Antonio Machado

Antonio Machado. Sulla riva del «grande silenzio»

Desiderio e angoscia, ribellione e speranza. Il suo è un cuore ferito. Ma «desto, desto». Viaggio tra i versi del grande poeta spagnolo. Che, volendo ridestare le coscienze dei suoi contemporanei di inizio Novecento, non smette di parlarci
Isabel García Serrano

I poeti che parlano della loro nostalgia, della loro malinconia, del loro anelito a una vita grande, della loro ricerca di Dio, parlano di noi. Antonio Machado (Sevilla, 1875 - Colliure, 1939) visse con la domanda sempre aperta, ferito da un desiderio al quale non trovava risposta.
Formatosi in un ambiente laico, quello dell’Institucion Libre de Enseñanza de Giner de los Ríos, segnato dall’influenza del filosofo tedesco Karl Krause che provò a conciliare panteismo e teismo, Machado ha lavorato come professore di francese tra Soria, Baeza e Segovia. Come altri autori della cosiddetta “Generazione del ’98”, con la sua poesia cerca di risvegliare le coscienze degli spagnoli, in un momento di cristi politica ed esistenziale del Paese. Tra le sue opere maggiori c’è Soledades. Galerías. Otros poemas (1907), di tono melanconico ed intimista; e Campos de Castilla (1912). In quest’ultima, si sente più forte la sua meditazione sul rapporto tra la dimensione dell’effimero e quella dell’eterno, cui aveva già dedicato la produzione precedente. Se in Galerías seguiva la traccia dell’auto-contemplazione, qui i suoi versi sono proiettati al “fuori”, osservando con occhi spalancati il paesaggio castigliano e gli uomini che lo abitano.
Oggi leggere Machado significa godere della bellezza della parola e della bellezza della verità.

È sera cenerognola e appassita,
e squinternata, come la mia anima; 
e nella consueta ipocondria
vive la vecchia angoscia.

La causa dell’angoscia non riesco
a capire neppure vagamente;
ma mi ricordo, e ricordando dico:
– Sì, ero bambino, e tu la mia compagna.

***

Non è vero, dolore, io ti conosco,
tu sei rimpianto della vita buona,
desolazione di un oscuro cuore,
di nave immune da naufragio e stella.
Come dimenticato cane, privo
d’orma ed olfatto, errante
per i cammini senza meta; come
bimbo che nella notte di una festa
si perde tra la folla
e l’aria polverosa e i candelieri
che sfavillano, attonito, ed abbuia
il suo cuore di musica e di pena,
così vo io, ubriaco melanconico,
chitarrista lunatico, poeta,
e pover’uomo in sogno,
sempre in cerca di Dio dentro la nebbia.

Poesías completas, LXXVII
(in Tutte le poesie e prose scelte, Mondadori, 2010)

L’autore identifica la sua condizione psicologica di tristezza e nostalgia con una sera cenerognola, appassita e squinternata. Si propone di portare alla luce la causa dell’angoscia che lo accompagna sin da bambino. In un primo momento nega di conoscerla; in seguito si corregge, dialoga con il proprio dolore e confessa, alla fine, i due elementi che la provocano: il suo desiderio di una «vita buona», e la sua solitudine, la solitudine di chi è perduto e naviga senza una rotta, anche se non giunge a naufragare.
Utilizza successivamente due immagini convergenti per descrivere la natura della sua solitudine. Il «dimenticato cane» appare tragico perché interpretiamo il suo disorientamento e la sua disperazione in termini umani. Il bambino è visto e sentito come un povero cane perduto. Machado è un bambino angosciato, sconcertato, un cane errante, senza una traccia e senza olfatto. Così, quando guarda se stesso, e allude al suo vagare senza una rotta, queste semplici espressioni – «ubriaco malinconico», «chitarrista lunatico»… – ci dicono chi è lui e la causa del suo penare: si è sentito sempre perduto, senza una rotta. Ma perché questo sentirsi perduto? Nell’ultimo verso rivela la causa della sua angoscia: la mancanza di Dio. È stato sempre «alla ricerca di Dio» senza trovarlo, disorientato, «avvolto dalla nebbia».

S’è addormentato il mio cuore?
Alveari dei miei sogni,
non lavorate più? È secca
la noria del mio pensiero,
sono vuoti i bigoncioli,
nel girare, d’ombra pieni?
No, che il mio cuore non dorme.
Il mio cuore è desto, è desto.
Né dorme né sogna, guarda,
i limpidi occhi aperti,
segnali lontani e ascolta
a riva del gran silenzio.

Poesías completas, LX

Il poeta scopre che il suo cuore è sereno. Si sorprende per questa pace, ma si rende conto che è più desto che mai – «desto, desto» –. Alza gli occhi e guarda. È una tensione, un ascolto silenzioso, in attesa di un segno, un segnale che venga da lontano – anche se sembra che non ne sia mai giunto uno per lui –. Qualcosa o qualcuno a cui indirizzare le sue domande, che risponda ai suoi desideri.
Nella poesia CXIX piange la morte di sua moglie, Leonor Izquierdo, una ragazza che sposa quando lei ha quindici anni, nel 1909, e che muore tre anni dopo di tubercolosi. La scomparsa della ragazza getta l’autore nella più profonda desolazione.

Signore, mi strappasti quanto avevo più caro.
Odi ancora, Dio mio, questo cuore che chiama.
Signore, il tuo volere operò contro il mio.
Signore, ormai siam soli il mio cuore ed il mare.

Poesías completas, CXIX

In questi momenti drammatici il poeta si rivolge a un «Signore», un Dio che gli ha «strappato» l’amore della sua vita senza considerare il suo grido. Ancora una volta si ritrova solo con il suo desiderio incompiuto. Solo di fronte al mare, simbolo in questa occasione di quel luogo misterioso dove i morti si perdono, o del dramma della vita che finisce nella morte.
Poche settimane prima della morte di Leonor, così termina uno dei suoi poemi più belli:

Al vecchio olmo, spaccato dalla folgore
e nel mezzo marcito,
con le piogge d’aprile e il sole a maggio,
sono spuntate poche verdi foglie.
[…]
Olmo del Duero, prima che t’abbatta
con l’ascia il legnaiuolo, e il falegname
ti trasformi in un mozzo di campana,
stanga di carro o giogo di carretta;
prima che rosso nel camino arda,
domani in qualche misera casetta,
sul ciglio d’una strada;
prima che ti annienti un turbine e ti schianti
il soffio delle candide montagne;
prima che il fiume ti sospinga al mare
per valli e per burroni,
olmo, voglio annotare nei miei appunti
la grazia del tuo ramo rinverdito.
Anche il mio cuore aspetta
alla luce guardando ed alla vita,
altro prodigio della primavera.

Poesías completas, CXV

Mentre Leonor è gravemente malata, Machado osserva come dal tronco di un vecchio olmo moribondo spunti un tenero ramoscello verde. Descrive la bellezza rinsecchita dell’olmo e il suo triste futuro, ma fissa gli occhi su quel ramo. Ripete con insistenza l’avverbio di tempo prima ponendolo in apertura di più versi, come se volesse fermare il tempo prima dell’addio doloroso, e dialoga con l’olmo: voglio fare mia «la grazia del tuo ramo rinverdito». Il miracolo per cui dalla morte del tronco sorge la vita è il segno di una speranza. La guarigione di Leonor, un «altro prodigio della primavera». Questo è Machado e questo siamo noi: angoscia, desiderio, ricerca, ribellione e speranza.

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