L'incontro alla Cattolica di Brescia

Brescia. «E un bel giorno ci si imbatte in un uomo...»

Un filosofo, un ex leader maoista e un attore. Rocco Buttiglione, Aldo Brandirali e Franco Branciaroli ricordano come l'incontro con don Giussani ha cambiato la loro vita
Piergiorgio Chiarini

È il racconto di un incontro che ti cambia la vita quello che a Brescia la Fondazione San Benedetto ha voluto proporre in occasione del centenario della nascita di don Giussani. Nell’aula magna dell’Università Cattolica ha invitato tre testimoni che l’hanno conosciuto in periodi e circostanze molto diversi: il filosofo Rocco Buttiglione, l’ex leader di “Servire il popolo” Aldo Brandirali e l’attore Franco Branciaroli. «Abbiamo ritenuto che questo fosse il modo migliore per far conoscere don Giussani, attraverso persone che raccontassero il loro incontro con lui. Quando ti aveva di fronte per lui eri tutto, sentivi su di te questo sguardo di attenzione», ha sottolineato il presidente della Fondazione, Graziano Tarantini, aprendo l’incontro. E così è stato tra ricordi ed episodi di vita vissuta che hanno restituito a un pubblico molto eterogeneo la percezione di una figura appassionata soprattutto all’uomo e al suo destino di felicità. Una passione dichiarata già nel video iniziale quando Giussani ricordava l’intuizione avuta in prima liceo ascoltando un brano della Favorita di Donizetti, che «quello che si chiama Dio, che è il destino inevitabile per cui uno nasce, è il termine dell’esigenza insopprimibile di felicità di cui il cuore dell’uomo è costituito».

La prima volta che Buttiglione incontra Giussani è a Trecastagni, vicino a Catania, all’inizio degli anni Sessanta, insieme ad altri ragazzi che avevano iniziato a seguire Gioventù Studentesca: «Dopo aver letto il passo del Vangelo in cui Gesù promette ai discepoli la vita eterna e il centuplo quaggiù ci ha incalzato dicendoci: “Se non ve ne frega niente della vita eterna posso capirlo, ma non che non vi interessi il centuplo in questa vita: cento volte più gioia nel gioco, nello studio, nella passione che cominciate a sentire per una ragazza”. Un po’ sfacciatamente gli ho chiesto: “Sì, sarebbe bello, ma come si fa?”. E lui: “Vieni e vedi, non vi prometto che tutto andrà bene, che avrete successo nella vita, ma vi assicuro che la vostra vita sarà piena, non vi annoierete più”. A quei tempi la noia era un tema dominante del pensiero, Moravia gli aveva dedicato un romanzo. Oggi dopo sessant’anni devo dire che Giussani aveva ragione».
Una pienezza che diventava esperienza reale attraverso una compagnia di amici. «Giussani “era” i suoi amici», ha sottolineato Buttiglione, «era una personalità comunionale, per la quale non posso definire chi sono fuori dalla relazione con il mio amico. Cosa voleva dire “vieni e vedi”? Anzitutto imparare a pensare. La testa di un giovane è piena di tante cose, sentite in televisione, viste su Internet. Spesso reagisce e risponde in base al sentito dire, ma non è quello che pensa veramente. Giussani invece ci invitava a mettere tutto questo tra parentesi, a domandarci: “Io cosa so perché l’ho sperimentato io, l’ho vissuto io?”, che è come dire: “dov’è il mio cuore?”».

Da sinistra: Aldo Brandirali, Rocco Buttiglione, Graziano Tarantini e Franco Branciaroli

Aldo Brandirali incontra don Giussani a metà degli anni Ottanta. Cresciuto nella militanza marxista-leninista appresa a 16 anni da un muratore di Sesto Calende, a fine anni Sessanta aveva fondato “Servire il popolo”, un gruppo di estrema sinistra: «Era una provocazione perché tutta la sinistra odiava la parola popolo, era incomprensibile; e poi “servire” era una cosa stranissima. Semmai l’obiettivo», ha raccontato Brandirali, «era dirigere, conquistare il potere con la lotta di classe, non servire. Col passare del tempo però i conti non tornavano, la teoria non corrispondeva al processo storico, non era in grado di rapportarsi con il reale. Devo ringraziare il fatto che per qualche ragione incomprensibile e misteriosa la realtà mi costringeva continuamente a cambiare idea».
All’inizio degli anni Ottanta il cinismo sembra l’unica via d’uscita alla disillusione ideologica. «Quando ho incontrato Giussani ero alla fine di questo percorso», ha continuato Brandirali «mi era rimasta dentro però l’esigenza di capire il mistero che il confronto continuo con la realtà mi aveva messo davanti. E quell’uomo mi ha accolto totalmente. “Ma che bello ‘Servire il popolo’, proprio un bel nome”, mi ha detto, sembrava quasi volesse che tornassi a fare politica col mio gruppo. “Ma io l’ho sciolto”, gli dissi. E lui: “No, è il servire il popolo che rimane, e tu Aldo rimani”. Mi sono ritrovato a essere bisognoso di una presenza che ridesse gusto e significato. L’incontro con Giussani mi ha restituito la vita, la possibilità di respirare. Mi ha rilanciato nella positività del reale. Quando io volevo cercare di capire il mistero, lui mi ributtava sempre sul reale, perché il reale è una presenza, il mistero è una presenza, è Dio che si è fatto carne in mezzo a noi. La strada della conversione è stata lunga, ma sempre bella e affascinante. Devo a don Giussani la mia vita, come ritorno al senso che avvertivo già nella tensione ideale che mi caratterizzava da ragazzino. Quello che mi colpì molto di lui è l’insistenza che metteva nel voler esser utile agli altri».

Per «mostrare la grandiosità» del suo incontro con Giussani, Franco Branciaroli ha invece voluto presentare anzitutto un breve spezzone dell’Antigone da lui diretto e messo in scena al Meeting di Rimini nel 1991 con il grande coro, di 20mila persone, interpretato dal pubblico. «Qualche anno prima», ha esordito «stavo lavorando con Giovanni Testori a uno spettacolo. In una notte di pioggia, nonostante la mia riluttanza, mi disse: “Vieni con me, voglio farti conoscere un prete”». È il primo incontro con Giussani; in quell’occasione nasce la proposta di mettere in scena al Meeting del 1989 il Miguel Mañara di Milosz. «Un’opera difficilissima da fare su un palcoscenico perché si sviluppa su più stazioni, così mi venne l’idea di utilizzare la città di Rimini come scena per i diversi momenti del dramma. Sarebbe stato uno spettacolo di 4-5 ore con un costo che sfiorava il miliardo di lire. In cuor mio pensavo che Giussani dicesse di no, invece fu entusiasta dell’idea. Lo spettacolo finì alle 5 di mattina al ponte di Tiberio, seguito da 30mila persone». È l’inizio di un rapporto che continuerà negli anni successivi. «Mi invitava spesso a mangiare», ha ricordato Branciaroli in una confessione a cuore aperto, «non ho mai capito perché, mi chiedeva di recitare Leopardi. Mi sono sempre domandato a distanza di anni cosa mi abbia dato don Giussani. Si vive tutti i giorni uno dopo l’altro, sembrano tutti uguali, ma un bel giorno senza che uno se ne accorga ci si imbatte in un uomo. E quest’uomo, che magari uno ha conosciuto da un po’, compie un gesto, come se accatastasse tutto quello che ha su un altare e in quel gesto io vedo, riconosco quello che è sepolto dentro di me, che non ho mai perduto in realtà, ma che ho sempre avuto paura di cercare. È quello soltanto che mi può dare il senso, che mi può salvare. Ricordo che Giussani mi disse che la verità spesso viene trasmessa da chi ne è totalmente all'oscuro, da chi ignora la vera natura della sua stessa condizione. E queste sono le astuzie della verità. In poche parole uno non ha fatto niente per attirare su di sé questa verità, eppure si trova a possederla».