Javier Prades

Verso il Meeting. «Perché sono così liberi?»

La necessità di “spazi umanizzanti” per il mondo di oggi. E la via della testimonianza per la costruzione sociale e politica. Javier Prades racconta su Tracce il cammino della Chiesa rispetto alla libertà religiosa, uno dei temi chiave di Rimini
Alessandra Stoppa

«Dio vuole essere amato liberamente». Che cosa c’entra questa affermazione con il nostro mondo, con la sua costruzione e i suoi problemi? Nelle società plurali, in profonda trasformazione, la Chiesa offre uno sguardo nuovo, attraverso il documento della Commissione Teologica Internazionale: “La libertà religiosa per il bene di tutti”. Rimettere al centro quella che trent’anni fa Giovanni Paolo II definì «la pietra angolare dell’edificio dei diritti umani» aiuta a capire quanto sia attuale la grande conquista del Concilio Vaticano II: non c’è accesso alla verità se non attraverso la libertà.
«Ciò vale per tutti e in tutte le dimensioni della vita», dice don Javier Prades López, rettore dell’Università San Dámaso di Madrid, che ha presieduto la sottocommissione che in questi anni ha lavorato al testo. “Approccio teologico alle sfide contemporanee”, recita il sottotitolo. Ma non è materia per accademici, piuttosto la proposta ragionata di una visione dell’uomo. Oggi che il ruolo della religione nello spazio pubblico è ridotto a come la fede viene brandita nei conflitti, nei dibattiti, nelle mosse dei leader politici, è cruciale sorprendere che la libertà dell’esperienza religiosa è un orizzonte vitale per tutti: vuol dire, anzitutto, combattere per lo spirito e il cuore dell’uomo nel suo rapporto ultimo con il Mistero. La «grande battaglia è tra la religiosità autentica e il potere», scriveva don Giussani, perché il tentativo del potere è «distruggere l’umano. E l’essenza dell’umano è la libertà, cioè il rapporto con l’infinito».



La “libertà religiosa” si rivela così un banco di prova per la coscienza che la Chiesa ha di sé e della sua missione. Ed è anche un fendente all’ideologia di uno Stato liberale che sembra inscindibile dall’opzione relativista, come unica garanzia di libertà, finendo per essere autoritario. Se «la storia è lo spazio del dialogo nella libertà», come sintetizza Julián Carrón ne La bellezza disarmata, in questa conversazione Prades spiega perché la libertà religiosa è lo “spazio” insostituibile per la realizzazione personale e collettiva.

Perché il documento? Perché è urgente approfondire le ragioni della libertà religiosa?
Siamo provocati dalla realtà, da ciò che avviene. Gli oltre cinquant’anni trascorsi dal Concilio Vaticano II offrono dei cambiamenti molto profondi nella società, a tutti i livelli, ma in particolare riguardo alla libertà e alla libertà religiosa. Se pensiamo al mondo occidentale dei primi anni Sessanta, il panorama religioso era molto più omogeneo. L’oggi, soprattutto tramite le migrazioni, conosce un mescolamento di esperienze che, se pur in mezzo a molte difficoltà, riapre indubbiamente la questione della religione come fenomeno comunitario vivo. Questa è una delle trasformazioni più interessanti: se l’Occidente sembrava tendere a una religiosità privata e interiore, o addirittura a cancellarla, la storia recente riapre la questione della dimensione sociale della religione e del carattere pubblico della verità.

La previsione di una “scomparsa” della religione, o quanto meno di una sua irrilevanza nello spazio pubblico, è stata smentita dalla realtà.
La cultura globale non si è mossa soltanto in quella direzione. Pur se c’è un’evidente diminuzione di pratica religiosa nei Paesi occidentali, non si è avverato a livello mondiale quel passaggio previsto: dalla religione alla filosofia e poi dalla filosofia alla scienza e alla tecnica, che avrebbero dovuto garantire il futuro dell’umanità. Per dirla semplicemente, il fenomeno religioso, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. L’altro grande cambiamento rispetto agli anni Sessanta è l’evolversi della percezione dello Stato democratico: è e resta un guadagno irrinunciabile della civiltà, ma non mancano osservatori – dentro e fuori la Chiesa – che notano un irrigidimento procedurale. Non contano più le affermazioni sostanziali sull’uomo, ma soltanto le regole di procedura formali, presunte garanti della convivenza.

Può fare un esempio?
Se c’è un principio basilare della cultura politica liberale è l’uguaglianza di tutti davanti alla legge, legato al principio di cittadinanza. Proprio per il suo carattere formale riusciva ad essere universale, senza farsi condizionare dalle varie appartenenze particolari (culturali, etniche, religiose...), che invece dividevano. Così si garantiva meglio a tutti la giustizia. Per questo, risulta molto interessante il dibattito suscitato dal multiculturalismo, dove si sente che quei principi formali, paradossalmente, non riescono a fare giustizia concreta, per esempio, alle minoranze. E si propongono altri principi come quello di “cittadinanza culturale” o di “discriminazione positiva”, che di fatto vanno oltre la concezione formalista del principio di uguaglianza. L’argomento è complesso, ed è ancora molto aperto. Ha delle importanti ricadute sulla questione della libertà religiosa.

Quali sono gli scopi del documento?
Verificare come il Concilio Vaticano II rimane di attualità di fronte a tutti questi cambiamenti. E comprendere come comunicare, in questo mondo in profonda trasformazione, la dimensione singolare e comunitaria dell’esperienza religiosa. Soprattutto oggi, che la nostra civiltà attraversa una crisi di senso molto forte, come dice l’ormai celebre formula di papa Francesco del «cambiamento d’epoca».

Come la Chiesa sta prendendo più coscienza di sé, a partire dalla libertà religiosa?
Il Concilio ha fatto un passo che è stato definito “profetico”, perché in esso la Chiesa si è riallacciata alle sue radici più originali e alla sua tradizione più viva, più vera, per ridire il cuore del Vangelo: Dio non forza nessuno nell’adesione alla fede. Questo, oggi, nella coscienza della Chiesa è ancor più chiaro rispetto a cinquant’anni fa, quando fu proclamato davanti a tutti nella Dignitatis humanae. La Chiesa ha percorso un cammino che può essere d’aiuto per le altre tradizioni religiose e anche per gli uomini non credenti.

Perché?
Si sono approfondite le ragioni anche umane del valore della libertà nel rapporto con Dio, che è il gesto più profondo e personale che si possa compiere. Nessun uomo può essere costretto da un altro uomo nella sua religiosità e lo Stato è chiamato a rispettare questa libertà e a creare le condizioni favorevoli per la libera espressione del rapporto dell’uomo con il Mistero. Di fronte ai nuovi fenomeni, la Chiesa sta approfondendo quel passo profetico, per esempio rifiutando di strumentalizzare la politica e di farsi strumentalizzare da essa. Inoltre, in questo cammino, accetta le proprie responsabilità: le espressioni di sé storicamente sbagliate. Ma il Vangelo non è cambiato e la Chiesa si è fatta sempre correggere dall’annuncio e dalla sua tradizione viva. Dopo il Concilio, tutti i Papi, da san Paolo VI a san Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI a Francesco, hanno approfondito l’esperienza e il discorso sulla libertà religiosa.

Di recente, il sociologo Edgar Morin osservava che quanto più oggi appare evidente – con la globalizzazione – che esiste «un destino comune», che «tutta l’umanità è trascinata in una avventura comune», tanto meno «si forma questa coscienza», perché la paura «innesca un ripiegamento sulla propria identità religiosa e nazionale». Nel documento, mettete al centro il legame inscindibile tra l’istanza personale e quella comunitaria, fino a dire che la trasmissione delle tradizioni nazionali, famigliari, religiose «è una sfida geopolitica globale».
Il racconto nazionale, come quello famigliare o religioso, permette l’accesso ad una comunità di senso dove si scopre la libertà. Tu sei accolto dalla famiglia, dalla nazione, dalla comunità... è così che tu puoi sapere chi sei, arrivare a conoscere te stesso. Perché ricevi la vita, e anche una proposta di senso della vita, e la puoi donare ad altri. Se non fai questa esperienza, il percorso della pienezza umana può rimanere molto ridotto. Mortificato. Quindi lo spazio comunitario deve essere difeso per tutelare una possibilità di proposta umanizzante, anche lo spazio delle comunità religiose. Si deve vagliare accuratamente, ma non si può pregiudizialmente espellere dallo spazio pubblico l’esperienza religiosa: è la dimensione più profonda di ogni singolo uomo ed è caratteristica delle grandi civiltà lungo la storia.

Con che criterio si vaglia se un’esperienza è bene per tutti?
Se fa crescere l’umano, se genera un’umanità che attrae, che diventa affascinante per la sua compiutezza in tutte le dimensioni della vita: ragione, libertà, affezione. Ogni proposta si sottopone al criterio dell’umano vero, che discerne le forme deviate e sbagliate di religiosità (fino alle sette e al fondamentalismo) e verifica se un’esperienza è sorgente di valori. Penso, innanzitutto, al valore dell’essere insieme, e poi tanti altri come la solidarietà e la sussidiarietà, l’uguaglianza, l’accoglienza, la custodia del creato, il senso della giustizia e del lavoro, la sicurezza giuridica, il bene della vita in ogni sua fase, la qualità della famiglia... Queste sono le esigenze conclamate e sentite da tutti, sia pure in modi diversi. È in forza di queste categorie che si possono valutare le proposte religiose, come anche quelle non religiose.

Che sguardo chiede la Chiesa allo Stato?
Che promuova il contributo religioso della persona e delle opere, non che lo controlli con diffidenza. È necessario, per una sanità dei legami sociali, che ci siano spazi umani vivi dove si possa raccontare l’esperienza del senso del nascere, del vivere, del lavorare, dell’amare, del morire. “Luoghi” che rendano umano l’umano, che umanizzino. Questa è la sostanza dello sguardo che viene chiesto allo Stato e che Benedetto XVI e Francesco chiamano “laicità positiva”. Non si tratta solo di assicurare diritti e doveri formali – questa è una dimensione –, ma di valorizzare il contributo della Chiesa, come anche la diversità dei tentativi umani di senso, garantirne la possibilità, proprio perché sono un contributo al bene di tutti, e la Chiesa non è in concorrenza ai compiti specifici dello Stato. Ci deve essere un’adeguata e irrinunciabile distinzione di scopi e di campi, in un atteggiamento di cooperazione tra la comunità politica e la Chiesa.

Un esempio?
Un esempio classico sono i diversi modelli di scuola. Tutti vanno sottoposti al vaglio dei loro esiti: non pregiudizialmente, ma consentendo – man mano che si sviluppa l’educazione – di verificare quale modello è più in grado di essere umanizzante. È necessario che ci sia lo spazio perché anche una scuola cristiana, oppure un ospedale o una cooperativa, ponendosi liberamente, possano far sì che pure chi non condivide l’impostazione senta quella scuola, quell’ospedale o quella cooperativa come convenienti per la persona e per la società. Più c’è possibilità di questo, meglio sarà per tutti.

Ne va anche dello Stato stesso.
Se non segue questa strada, sarà sempre più debole nell’assicurare il suo compito, così importante, di garantire la convivenza e servire il benessere del popolo. E cederà a un ideale tecnocratico-economico o tecno-scientifico, oppure alla conquista del potere da parte di chi ha più forza – anche “religiosamente” connotata.

Quella che il documento propone è una visione dell’uomo.
Di un uomo che non è condannato al “non senso” e alla disperazione. Noi affermiamo che ogni persona singola, per il fatto di essere parte del genere umano, è portatrice di una dignità intoccabile e incancellabile. Non dipende dalle sue capacità specifiche, ma dal fatto stesso di appartenere al genere umano... Questo sguardo sull’uomo e sulla vita può essere condiviso da tutti, noi l’abbiamo imparato da un annuncio, quello di Gesù, che dice: siete tutti fratelli e nessuno è escluso dal rapporto con il Padre. Siete tutti nientemeno che “immagine di Dio”. Questa è la nostra proposta, chi ne ha un’altra la giochi.

In che modo si può contribuire a ridare carattere pubblico alla verità senza, appunto, che la religione e la politica si strumentalizzino a vicenda?
Con la testimonianza. Non c’è un’altra via. Si può dire meglio, con la testimonianza integrale della «fede che agisce per la carità». Può essere la carità del singolo – la mamma con il bambino, il giovane con il compagno a scuola o al lavoro… –, e anche delle espressioni associate in tutti i campi del sociale. È fondamentale l’esistenza di “luoghi” umani dove ci sia lo spazio per maturare la libertà, radicalmente, dall’origine al destino finale di tutto, la vita come rapporto con il Mistero che ci fa vivere. Il documento dice: «Gli uomini liberi vengono alla luce nel rapporto con altri che hanno già conquistato più libertà». La grande questione, come per ogni valore, è la modalità con cui esso viene proposto. Deve essere una modalità efficace, che esprima realmente quel valore facendolo vivere. Per questo, se non ci sono spazi dove si può assimilare vivo il contenuto del valore, è probabile che la sua assimilazione resti molto fragile. Rimanendo un’affermazione nominalistica o un doverismo.

Come questa testimonianza risponde a una cultura che contrappone la verità alla libertà? E cosa mette in luce della fede cristiana?
Permette di cogliere che il rapporto con la verità e con il bene è un’esaltazione della libertà. Non una mortificazione di essa. Per questo la libertà religiosa ha un posto centrale nella missione della Chiesa: l’orizzonte non è la ricerca di privilegi o di potere in quanto tali, ma il servizio agli uomini. E diventa una possibilità di scoprire più limpidamente il punto sorgivo: la natura dell’avvenimento cristiano e, quindi, dell’esperienza umana. La possibilità di diventare se stessi è, sempre e comunque, mediata dalla libertà: non c’è identità di sé che non passi e si compia nella libertà. Questo è il cuore della proposta di Gesù nel Vangelo. Quindi, più viva sarà la testimonianza cristiana più risulterà aperta a tutti la sorgente della libertà. Di fronte a persone effettivamente libere, ti chiedi: perché sono così libere? Questo non si può dedurre aprioristicamente. Se non lo vedi, non ti sorge neanche la domanda. Da dove viene questa libertà? Solo in atto comprendi fino in fondo il legame tra verità e libertà.

In questo senso l’atto di fede – per sua natura libero – è un contributo per il cammino della libertà di ognuno.
Sì. In un mondo come quello attuale, la testimonianza di un gesto di affermazione libera nel rapporto con Cristo è un esempio di dono amoroso di sé all’altro. È di fatto un bene per tutti. Per questo il compito più urgente è quello di porre gesti effettivi di libertà, nell’ambito di uno Stato che renda possibile vivere la libertà come affermazione amorosa dell’altro e dell’Altro. Così che, di fronte a ogni evenienza, ci sia quest’esperienza a cui guardare: uomini che hanno incontrato qualcosa da poter amare con tutto se stessi, per sempre. Il riflesso umano di questo amore è l’operosità in ogni campo dell’umano vivere, secondo le varie necessità.

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Questo è anche un giudizio sul rapporto con le altre tradizioni religiose, aprendo spazi di libertà anche per loro. Cosa chiede a noi questa relazione, in particolare con il mondo islamico?
Mi torna sempre in mente l’esempio dei monaci di Tibhirine, che hanno reso testimonianza a Cristo fino alla morte, abbracciando il popolo algerino. E hanno suscitato una corrente di riconoscimento – pure nel mondo islamico – che, se Dio vorrà, diventerà seme di maggiore libertà anche per i musulmani. A partire da questo “caso serio” si possono guardare tutti i vari livelli di rapporto sociale, giuridico, politico, in ogni concreta situazione.

E per questo avete scelto di chiudere il documento con il martirio.
È il gesto supremo della libertà come amore: in esso il rapporto con la verità di Gesù non esclude nessuno, neanche il boia. È un tipo di affermazione del legame con Dio che tiene dentro anche chi uccide: il testimone consegna tutto se stesso alla verità vivente, che è amore, fino al punto che anche chi gli toglie la vita non è rifiutato, non è condannato dal martire. Egli muore perdonando, in un modo talmente gratuito che la nostra mediocrità a malapena riesce ad assecondare. Ma possiamo sempre riconoscere che rimane il punto più alto di un rapporto libero, amoroso, con il vero, e che diventa seme di libertà per tutti.

(da Tracce, 7/2019)


Javier Prades (Madrid, 1960), sacerdote della Diocesi di Madrid, laureato in Diritto e dottore in Teologia, è rettore dell’Università Ecclesiastica San Dámaso e professore ordinario di Teologia dogmatica. È membro della Commissione Teologica Internazionale. Tra le sue pubblicazioni: Nostalgia di resurrezione. Ragione e fede in Occidente (2007), Occidente: l’ineludibile incontro (2008), Dar testimonio. La presencia de los cristianos en la sociedad plural (2015).