo aver vissuto giorni di terrore, oggi è un giorno di speranza». E spiega: «Siamo in un clima di sfiducia, in Cile. Le istituzioni, come la politica, i militari o la stessa Chiesa, hanno perso prestigio e autorevolezza. Ci sono ancora quartieri controllati dalla criminalità e un’élite che sembra sempre più lontana dalla gente. C’è un gran malessere per le disuguaglianze sociali e un individualismo sempre più diffuso. Insomma, è difficile avere occasioni di incontro». È costato molto ai cileni riguadagnarsi la democrazia, «ma oggi sembra quasi che non siamo più all’altezza di quei momenti». Eppure, la convivenza «può rinascere proprio grazie all’educazione, un’educazione vera, che possa rilanciare il, desiderio profondo di felicità che abbiamo nel cuore». Perillo racconta di una scena vista la sera prima, appena arrivato in Cile. «Eravamo in macchina in una zona periferica, lontana dalla città e dalle manifestazioni. Ma lì, sul bordo della strada, in mezzo al nulla, c’era una famiglia: papà, mamma e due bimbi piccoli, con la bandiera e le pentole per il cacerolazo (il battere le pentole è una forma di protesta che viene dai tempi della dittatura, ndr). Mi è salita dentro una commozione e una domanda: “Che cosa cercano davvero? Cosa stanno dicendo di loro, con questo gesto?”. Avevano lo stesso desiderio che ho io, e che abbiamo tutti qui dentro: un bisogno di significato, di felicità, di giustizia. Se partiamo da qui, da questo punto che ci unisce tutti, il dialogo torna ad essere possibile».
La seconda domanda è ancora più provocatoria: cosa vuol dire essere adulti oggi? La Aylwin rispondere dicendo che «in primo luogo significa accogliere i giovani, ascoltare i loro sogni. E questo cambia lo sguardo». E racconta del lavoro educativo che fa nella propria fondazione. Perillo parte proprio da questo esempio: «È in luoghi così che si possono generare dei soggetti in grado di affrontare la realtà, anche la più complicata. Se esistono posti come questo, esiste la speranza. Perché indicano una strada, un metodo. Servono testimoni». La Aylwin aggiunge che «sembra che vogliamo distruggere, ma non sappiamo come costruire. Mentre la strada, il metodo, c’è: è il dialogo». Racconta di suo padre, quando in un discorso appena finita la dittatura parlò di riconciliazione e di un Cile che era di tutti, anche «civili e militari». E di fronte alle proteste del pubblico, ripetè con forza: «Sì, civili e militari». «La cosa peggiore che abbiamo fatto in questi anni è non aver dialogato, abbiamo perso questa forza che caratterizzò la transizione». Perillo ribadisce che la crisi «è un’opportunità grande proprio per questo: per non dare più per scontate certe posizioni, certi schieramenti, e tornare a parlarsi». Ed è una opportunità anche per i cristiani, per andare a fondo dell’esperienza che vivono: «Che cosa può dare risposte all’altezza del bisogno che emerge oggi? La fede ha qualcosa da dire a questo?».
Subito dopo, il secondo incontro. E dato che Encuentro Santiago vuol essere un luogo dove si incontrano le diversità, è così che arriva a raccontare di sé e del suo popolo Don Aniceto Norin, lonko - cioè capo - di una comunità Mapuche, il popolo che abita il Cile da millenni e che anche dopo le ondate di colonizzazione lotta per mantenere le sue tradizioni. Don Aniceto ha vissuto uno degli episodi più drammatici di quelli vissuti in questi tempi di grandi discussioni sui diritti delle popolazioni indigene: l’assassinio di una coppia di anziani per mano di alcuni Mapuche. Per questo Aniceto è stato accusato ingiustamente, ha dovuto passare tre gradi di giudizio che non erano riusciti a provare la sua colpa, ma lo avevano comunque portato a una condanna; verdetto evidentemente politico, perché non teneva conto di innumerevoli testimoni che lo discolpavano. Si è dovuti arrivare alla Corte Internazionale per avere giustizia.
Ma questa innocenza si è vista sigillata nell’abbraccio che si è scambiato con uno dei figli delle vittime. È un gesto che mostra non solo la possibilità di perdono tra due persone, ma anche l’unità possibile tra due popoli che possono capirsi tra loro, e vivendo un’armonia nell’ambito più sacro per i Mapuche che è la terra. Oltre alla consapevolezza di un capo che vive la sua leadership come responsabilità: i soldi avuti per l’indennizzo (tanti) sono stati usati per la sua comunità. E colpisce vedere in un uomo così un senso religioso, un’apertura, che lo porta continuamente a cercare di costruire ponti, di creare rapporti, dentro e fuori il suo popolo.
A fine mattinata, si legge il messaggio di Julián Carrón, che «in questo momento particolarmente drammatico che sta vivendo il Cile» anzitutto mostra la sua vicinanza e poi aggiunge: «Come qualsiasi cosa che succede, anche questa è una provocazione, un’opportunità per la vostra maturazione. Spero che Encuentro Santiago possa testimoniare che c’è gente che accetta la sfida». È così.
La giornata prosegue con un forum sul fine vita e l’eutanasia, argomento molto attuale qui per una serie di proposte di legge. Titolo: “Amare è dire all’altro: tu non puoi morire”. L’avvocato Sofia Huneus e il medico Gonzalo Arradiaga, kinesiologo, si addentrano nel tema da diverse prospettive. In gioco c’è la scoperta di cosa sia davvero una “morte degna”, mentre sempre più spesso, ovunque, si finisce per proporre l’eutanasia come una strada per decidere sulla propria persona. Si parla delle leggi, delle cure palliative, del rapporto tra medico e paziente, del ruolo della famiglia. E si aprono prospettive su un tema decisivo, troppo spesso preda di pregiudizi ideologici.
Il coprifuoco (tolto solo all’ultimo momento) ha obbligato a tagliare le serate. Si riparte il giorno dopo, domenica, con la messa. Qui si mescolano le magliette rosse dei volontari con il pubblico. C’è persino più gente rispetto agli anni scorsi. Seguono due testimonianze sul valore dello sport, su come la scoperta del «bene che l’altro è» sia decisivo anche quando ci si confronta per prevalere.
Infine, la mostra su Giobbe: “C’è qualcuno che ascolta il mio grido?”. È stata aperta per tutto l’Encuentro, nel cortile della scuola, assieme a quella delle foto di Infante. Ed è lo spunto per l’ultimo incontro, che la presenta, prima di una visita guidata. Qui il tema è il dolore innocente e il rapporto con Dio. Tantissime le domande aperte, molti visitatori davanti ai pannelli.
Si chiude con un momento di musica: canti della tradizione latinoamericana assieme a ballate rock. La bellezza si rende evidente, ancora una volta. Ed è la stessa bellezza che sui volti dei volontari, o in parole come quelle di Laura, una di loro, giovanissima, che ha lavorato perché Encuentro ci fosse e ora dice: «Sono contenta di aver partecipato a un gesto che è come una mano che costruisce il bene per tutti». Ecco, in fondo Encuentro Santiago è questa scoperta: si può costruire un bene per tutti, donando se stessi.
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