Un incessante desiderio di impossibile
La giornata di inizio anno di Gioventù Studentesca raccontata da un giessino di vecchia data. «Guardo i ragazzi seduti davanti a me. Allora come oggi, nella banalità di una sala, di facce e di storie casuali, accade che Qualcuno è presente»Il centinaio di ragazzi giunti da diverse città del Veneto che si ritrovano a Padova per la Giornata d’inizio anno di Gioventù Studentesca, dopo gli abbracci e i saluti di chi non si rivede da più di un anno, pian piano prende posto nella sala. C’è aria di ritorno a casa, di amici che si rivedono dopo una lunga, dolorosa avventura, forse non ancora del tutto consumata. Lo schermo nel salone è già acceso, il chiacchiericcio via via si affievolisce e lascia spazio alle note dell’Incompiuta di Schubert. Anch’io, un poco impacciato, mi sistemo su una sedia in fondo alla sala e osservo i ragazzi che sono seduti nelle file davanti a me. Il silenzio e le note di Schubert lasciano spazio all’attesa. La musica si smorza, un’insegnante chiede ai ragazzi di alzarsi e recitare l’Angelus. Ha inizio l’incontro. Sullo schermo appare il titolo della giornata: “Un incessante desiderio di impossibile”.
Risuonano le parole di chi guida. I ragazzi sono sollecitati a chiedersi il perché valga la pena essere qui, e passare insieme questa giornata di sole ottobrino, dal cielo terso e azzurro, come di rado si vedono da queste parti. Poi la sala è riempita dalle voci e dalle immagini di alcune testimonianze, dagli stralci di serie televisive, dai versi di un poeta spagnolo. Bellissimi. Ascolto e guardo.
Quasi di soprassalto irrompe in me un pensiero e una commozione imprevista mi sale dentro. Torno con la memoria a 48 anni fa, e mi vedo, io, ragazzo di 14 anni, che entro nella sede sgangherata di Gioventù Studentesca di allora, inconsapevole di quello che sarebbe accaduto e mi siedo, come oggi, in fondo. Ricordo perfino il colore della sedia di plastica e l’impaccio provato al suono delle voci in retto tono di quelli che mi stavano intorno e per loro sembrava una cosa normale.
Guardo i ragazzi seduti davanti a me. Allora come oggi, nella banalità di una sala, di facce e di storie casuali, accade che Qualcuno è presente, si avvicina, e prende la vita. Non appena un pezzo di vita, non solo una certa passione, un qualche impegno religioso, volontaristico, sociale o altro, perseguito con più o meno ostinazione, come accade alla sorte di molti. No, non questo, ma il cuore, la vita. Con tutto quello che ci sta dentro, la donna, la moglie, i figli, il lavoro, le battaglie, i fallimenti, i miracoli. Tutto. Senza mai lasciarti, come una speranza che illumina le giornate, una luce a volte flebile, lontana, altre volte più chiara, come la giornata di oggi. Come uno che ti prende per mano e comincia una compagnia inimmaginata, inimmaginabile. «Bestiali come sempre, egoisti, ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta».
I ragazzi che siedono accanto a me non hanno in mano un quaderno di appunti, o delle vecchie agende dismesse, come si faceva allora. Muovono veloci le dita sulla tastiera dell’iPhone e prendono appunti così. Ma si capisce che è la stessa cosa. Il tempo trascorso da quel mio primo incontro è come una lente che lascia intravedere il destino e rende più chiaro quello che accade ora a questi ragazzi.
Quello in cui ero entrato allora, che questi ragazzi cominciano a calpestare, è un luogo dove chi entra si trova la vita cambiata. Un luogo strano, come la terra attorno al roveto ardente che non finisce mai di ardere. Questa è una terra strana e drammatica per quello che può accadere. Pericolosa perfino, ma solo per quello che può non accadere. Questo è un luogo sacro. Oggi lo vedo con chiarezza. Per qualcuno o per molti di questi ragazzi accade, può accadere, l’incontro che darà forma al tempo, al lavoro, ad ogni cosa che incroceranno e toccheranno. A tutta la vita. Al destino della vita.
Così come mi è accaduto nelle circostanze banali di allora. Così può accadere lo stesso per i ragazzi che oggi stanno in questa sala, in questa compagnia, un incontro che cambia la vita. Non un pezzo di vita. La vita intera.
Mi torna alla mente l’osservazione di Charles Taylor citata da Julián Carrón nella Giornata d’inizio anno di CL. «Improvvisamente, negli anni Sessanta, ci fu una ribellione e molte persone si allontanarono». Anch’io ho assistito all’impatto di quella ribellione sulla mia generazione, erano gli anni in cui incontravo GS. Anch’io, figlio di famiglia cattolica, mi chiedo come sono potuto sfuggire allo tsunami che ha colpito la maggior parte degli uomini e delle donne, dei giovani e dei vecchi della mia terra. Anche in me risuona la domanda di Taylor: «Come ho evitato di finire come la maggior parte degli abitanti del Québec?». D’un tratto si levano le note della Canzone degli occhi e del cuore di Claudio Chieffo.
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La voce dei ragazzi prende coraggio. «Perché dagli occhi si capisce, quando la vita ricomincia». Dentro questo incontro la vita ricomincia.
Che peso grave conferiscono gli anni a queste parole! Anche per questi ragazzi, se saranno fedeli, se ameranno fino al punto di essere fedeli, la vita ricomincerà. Quando sembrerà che non ci sia più speranza. Ricomincerà. Dopo il dolore, i fallimenti e tutto quello che può accadere.
All’improvviso sullo schermo, il volto di don Giussani, e irrompe la sua voce rauca. La sala è invasa da un nuovo silenzio.
«Questo l’abisso che l’età ha scavato nel mio animo – però, era una cosa che si scavava dal mio Liceo, perché queste cose io le sentivo dal mio Liceo – … Questa è la forza della libertà e questa è la forza dell’amare, è la forza della mia affezione! Capite? Questo è l’umano».
Tra i ragazzi ogni distrazione è diventata estranea, fuori luogo. Risuona solo l’eco di quella voce. «Questo Mistero vivente, che dà consistenza al mio io, è diventato un uomo! Un uomo che diceva…». Guardo le facce di questi ragazzi che non conosco e che pure sento così vicini, così fratelli.