Come se fosse la prima volta
Alla Giornata d'inizio anno di GS Milano e alcune comunità della Lombardia, un migliaio di ragazzi si ritrova, in silenzio, ad ascoltare canzoni altrimenti sconosciute. Una compagnia all'altezza del desiderio di quel «guastafeste» che è il cuoreL’appuntamento è strano, alle 14.30, di domenica, in pieno centro a Milano. Sono tante le cose che uno potrebbe fare, invece siamo radunati al Teatro Dal Verme per iniziare insieme l’anno con gli amici di Gioventù Studentesca, su invito di Matteo Severgnini e Simone Invernizzi. Perché vale la pena essere qui oggi? Innanzitutto per la bellezza e l’ordine con cui siamo accolti. E poi per il gusto del coro nell’insegnarci a cantare canzoni che, altrimenti, non canteremmo e, forse, nemmeno avremmo conosciuto: come Joshua Fit the Battle of Jericho o Un’altra vita di Battiato. Per quest’invito personalissimo accettiamo la fatica di esserci e cominciare insieme l’anno mendicando di nuovo «quel volto pieno d’amore per la nostra vita, che abbia la forza di strapparci dal rumore che abbiamo nel nostro cuore».
Ascolto Le rondini, una canzone di Dalla, come se fosse la prima volta. Il ragazzo che la canta sul palco, un po’ tremando, mi è subito compagno: ha capito, meglio di me, il cuore di Lucio quando dice: «Vorrei seguire ogni battito del mio cuore / Per capire cosa succede dentro e cos'è che lo muove / Da dove viene ogni tanto questo strano dolore / Vorrei capire insomma che cos'è l'amore / Dov'è che si prende, dov'è che si dà». Non ci avevo mai pensato, ma il coro risponde così al bisogno struggente di Lucio: «Sogni / tu sogni / nel cielo dei sogni». E invece no: noi non sogniamo, assistiamo al miracolo di 1400 ragazzi e ragazze in silenzio, radunati per l’Unico che nella storia ha preteso essere la risposta a quel «guastafeste» che è il cuore dell’uomo, come dice Simone. Dietro di me sento sussurrare una ragazza: «Devo prendere appunti, prof?». «Se vuoi sì!». Non sogniamo perché abbiamo intuito, con Calvino, che c’è qualcosa che, «in mezzo all’inferno, non è inferno», e vogliamo che tutta la vita sia un «cercare e saper riconoscere» questo, «farlo durare e dargli spazio».
Abbiamo intuito che la nostra mossa sta tutta qui, nel coinvolgerci con un «mondo diverso», che è quello descritto da un ragazzo in una lettera: «È stata per me la prima volta. Conoscevo poche persone, ma mi ha colpito tutto. Con i gruppi con cui sto di solito devo sopportare tante umiliazioni, qui invece c'è un equilibrio, non c'è una maschera da tenere ed è possibile una condivisione con tutti. Non mi sarei mai aspettato di trovare adulti che si mettessero a giocare con noi. Quest’estate ho accettato di venire in vacanza con voi, perché, fin dalla prima volta in cui vi ho conosciuto, sono stato proiettato in un mondo diverso, sono stato accolto».
Un mondo così diverso da essere in grado di abbracciare anche la morte e il male. Come racconta un altro ragazzo, nella seconda lettera letta, stupito, al funerale del nonno, dalla chiesa stracolma: «In questa amicizia mi ha sempre colpito come vengono affrontati il male e la morte, come si riesce a guardare anche a fatti così tragici e dolorosi». O come è successo al funerale di una bimba di 7 anni, morta quest’estate, dove la mamma ha chiesto di vestirsi di bianco, come a una festa. La conclusione della lettera mi inchioda: «Qualcuno ha reso possibile tutto questo: desidero conoscerLo».
Per questo è stato invitato Alessandro Poltronieri, dottorando in Filosofia, che ci testimonia, con la sua vita, che ha ragione Battiato: «Non servono tranquillanti o terapie / Ci vuole un'altra vita». Un mio studente è colpito soprattutto dall’insistenza di Alessandro sulla libertà, sulla necessità di un cammino di verifica personale: «C’è una discrezione in questa compagnia, che ti chiede se vuoi starci». Nel dramma che ha toccato la sua vita, privandolo da bambino del papà e due anni fa della mamma, ci racconta che questa verifica in lui è iniziata e lo porta oggi a dire che è vero l’annuncio del salmo: «Il Signore non vi lascerà orfani». Fino a scoprire che la promessa ricevuta nell’incontro con un professore di GS è «ancora più grande di quel che potevo immaginare: la mia casa, che poteva diventare un deserto di solitudine, è stata invasa da una compagnia misteriosamente all’altezza. Ecco, la mia vita è stata come la mia casa: invasa da questo rapporto». Anche se certe stanze uno vorrebbe tenerle chiuse, «si possono aprire tutte le porte a questi volti». È un’altra vita, che non può che illuminare la tua.
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L’ultimo accento è sulla missione. Un ragazzo è colpito, anche lui, dalla libertà con cui Alessandro e Matteo sottolineano come «siamo noi i primi ad essere raggiunti dalla missione». Perché la missione non è uno step ulteriore, il livello “Super Saiyan” del cristiano: è la faccia che mi trovo addosso e che non posso più strapparmi via. Allora possiamo arrancare, così come siamo, eppure il nostro limite non diventa un’obiezione. Come nel canto di montagna La ceseta de Transaqua: «Cosa importa se g’ho le scarpe rote? Mi te vardo e me sento il cor contento». E prego con questa compagnia, nella Santa Messa che celebriamo, perché tutto il mondo sia investito da questo sguardo che io, come la luna, mi sorprendo addosso. Ma è luce riflessa.