Il progetto "Ospedali aperti" in Siria

Tende Avsi/3. Siria, ricominciare dagli ospedali

Un Paese ancora stretto nella morsa della guerra e della povertà. Un progetto della Campagna di quest'anno si occupa di ridare vita a un sistema sanitario in ginocchio. Ecco di cosa si tratta
Davide Grammatica

Angie è una ragazza siriana che studia ingegneria meccanica. Adora Damasco, la città dove vive, studia, e in cui ama passeggiare. Le piace più di tutto l’odore del gelsomino, che si espande dappertutto: è il carattere distintivo di Damasco, dice lei. Ancora oggi, anche dopo una guerra che ha dilaniato la città. Angie stava andando in chiesa quando perse una gamba sotto un colpo di un mortaio. Oggi continua a camminare, con l’aiuto di una protesi, e grazie ai soccorsi offerti dal progetto “Ospedali aperti” di Avsi, che dal 2017 opera concretamente in aiuto del popolo siriano.

L’obbiettivo del progetto, nato grazie all’iniziativa del Nunzio apostolico in Siria, Mario Zenari, era quello di aprire le porte di tre ospedali (l’Ospedale Italiano e l’Ospedale Francese a Damasco, e l’Ospedale St. Louis ad Aleppo) al maggior numero di pazienti poveri che, altrimenti, non potrebbero pagare le cure di cui hanno bisogno.



Oggi la Siria è ancora in guerra, impegnata soprattutto nella questione Rojava, ma le città di Aleppo (nel 2016) e Damasco (nel 2018) sono tornate da tempo sotto il controllo del Governo. Se da una parte non cadono più bombe sulle città e l’incubo della guerra sembra essere terminato, dall’altra «la situazione in Siria continua ad essere molto complessa». Sono le parole di Flavia Chevallard, responsabile del progetto: «La vita continua ad essere molto dura. L’economia e il tessuto sociale non vedono uno spazio di ripresa, e c’è un embargo internazionale che limita la capacità produttiva del Paese già ostacolata dalla perdita di infrastrutture. L’inflazione è alta, i prezzi continuano a salire e uno stipendio medio non riesce a coprire le spese più essenziali come l’affitto di una casa. In tutto questo, il settore sanitario resta uno dei più colpiti».

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il 54% degli ospedali siriani sono chiusi o parzialmente inagibili, e che mancano i due terzi del personale necessario. Avsi, nell’ultimo anno, ha lavorato proprio nel tentativo di renderli operativi sia sotto il profilo dell’assistenza sia da un punto di vista amministrativo. Nel 2020, anno in cui terminerà il progetto, le strutture di Aleppo e Damasco dovranno essere in grado di funzionare con le loro forze.

Dopotutto, era proprio dal rischio della chiusura dei reparti ospedalieri che l’operazione era iniziata. E, fino a oggi, si è riusciti ad assicurare più di 27.700 interventi di cura gratuiti e di qualità.



«La sicurezza, purtroppo, non esclude la vulnerabilità», racconta Flavia, che spiega cosa vuol dire avere a che fare con un popolo ancora in ginocchio: «C’è chi, in difficoltà economica, rifiuta le cure per non gravare sulla famiglia. Oggi il problema più grave non sono tanto le ferite di guerra, quanto piuttosto le malattie importanti e sempre più ricorrenti. Per questa ragione il bisogno più grande è quello della ricostruzione del sistema sanitario, dall’attrezzatura medica, passando dalla formazione dello staff fino all’amministrazione. La fine della guerra aveva illuso tutti che le cose sarebbero subito migliorate. Ma è durato poco».

Difficile conservare la speranza in un contesto del genere o avere fiducia in un futuro migliore. António Guterres, segretario generale dell’Onu, parlò della Siria come di un «inferno in terra», un Paese di 23 milioni di abitanti, di cui 11 sfollati, tra territori interni e vicini, e 500mila persone morte per la guerra. E dove 83 persone su 100 vivono sotto la soglia della povertà.

Il cardinale Zenari raccontava della Siria come del malcapitato della parabola del buon samaritano, il quale giunge in soccorso e lo accompagna in una locanda, accollandosi le spese. Ecco, oggi la Siria pare non avere nemmeno una locanda. E il buon samaritano si “accolla” un compito ancora più gravoso, quello di aiutare a ricostruire quella locanda che non c’è più.

«La gente, però, resiste» dice Flavia, sottolineando la tenacia di un popolo che non si arrende. E che vuole ripartire: «È nella forza di questa gente la luce della speranza. Nell’anziana malata, senza parenti che la possano aiutare, che viene accompagnata in ospedale dal vicino di casa. Nei ricoverati di qualunque religione, a cui non viene richiesto che fede pratichino. E anche chi prima vedeva questi ospedali cattolici come istituzioni di infedeli, ora sono i primi che parlano bene della Chiesa. E poi ci sono storie come quella di Angie, che è tornata a studiare e a camminare».

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Il progetto, patrocinato dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, è finanziato da: Conferenza Episcopale Italiana, Papal Foundation, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, Roaco attraverso l’Ordine equestre dei Cavalieri del Santo Sepolcro, Misereor (Organizzazione episcopale tedesca per lo sviluppo e la cooperazione), Conferenza Episcopale Usa, Caritas Spagnola, Gendarmeria del Vaticano attraverso la Fondazione San Michele Arcangelo, Catholic Health Association – Usa, Fondazione Terzo Pilastro, Fondazione Umano Progresso, Fondazione Cariverona, Fondazione Mondo Unito, Caritas Provitae Gradu Charitable Trust, Governo ungherese (nell’ambito del piano “Hungary Helps”). A questi finanziamenti si aggiungono le donazioni di privati e imprese italiane e i contributi raccolti attraverso il 5x1000.