Vivere la ragione. Saggi sul pensiero filosofico di Luigi Giussani (Bur Rizzoli)

Vivere la ragione. Il pensiero filosofico di don Giussani

È uscito il secondo volume dell'opera Bur Rizzoli dedicata al fondatore di CL per il centenario della nascita, che raccoglie i contributi di filosofi e studiosi del panorama contemporaneo. Qui, brani dalla prefazione del curatore, Carmine di Martino
Carmine Di Martino

Dai suoi maestri della Scuola di Venegono - un gruppo di studiosi che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, rende il seminario Maggiore di Milano e la connessa facoltà di Teologia uno degli epicentri della cultura teologica italiana - Luigi Giussani viene considerato una promessa della teologia. Dopo un periodo di attività di ricerca e di insegnamento, dal 1949 al 1954, conclusosi con la stesura della tesi di dottorato, Il senso cristiano dell’uomo secondo Reinhold Niebuhr, Giussani sceglie tuttavia di non proseguire la strada accademica. L’irrefrenabile passione di comunicazione e di testimonianza dell’esperienza cristiana, lo struggimento per lo smarrimento in cui versano i giovani liceali con cui ha modo di incontrarsi in quegli anni di studio, il potente anelito educativo che freme in lui lo conducono a contravvenire ai programmi e a decidere di dedicarsi all’insegnamento nelle scuole superiori, ossia là dove i ragazzi quotidianamente vivono il loro travaglio (dal 1954 al 1967 è professore di religione al liceo Berchet di Milano, dal 1964 al 1991 insegna Introduzione alla Teologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore). Egli inizia così una travolgente avventura educativa, dando luogo a un movimento ecclesiale tra i più significativi e diffusi nel contesto attuale (denominato dapprima Gioventù Studentesca e poi Comunione e Liberazione).

Se abbandona la prospettiva del teologo di professione, del ricercatore e del docente accademico, non rinuncia però – è questa la cosa degna di nota – a fare teologia, attendendo anzi senza posa alla elaborazione e all’espressione coerente del suo pensiero. Ciò, beninteso, non avviene parallelamente al suo impegno educativo, ma dal di dentro di esso. La novità di metodo e di contenuti della proposta giussaniana, che sorprende e investe l’intero mondo scolastico milanese (e poi italiano), ha precisamente a che fare con l’originalità del suo pensiero, che trova il terreno della sua ulteriore fioritura proprio nell’esperienza del nascente movimento e nel dialogo ininterrotto con studentesse e studenti di ogni estrazione. Sul fondamento della solida formazione ricevuta e di un nucleo teoretico già chiaramente riconoscibile nei primi scritti, la riflessione giussaniana si incrementa e si approfondisce dunque come coscienza critica e sistematica di una esperienza in atto, nutrendosi di apporti culturali di diversa natura (provenienti, oltre che dal campo teologico-filosofico, dalla poesia, dalla letteratura, dall’arte, dalla musica in particolare) e del contributo essenziale che gli viene dal coinvolgimento con migliaia di ragazzi e poi di adulti, dall’immersione – insomma – nella vita comunitaria e sociale.

Pur non essendo un filosofo in senso professionale, la sua riflessione ha una indubbia pregnanza filosofica. Giussani è dotato di una grande forza teoretico-speculativa e della capacità di ripensare originalmente le questioni della filosofia (sotto il profilo esistenziale e ontologico, gnoseologico e metafisico), mettendo a frutto tutta la ricchezza della tradizione e insieme confrontandosi criticamente con le prospettive e gli orientamenti contemporanei. Come ha opportunamente osservato Angelo Scola, «quello di Giussani, nel suo respiro profondo, non è un pensiero risultante da contributi di autori, che pure egli ha studiato e incontrato», ma è un pensiero «sorgivo»; non lo si può perciò considerare «alla foce, come un fiume nelle cui acque si siano fusi più affluenti»: in quanto sorgivo, «esso va valutato all’origine, alla sorgente, appunto, e di per se stesso». Ciò che motiva la qualificazione di pensiero «sorgivo» – come un «numero primo», che non si può «scomporre» – è una dimensione peculiare, che merita di essere adeguatamente colta: «I debiti e gli apporti» che confluiscono nel pensiero giussaniano «non ne possono spiegare la forma profonda: essa infatti non è mera sintesi di riflessioni e di studi altrui, ma, per singolare carisma, nasce dalla diretta e originale penetrazione dell’esperienza stessa» (A. Scola, Un pensiero sorgivo. Sugli scritti di Luigi Giussani, Marietti 1820, Genova-Milano 2004, p. 53). È questo il punto importante che occorre mettere in luce.

Agli inizi del secolo scorso, per esprimere l’orientamento profondo del suo atteggiamento filosofico, Edmund Husserl conia un noto motto che, nella sua estrema sobrietà, inaugura un nuovo orizzonte del pensiero novecentesco e non solo: «Non ci possono bastare i significati ravvivati da intuizioni lontane e confuse, da intuizioni indirette - quando sono almeno intuizioni. Noi vogliamo tornare alle “cose stesse”» (E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, ilSaggiatore, Milano 1968, p. 271). Senza entrare in ulteriori dettagli, mi importa qui sottolineare che, in questo desiderio di tornare alle «cose stesse», nella tensione a dirigere sempre di nuovo lo sguardo alle evidenze dell’esperienza, risiede la cifra dell’atteggiamento fenomenologico, di un gesto di pensiero e di una direzione di ricerca che hanno riscosso un vasto, seppure spesso generico, consenso e interesse da parte di tanti discepoli. Ecco, per quanto non vi sia alcun reale contatto tra i due, si può dire che in Giussani è presente e operante la stessa attitudine, la stessa appassionata inclinazione a «tornare alle “cose stesse”»: essa appartiene alla natura del suo genio filosofico (e teologico). Troviamo cioè nel nostro autore una vocazione che possiamo chiamare in senso ampio, senza pretese di assimilazione, fenomenologica e, correlativamente, una pronunciata allergia per l’astrattezza di un sapere mummificato, che diventa “dottrina”, nell’accezione ridotta del termine. Lontano da una impostazione intellettualistica del sapere e della cultura, egli è costantemente mosso, reso inquieto, dall’urgenza di partire dall’esperienza come campo di rivelazione del reale e di rinviare all’esperienza come verifica di intuizioni e ipotesi di significato. Di qui il suo caratteristico modo di «vivere la ragione» (L. Giussani, In cammino (1992-1998), BUR, Milano 2014, p. 309): la continua ricerca dei “certificati di validità”, cioè dell’evidenza e dei motivi, delle affermazioni proprie e altrui, l’attenzione a come le cose originariamente si danno, la passione per la verifica.

Certamente nutrito di tante letture (la sua biblioteca è assai vasta), Giussani non fa però filosofia in “seconda battuta”, lavorando sui testi altrui; il suo non è un discorso su altri discorsi e non ha lo scopo di inserirsi in un dibattito, come si suole dire, ma nasce dalla «diretta e originale penetrazione dell’esperienza stessa», per riutilizzare l’espressione citata, e ha lo scopo di promuovere una intelligenza dell’esperienza anche in chi lo ascolta. Il suo stile non è caratterizzato perciò dall’analisi e dal commento di altri testi, bensì dalla presa diretta dello sguardo fenomenologico: egli fa filosofia riandando alla res. La sua opera più nota, Il senso religioso, per fare un esempio, non è interessante per quanti espliciti o impliciti richiami ad Agostino o a Tommaso, a Pascal o a Newman o a Blondel o ad altri contiene, per come riesce a “ridire” ciò che essi hanno già detto, ma per quello che di inedito offre, nella fattispecie per una fenomenologia dell’umano che non si trova in altri autori e che si pone come base di una riscoperta “contemporanea” dell’ontologia, per intenderci rapidamente. In tal senso, come si accennava, è per se stesso che il pensiero di Giussani va considerato.

Ciò, beninteso, non rende inutile la ricostruzione dei nessi, dei riferimenti, delle parentele e delle genealogie del suo discorso. Al contrario. Lo documentano in modo eccezionalmente ampio e dettagliato molti dei saggi che compaiono nel presente volume. Essi contribuiscono infatti a mostrare come la produzione giussaniana si radichi saldamente nella tradizione ricevuta e assimilata, cattolica e non solo, evidenziandone così, al tempo stesso, solidità e novità. Come ogni pensatore, Giussani è un erede. Ora, pensare originalmente ha a che fare con questo: è, si potrebbe dire, saper ereditare, cioè riguadagnare e perciò anche trasformare quanto si è ricevuto, invece che semplicemente ripeterlo con il rischio di imbalsamarlo. Ciò implica aprirsi a un rinnovato rapporto con la “cosa stessa” che la tradizione ci porta, lasciandosi suggerire dall’incontro con essa aspetti o profondità ulteriori e insieme modi nuovi di comprensione, che si rivelino capaci di graffiare l’epoca, di riaccendere l’interesse per quanto sembrava lontano. È ciò che è avvenuto con Giussani e che ha permesso al suo discorso di segnare il panorama culturale contemporaneo, come documenta la storia degli effetti.

L’assetto che ho chiamato fenomenologico concorre a conferire un indubbio fascino al pensiero giussaniano: esso ha il senso e il tenore di una scoperta, di una riscoperta viva degli elementi costitutivi dell’umano, dell’ontologia della realtà, del cristianesimo ecc. Giussani non solo percorre in prima persona la strada indicata: egli sollecita implacabilmente anche i suoi interlocutori a giungere fino alla res, cioè a partire dall’esperienza, come luogo in cui la realtà emerge e si fa conoscere. Si evidenzia qui il genio dell’educatore, che si intreccia con quello del filosofo e del teologo. Basta leggere le prime pagine de Il senso religioso per reperire un tale insistente invito. Parlando del fenomeno del senso religioso egli sostiene che «non si può su quest’espressione fondamentale dell’esistenza dell’uomo abbandonarsi al parere di altri», si tratti pure di Aristotele, Platone, Kant o Hegel. Ciò sarebbe inevitabilmente alienante. Poiché si tratta di un fenomeno che «interessa il mio io come persona, è su me stesso che devo riflettere. Mi occorre un’indagine su me stesso, un’indagine esistenziale» (L. Giussani, Il senso religioso. Volume primo del PerCorso (1986), Rizzoli, Milano (1997) 2010, pp. 5-6). Oppure, si prenda il capitolo 8, là dove è in discussione che cosa sia la libertà: di nuovo l’autore mette in guardia dal pericolo dell’alienazione e indica come unico metodo per contrastarlo la partenza dall’esperienza. «L’esperienza è descritta innanzitutto dall’aggettivo corrispondente, perché l’aggettivo è la descrizione veloce e sommaria di una esperienza vissuta; il sostantivo poi sarà come una tentata definizione che deriva dall’aggettivo. Così per capire che cos’è la libertà noi dobbiamo partire dalla esperienza che abbiamo del sentirci liberi» (Ibidem). Ciascuno è invitato a prendere le mosse dalla propria esperienza e a rispondere alla domanda: quando ci sentiamo liberi? Da un capo all’altro della sua opera Giussani sprona i suoi ascoltatori e i suoi lettori a compiere il percorso che egli stesso ha compiuto, il tipo di cammino che la sua intelligenza ha realizzato per arrivare a quei contenuti che egli, con chiarezza e decisione, propone ed esplicita. Il suo intento non è “indottrinare”, ma educare, perciò comunicare un metodo che liberi il soggetto, che gli consenta di giudicare tutte le proposte, le sue e quelle di altri, di diventare autore e non solo fruitore del percorso.

Alle caratteristiche del pensiero giussaniano accennate si accompagna, come in ogni riflessione originale, una straordinaria forza linguistico-poietica. Non solo il suo modo di procedere, di porre e affrontare i problemi è marcatamente filosofico, nel senso del rigore e della argomentazione concettuale. Questo dovrebbe caratterizzare ogni seria produzione filosofica. Giussani forgia anche un linguaggio, ciò che passa attraverso di lui si trasforma, egli inaugura un universo di pensiero-discorso che non era già là, depositato su uno scaffale di qualche biblioteca, che ha una singolare capacità di bucare l’ovvio, di aprire una breccia, di catturare l’attenzione, e possiede un accento inconfondibile: in ogni espressione è riconoscibile il monogramma del suo pensiero. Non si tratta, sia chiaro, come talvolta si afferma, di un modo efficace e adatto ai tempi di comunicare, non è una questione di seduzione, di estetica della lingua o di retorica. Quando un pensiero originale viene alla parola, quest’ultima non può essere semplicemente sostituita, vi è un nesso pensiero-linguaggio che non si lascia disfare senza perdita, come si comprende, per fare un esempio, rispetto alla parola «avvenimento» («il cristianesimo è un avvenimento»): essa ha una specifica pregnanza ed è intimamente solidale con il concetto che esprime. Dimensione teoretico-speculativa e linguistico-poietica appartengono essenzialmente al medesimo gesto di pensiero. (...)