Maurizio Maggiani (Foto: Valerio Pennicino/Gettry Images)

Maurizio Maggiani, Il cambio della vita

Il farsi domande come «bene primario» in un tempo inaudito e drammatico. Ora che la realtà ha fatto irruzione, dopo un’epoca in cui sembrava non ci potesse essere né “di più” né “di meglio”, siamo su un crinale. L'intervista da Tracce di maggio
Alessandra Stoppa

«Io sono grato alla vita che mi ha portato su questo crinale. A questa crisi, che è la domanda più grande che mi si fa da quando sono nato». Descrive così il momento presente e senza precedenti, lo scrittore Maurizio Maggiani. La realtà ha fatto irruzione increspando «la distesa immota» in cui vivevamo, in un’epoca che, dice, «sembrava finita lì», quasi che di sottofondo ci si chiedesse: «Ma cosa vuoi di più? Ma cosa vuoi di meglio?».
Ora, per considerare cosa abbiamo imparato dal frantumarsi di sicurezze e illusioni, se abbiamo imparato qualcosa, e come potrà durare, lui crede che il primo aiuto venga dal fatto che sul crinale, «in questa posizione straordinaria, impensata», non possiamo stare in eterno. «E quindi dobbiamo scegliere». Quale sia la scelta, lo spiega in questo dialogo. Tracce lo ha raggiunto immerso nel suo «privilegio», in una grande casa isolata, in mezzo alla campagna faentina, dove ogni giorno il suo vicino Giorgio esce in trattore e da lontano lo saluta, muto, preoccupato dal coleottero turco che sta mangiando le loro vigne.
Premio Strega, autore allergico agli ambienti letterari, Maggiani ascolta, guarda la natura che torna a respirare, «il creato che ha rotto la sua quarantena ed è uscito dalle molte prigioni in cui lo abbiamo relegato». Potrebbe parlarti a lungo della nutria che ha incontrato ieri, «timidissima», del trambusto che fanno le anatre alzavole, del mandorlo fiorito in anticipo. «Noi siamo il virus dominante di questo pianeta», dice: «Ma a differenza del virus che oggi minaccia il nostro dominio, l’uomo sceglie di essere distruttore del suo ospite. Abbiamo consumato il creato fino all’esaurimento. Ora siamo riportati dentro l’antica storia di chi domina chi...».
Lo squarcio aperto dal Coronavirus per lui investe tutto, è chiederci chi siamo, di fronte all’immensità come di fronte a noi stessi; è capire cosa vogliamo più di tutto: «Salvare i nostri corpi?». Così la sua attività in questo tempo è diventata la domanda, che considera il «bene primario».

Perché l’interrogarsi – l’«abito della ragione» come ha scritto su Repubblica, o ancora «la cura dell’incoscienza» – è necessario, più che mai oggi?
Quale momento se non questo per chiedersi, per domandarsi. Visto che c’è solo una proterva, stupida, raccolta di stupide, proterve, risposte. Secondo lei, Cristo nel giardino del Getsemani è andato a cercare risposte o a farsi domande? Nel momento di crisi e solitudine più grande e terribile, è andato a domandare. Le risposte vengono, se si fanno le domande giuste. Nessuno di noi è paragonabile a Cristo, ma questa crisi è un Getsemani. Non dico vada accettato, ma considerato sì.

Lei come lo considera?
Per me è la crisi più grande, e quindi la domanda più grande che mi si fa da quando sono nato. Ho sessantotto anni, di crisi ne ho vissute. Ma questa è la domanda più grande perché è ineludibile. Vede, è un momento che apparentemente ci costringe a una sola azione: la ritirata, la difesa. Si parla, anche con ragioni, di una “guerra”, ma i virus non fanno la guerra, non sanno cos’è la guerra: un esserino, nel suo procedere ovvio, naturale, mi costringe a una posizione inaccettabile, inaudibile, mai successa prima, di ritirata. Solo che, se guardiamo bene, la restrizione viene da noi. Per la psicologia di massa che facilmente si forma, per cui poi stiamo nelle nostre case non per non ammalarci, come è giusto fare, ma come se fossimo già tutti malati.



Si riferisce alla «penetrante idea di una generale infermità», cui dice di avere assistito? Lei si è arrabbiato quando le è stato proposto di leggere, insieme ad altri autori, dei libri per chi è a casa. Perché?
È una “generosità” che temo quanto il contagio, un dare supporti per sostenerci, una smania di nutrirci... È tipico del malato “tirarsi su”. Ma uno non può leggersi un libro da solo? Cos’è successo, c’è stata una mortificazione della volontà e della capacità? Questo è il punto per me, se la crisi implica una menomazione dello spirito e dell’intelligenza...

Oppure se ci provoca e provoca la nostra ragione.
Una crisi è un cambiamento che chiede cambiamento. È una pausa, che assomiglia a una rotta, un momento buono per pensare, a tutto. Io, per esempio, devo pensare che ho un’età in cui, se finisco in ospedale, posso essere messo da parte: è bene che io lo sappia. È bene sapere che non ho diritto a tutto! Ad ogni modo, quello che temo è questa infermità. Che poi, è la malattia dell’essere.

In che senso?
Scusi, non voglio entrare in “casa” sua, ma quella cosa scandalosa dei santi che toccano i lebbrosi... Mica è una favoletta o il racconto di una perversione. È l’idea che il male lo si cura e lo si vince non ritraendosi. Con tutti i rischi che comporta. I rischi che oggi corrono i medici e gli infermieri. Quello che per noi è metaforico, per loro non lo è, ma vale allo stesso modo: “toccare”, affrontare... Quello che voglio dire è che non ci salveremo con la fuga, con la protezione. Se tutto quello che dobbiamo fare è salvare i nostri corpi e basta, cosa faremo? Cosa ce ne faremo del nostro corpo?

Alle domande che lei si fa, che sono tante e che spesso censuriamo – come per esempio: di cosa ho paura? Perché ieri davo per scontata la vita? E perché domani dovrebbe valere qualcosa? –, a queste domande è possibile darci delle risposte e «risposte ragionevoli», come lei auspica?
Non ci rispondiamo da soli. Non dobbiamo risponderci! A Cristo le risposte non sono venute da solo, ma dalla strada che ha fatto, con la croce in groppa, tutta, fino alla fine. Poi noi possiamo, con adulta considerazione, metterci insieme, chiedere di metterci insieme per rispondere... come noi ora. Io non voglio uscire da questo “stato d’eccezione” senza sapere che siamo migliori di come pensiamo di essere. O di come parrebbe conveniente essere. Quindi è necessario farci ciascuno le domande, perché ci collocano in uno spazio meno ristretto, ci tolgono dalle sbarre della galera a cui ci siamo confinati. Interrogarsi è mettere ordine. Nei tumulti, nel nostro caos, noi possiamo condurci alla ragione, alla condizione adulta. Come? Proprio domandando. Facendo domande. E la “bestia”, non in senso negativo, intendo la forza caotica, si placa. Tutta la protervia, la superbia, di fronte alle domande si placa.

E la risposta?
È già nella domanda.

In che senso?
Penso a quando faccio un gesto che mi mette nell’incertezza, in un inaspettato susseguirsi di eventi, un gesto di cui non mi capacito. Mi chiedo: perché? Perché l’ho fatto? Il chiedermelo già ridimensiona, costringe in uno spazio mio, dell’anima. Il chiedersi, il “fermarsi”, il “trattenere”... non è la risposta, no. Ma è l’inizio di un percorso di risposta.

Chiedersi se è sufficiente essere sani, salvare i nostri corpi, la porta a scrivere che «la vita non è appena il contrario della morte». La realtà di oggi, ponendoci di fronte al dolore, alla morte e alla paura di essa, spinge la ricerca del significato, apre “la” domanda sul senso del vivere.
È così. Guardi, io non voglio morire. Io ho una genetica contadina: sono solidamente dedito alla vita, estraneo al male di vivere, perché vengo da generazioni che hanno lottato allo stremo per non morire. Ma poniamo il caso che, quando ho finito, mi si chieda il conto? Il Vecchio aprirà il librone e dirà: “Maggiani.. Maurizio Maggiani. Vediamo un po’...”. Non mi chiederà conto dei romanzi che ho scritto.

E per lei qual è il senso? Di cosa le sarà chiesto conto?
Di quanta vita ho generato in cambio di quella che ho consumato. I miei genitori, contadini analfabeti, non hanno lottato solo per salvare la pelle, mi hanno consegnato una cosa: che ciò che c’è di buono, lo vedi. Perché è vita. Genera vita. Lei lo sa cos’è la vita... Non è certo alzarsi al mattino, svegliarsi vivi. È dare il primo sguardo del giorno, il primo gesto. O è un gesto per la vita o è un gesto per la morte. Penso alla Geenna, la discarica di Gerusalemme, dove finisce il “malvagio”, ciò che appartiene alla spazzatura, ciò che resta indistinto. Le sembrerà volgare come espressione, ma chi si distingue è il “buon uomo”. Quello che non si trova mai a rimestare un indistinto materiale consumato, finito.

Rispetto al “fermarsi”, al “trattenere”, di cui diceva: lei cosa trattiene dell’esperienza di questo momento?
La sorpresa, l’essere sorpreso. Ho avuto una vita estremamente fortunata, ho vissuto epoche interessanti, mi è stato concesso di fare esperienze importanti, belle, brutte. Ma sono grato alla vita di avermi condotto a un crinale. A questo crinale di oggi.

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Perché?
Eravamo in un’epoca che sembrava finita lì. In cui non poteva succedere più nulla, tutto aveva una sua logica, inattaccabile. Il sistema non poteva essere scalfito. Vivevamo come dicendo: ma cosa vuoi di più? Cosa vuoi di meglio? E dov’è il più? Dov’è il meglio? Era la fine della storia, l’ordine universale costituito. Una landa infinita, una terra piatta. E invece un movimento tellurico ha increspato questa distesa immota e ne ha fatto un paesaggio conturbante. E lei si trova lì, sulla cima della cresta. Da una parte, c’è quello che è stato, dall’altra, quello che non sappiamo.

Che cosa permette di non “tornare indietro”, soprattutto di tenere aperte le domande? Lei che cosa guarda?
Quello che aiuta me è questo: non poter fare finta di niente. Sul crinale non ci stai in eterno, la forza di gravità ti spinge giù, da una parte o dall’altra. In questa posizione straordinaria, impensata, non puoi stare. O guardiamo quello che pensavamo fosse un infinito presente, o quello che non sappiamo. Puoi scegliere se lasciarti scivolare indietro o slanciarti in avanti. Se resto vivo, potrò dal crinale non solo vedere, ma decidere. Scegliere di entrare in quello che non conosco. Di essere un contributo nella navigazione, in mezzo a un mare sconosciuto: se Ulisse è arrivato là, non ha semplicemente attraversato uno specchio d’acqua, ma l’ha mutato. Se c’è una ragione per cui siamo qui, nonostante quello che lei chiamerà peccato originale, avremo anche un compito, possiamo turbare questa distesa d’acqua. E turbare è vita.

Quando lei ha paura, cosa la vince?
Guardare mia moglie.