L'incontro al Festival "Andiamo al largo" (foto: Filmati Milanesi)

Lepori. L’Europa del portinaio

Al festival del Centro Culturale di Milano, il dialogo con l'abate generale dei Cistercensi. Un viaggio alla radice della "vita in comune", tra Fossati, don Camillo e Peppone, lo sguardo di Abele. E il vero protagonista della "Regola" di Benedetto...
Alessandra Stoppa

Perché una comunità di monaci non è un animale esotico, l’insolita scelta di alcuni uomini che restano ai margini della storia, ed è invece un paradigma per tutti? Perché può rispondere ai problemi che soffocano le società, e al nostro desiderio di vivere e di vivere insieme?
La risposta attraversa tutto il dialogo con padre Mauro-Giuseppe Lepori. Secondo giorno di festival “Andiamo al largo” del Centro Culturale di Milano. Il titolo dell'incontro è tratto da un verso di Ivano Fossati: “C’è una strada dentro il cuore degli altri. Benedetto”. Ma non c'è da aspettarsi una lezione di storia sul Patrono d'Europa: sarà in fondo anche questo (per poter capire il presente e ancora sperare), ma è soprattutto un affondo sui nervi scoperti della vita, i rapporti, la solitudine, l'amare, il costruire.
Lepori per passione dipinge acquarelli e Mattia Ferraresi, corrispondente negli Usa per il Foglio, gli chiede di aiutarci a tratteggiare la condizione dell’uomo di oggi. «Quando dipingo non faccio mai schizzi preparatori», precisa l’abate: «O la va o la spacca». Così risponde, a braccio, alle domande del giornalista, con parole solide e pure, che disarmano e a volte ribaltano la prospettiva al pubblico che riempie la piazza, sulle sedie, per terra, in piedi.

Il primo schizzo è sulla tensione perenne tra «le due grandi vie»: l’io e il tu. Lepori ritrae il rapporto con l’altro così come si presenta, incastonato, nella natura dell’uomo: «Il bambino conquista la sua identità nella relazione con il tu. Crescendo, pensa di non averne più bisogno». Poi arriva il tempo dell’innamoramento, di un tu dirompente: «L’altro è tutto per me, ed io sono tutto per lui. Ma anche questa fase si esaurisce».
È qui che la prospettiva di Benedetto, della comunità cristiana, apre alla scoperta radicale dell'altro, che io non controllo: «C’è un tu che mi costituisce ma non è nelle mie mani, non dipende da quel che faccio». Lepori racconta l’esperienza che la Chiesa ci fa fare nella vita della comunità: «L’altro – quando io accetto il mistero del suo cuore – diventa una strada per me: verso me stesso, verso di lui, ma anche verso Dio». È strada perché è dono, non è cosa mia: «Solo quando scopro e soffro l’altro – e quando mi scopro e mi soffro – come qualcosa che non possiedo, che supera la mia capacità di amare, allora il rapporto diventa strada infinita che mi conduce al mistero».

Padre Mauro-Giuseppe Lepori

«Il cielo è un casino». È il murales che Ferraresi ha intravisto dal treno che l’ha portato a Milano: «È quasi bestemmia, ma è il grido dell’uomo». Gli ha ricordato come prosegue la canzone di Fossati: Mio fratello che guardi il cielo e il cielo non ti guarda.... Qual è l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo verso il cielo? Lepori risponde con l’intuizione profondissima racchiusa in un’opera del 1470 del Duomo di Costanza, che raffigura Caino e Abele mentre fanno la loro offerta a Dio. Caino dona i frutti della terra, con uno sguardo pio rivolto al cielo. Abele offre un agnello, con lo sguardo fisso a suo fratello, che pure non lo ama. «Questo occorre recuperare oggi. Una religiosità di comunione con Dio e con il fratello. Non una religiosità che soddisfa solo se stessa, autoreferenziale, che mi unisce soltanto a Dio».
Infatti Dio rifiuta l’offerta di Caino, se pur più ricca, come nel Vangelo succede al fariseo del tempio. Invece Abele offre la sua apertura vulnerabile al fratello: «Così vulnerabile da lasciarsi uccidere». L'altro e Dio sono i due assi che costituiscono la croce e si incontrano nel cuore di Cristo. Allora c’è una sola fede che attrae: «Quella che c’entra con l’amore, con la vita mia e con la vita dell’altro».

L’oggi è un «ribollire di comunità, in tutte le forme», dice Ferraresi, ma questo mostra anche il lato ambiguo di un mettersi insieme «generato, dettato, da un interesse comune», una comunità che si costruisce da sé: la cifra della cultura americana descritta da Alexis de Tocqueville. L’esperienza di cui parla Lepori ha un altro accento. Infatti l’abate fissa il problema nella ferita del peccato di Adamo: il voler essere in comunione senza lasciarsela donare da Dio. Invece non è opera nostra.
San Benedetto propone una vita di comunità che educa ciascuno a «non sentirsi capace di costruirla», continua Lepori: «Nell’esperienza monastica, riconosco che io non so amare, non so fare comunità, non so costruire questo “mondo nuovo”. È necessaria questa coscienza, per poter domandare a Cristo che ce la doni. Del resto nella Regola la virtù più importante è l’umiltà».
L’invito che fa allora a ciascuno è di testimoniare che «la comunità si costruisce solo tra poveri». Fino al paradosso che illumina i temi sociali più caldi di oggi: «Senza questo spirito è impossibile l’accoglienza di popoli che vengono ad aggiungersi alle nostre società. Se si è forti, non si può accogliere. Non c’è solidarietà nel rapporto tra uno più forte e ricco e uno più debole e incapace. L’aiuto è solo tra poveri, per essere forti insieme. Chi arriva nei nostri Paesi viene in aiuto delle povertà che abbiamo in noi».

L’esempio più palese è quello dei tanti badanti stranieri su cui ci appoggiamo. E poi c'è l'esempio della Regola di Benedetto, dove il personaggio più maturo non è l’eremita o l’abate, ma è colui che salendo i gradini dell’umiltà diventa come il pubblicano del Vangelo. Il vero protagonista è il monaco portinaio. «Un uomo anziano», lo descrive Lepori, «che ha acquistato un’interiorità tale da non vagare fuori. È messo alla porta perché capace di dare risposte a chiunque si presenti. E soprattutto di accogliere l’altro,con tutta la gratitudine a Dio perché c’è». Fino a dettare le parole di saluto, Deo gratias, di fronte a chi arriva. Non c’è qualcosa di più grande per un uomo che scoprire di «essere la gioia dell’altro».

Il direttore del CmC, Camillo Fornasieri, con padre Lepori e Mattia Ferraresi

La città è “la” comunità dell’evo moderno. «Eppure», sottolinea Ferraresi, «soprattutto negli ultimi trenta, quarant’anni, si è acuita la percezione che sia il luogo della solitudine, il “male supremo” sociologicamente parlando». Chiede all’abate che cosa sia veramente la solitudine, se un monaco «la vive come porta di accesso a un dialogo permanente, con Dio e con gli altri». Lepori pennella la solitudine di Adamo e la nostra, come il continuo fuggire dalla compagnia che Dio ci offre. Ricorda il rapporto epistolare avuto con un brigatista condannato all’ergastolo e l’espressione di Guglielmo di Saint Thierry: «Per il monaco che non cerca Dio la cella diventa come un carcere». È vero quanto il fatto che un detenuto che cerca Dio può sperimentare, in prigione, che la solitudine è vinta. Lepori affonda: «Ogni pretesa di superamento della nostra solitudine che non abbia dentro Dio è illusoria». È sempre una fuga. «Soltanto accogliere la compagnia che Cristo vuole farci rende possibile tra noi uomini una compagnia vera. Perché nell’altro c’è il mistero di Cristo che mi viene incontro».

Ferraresi chiede se esiste ancora l’Europa dei grandi valori, della persona e dei popoli, della solidarietà, o se è stata neutralizzata dalla «civiltà della tecnica e del commercio», secondo una definizione di Ratzinger. «L’Europa vive di valori che sono come rami secchi non alimentati», dice l'abate: «Ma la radice non è fatta da noi. È un dono che Cristo ha fatto a questo popolo per donarsi a tutti. Ed è un dono che ha fatto senza pentimento».
Allora può seccare tutto, ma «questa radice non muore». L’impazzire dei valori che vediamo oggi «ci deve rendere testimoni dei piccolissimi segni di vita che irradiano il buio. Perché, se c’è una foglia verde – anche una sola foglia verde – vuol dire che la radice vive». È a questa coscienza che richiama innanzitutto i cristiani: «Senza essere arroganti», precisa: «Quando vogliamo salvare i valori, imporli, non facendo esperienza della radice per la nostra vita, non c’è frutto».



Le foglie verdi ci sono. Anche se noi continuiamo a temere che tutto sia andato perduto. Un po' come lo scagnozzo di Peppone, che vende per mille lire la sua anima a un vecchietto della parrocchia di don Camillo, e poi va in giro a chiedere a tutti: «Non vedi niente di strano? Non ti sembra che mi manchi qualcosa?». Lo prendono per matto. E lui si ricompra l’anima. «L’anima dell’Europa c’è», dice Lepori: «Ben venga questa crisi dei valori, per riconquistare la coscienza dell’anima che abbiamo. Non saranno dei trionfalismi a salvare i valori, ma l’umile riconoscimento che tutto ciò che di buono c’è stato, c’è, ci sarà e ci potrà essere, è dono. Il dono di Uno che è morto per noi, per cui si dà sempre e sempre si può riaccogliere».

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Per rispondere alla domanda sulla tradizione, oggi spesso ridotta a «un ramo secco da recidere, spazio angusto e sterile», Lepori fa un’altra domanda: «Trasmettiamo quello che facciamo noi o trasmettiamo Cristo? Cristo: la sua persona, la sua carità, il suo Vangelo, il suo amore. Per san Paolo la tradizione è trasmissione di Qualcuno, infatti parla dell’Eucarestia». La diversità della Chiesa nel trasmettere qualsiasi valore è chiara in Gesù: «Con umiltà, trasmetteva ciò che gli veniva dal Padre per il mondo, attraverso la sua stessa persona. La Chiesa è chiamata a trasmettere ciò che le è dato da un Altro, per tutti». Se non è un dono che riceviamo e non è per tutti non è più cristianesimo.
Ferraresi chiude l'incontro con un augurio, da farsi l’un l’altro: «Essere sempre più monaci portinai».