J. Á. González Sainz (foto: Corina Arranz)

González Sainz. La realtà e il torero

Pensa che solo chi si sente precario sia capace di vera compagnia. E che per resistere al nichilismo occorra «vegliare». Dialogo con lo scrittore J. Á. González Sainz, che si confronta con Il risveglio dell'umano. Da Tracce di giugno
Davide Perillo

«Destare l’animo». Il valore sta lì: «Nel far pensare», più ancora che nelle risposte. J. Á. González Sainz, 64 anni, scrittore, docente di Letteratura e direttore culturale del Centro Internazionale Antonio Machado, dedicato a uno dei più grandi poeti spagnoli, risponde dal buen retiro di Soria, sulle rive del Duero. Lo fa in un italiano rotondo e pressoché perfetto (ha insegnato a lungo a Trieste e Venezia), in cui ritrovi la forza e insieme la delicatezza dei suoi personaggi, quelli che abitano romanzi notevoli come Occhi che non vedono e, prima ancora, Volver al mundo.

Ha appena letto Il risveglio dell’umano, l’ebook (Rizzoli) in cui Julián Carrón affronta le mille domande di questo momento mai visto. Vi ha ritrovato le sue parole, quelle dell’articolo che ha firmato su El Mundo, a fine marzo, da cui parte la riflessione della guida di Comunione e Liberazione sull’«irruzione della realtà». Ma ci ha trovato anche parecchie «suggestioni di pensiero» che sente «vicine, perché pregne di domande. Carrón prende le mosse dall’inquietudine di fronte alla situazione creata dal virus cinese (io lo chiamo così). Non però per rimanere lì, in una situazione diciamo di inquietudine circostanziale, ma per confrontarsi con una situazione d’inquietudine permanente dell’anima».

Che cosa è questa «inquietudine permanente»?
Sono molto attento soprattutto a quello che potrei chiamare il ritorno della tensione (io torno sempre a Eraclito): il vuoto esistenziale, la fragilità esistenziale (e diciamolo pure, la stupidità esistenziale), la burbuja, dice Carrón, che si spalanca dietro lo sprofondamento delle protezioni al quale assistiamo (le protezioni del governo della Tecnica e delle tecniche dei Governi, cioè le protezioni del mondo) – sotto le quali ci sentivamo al sicuro o abbastanza al sicuro –, dà luogo, credo di leggere, a una maggiore richiesta di protezioni soprannaturali. Ma, e qua vedo il ritorno della tensione, quel soprannaturale è, al tempo stesso, molto naturale o materiale. Tutto il discorso che lui fa sulla presenza, sulla compagnia, su una compagnia selettiva, sulla presenza che riempie, che dà, sulla sostituzione (d’ideologie – interpreto –, di idolatrie, di apparenze, di falsità, di parole a vuoto, di ipocrisie o mancanza di veracità…) per l’ecco qua, il sono con te, ci sono… Tutto questo mi colpisce in modo particolare.

L’«irrompere della realtà» di cui ha scritto forse è il dato più imponente del momento che stiamo vivendo. Nelle prime pagine di “Occhi che non vedono” ci sono queste righe, che poi tornano spesso, in altri modi: «Vogliono dirci qualcosa le cose, o semplicemente accadono e siamo noi quelli che implorano che qualcosa ci parli?». Che cosa ci sta dicendo la realtà, adesso?
Lei mi fa domande troppo grosse, posso solo avvicinarmi a riformularle. Che la realtà ci dica delle cose, chissà se non è il nostro sogno di uomini… Il mio, senz’altro. Ma il dire è solo un attributo di chi ha il linguaggio; la realtà fa, è, le basta così. A noi, nella misura della nostra inquietudine, non basta “essere”, “fare”, e ci domandiamo, vogliamo, che le cose o che Qualcosa ci parli, e che quello che ci dice, in qualche modo, ci protegga e ci rassicuri. Alle volte penso che la storia della cultura sia in buona parte la storia dei linguaggi e delle forme linguistiche che sforniamo affinché ci rassicurino e proteggano; le religioni certo, ma non solo, perché le cose, ogni tanto possono tornare a quel «dispotismo della realtà» di cui parla il filosofo tedesco Hans Blumenberg. In questi momenti, con tutte le migliaia di morti che ci sono stati, con le crisi economiche, politiche, sociali e personali che ci aspettano, ci sentiamo specialmente indifesi, abbandonati (stavo cercando la parola per desamparados, che mi sembra più pregna). E stiamo attenti, perché i desamparados cercano protezione non solo nello spirito, ma soprattutto nella massa che preme affinché un tiranno la prenda con sé. Il protagonista di Occhi che non vedono è un uomo giusto, che fa la sua piccola strada e vuole essere giusto a tutti i costi; quindi un uomo che si chiede, che ascolta, che cerca invano la parola. In situazioni di crisi c’è sempre chi, invece, ascolta e acclama solo un tiranno, un impostore…

Ma in questa circostanza lei che cosa sta scoprendo, o imparando meglio, di se stesso? Della sua umanità?
Le dirò una cosa che forse non le piacerà, ma questo mi è sembrato di scoprire: che l’opposto della paura non è la speranza, ma la serenità. Il virus cinese mi ha preso lavorando a un libro che è una ricerca di serenità. Se la ricerco, certo, vuol dire che non ce l’ho. Un’altra cosa – mettiamola adesso un po’, se vuole, sul ridere – ho scoperto oppure ribadito: che non ce la faccio più del fatto che per qualsiasi cosa si abbia bisogno di un video oppure di uno schermo, per compilare una pratica, per vedere un amico, assistere a una lezione o imparare a cucinare delle torrijas. L’irruzione della realtà di cui parlavo nell’articolo di El Mundo arriva pure con quest’altra sostituzione, ovvero sopraffazione. Niente sembra avere una sola faccia.



Vede segni di «risveglio dell’umano»? E dove, quali?
Risveglio, despertar, era una delle parole più care a Machado, che ho nel cuore: risvegliarsi sempre, destarsi di continuo. Ci piacerebbe, come no, vedere quei segni. Ma forse il nostro lavoro non sta tanto nel cercare di vederli, ma nel resistere ad ogni tentazione dell’inumano, che senz’altro ci saranno e ci sono. Chi ha pensato minimamente al secolo Ventesimo, non può non essere preoccupato. Machado diceva pure che la più grande parola del Cristo non era neanche amare, ma vegliare. Ecco, vegliamo.

Ma cosa serve perché «l’umano si risvegli»? L’impatto con la «realtà cruda» è una condizione necessaria, e ci è mancato a lungo: ma è sufficiente?
Perché «l’umano si risvegli» credo serva intanto tenere a bada l’inumano, sempre in agguato: la mancanza di pietà, di prudenza, di cura in ogni ambito, il fanatismo di ogni genere o la stupidità – la porta di servizio della viltà e della malvagità. Ma l’inumano è sempre lì. Una delle dritte più consigliabili mi è sembrata sempre quella di doversi leggere ogni anno un libro di testimonianze sui campi di concentramento nazisti o sovietici. Lì vediamo quello che sempre possiamo diventare. L’uomo è la creatura più inquietante, ricordiamo il coro dell’ Antigone, capace delle più belle cose e delle più atroci.

Questa condizione provoca domande forti, radicali. Non è automatico che avvenga – possiamo resistere anche a quello –, ma di sicuro le sollecita: sul dolore, il senso, la perdita… A volte, su Dio. Quanto è importante tornare a farsi queste domande? E a farsele davvero, essere disponibili a sondare quel «fondo effettivo e indiscutibile delle cose», come lo chiama lei?
Un uomo che non si fa domande, che non cerca di capire, che non s’interroga sulle cose prime e ultime, che uomo è? Un post-uomo o un pezzo di computer (detto all’antica, un pecorone)? Non dico darsi risposte, e molto meno risposte definitive e assolute; ma chiedersi, mettersi in atteggiamento precario di fronte alle cose, il dolore o la perdita, ma anche davanti a un fiore o a un uccellino (che non è molto diverso). Forse solo chi si sente precario è capace di vera compagnia. Cercare di capire, cercare di svelare le cose (forse anche per velarle poi e dimenticarle in certi ambiti: la dialettica di Machado sull’oblio è straordinaria): è quello che ci fa umani, il compito essenzialmente umano. Negli ultimi decenni alle volte sembrava che il compito essenzialmente umano fosse dire fesserie, a sentire non solo i politici... Certi amici che ancora guardano la tv (fatto per me incomprensibile) mi raccontano cose da matti.

Faccio a lei la stessa domanda che fanno a Carrón, partendo proprio da una sua espressione: cosa vuol dire «rendere le viscere della realtà il cuore dell’intelligenza»?
Non lo so molto bene, mi è venuto da dire non so da dove; il linguaggio sa molto di più di noi ed è ad esso che bisogna chiedere. Cerco di farlo: in spagnolo si dice «hacer de tripas corazón»; è compatibile, ma solo compatibile, con «fare di necessità virtù». Ma “viscere” non rende bene “tripas”, che è molto più terra terra. «Las tripas de la realidad», le budella se si vuole, mi sembra richiami bene quel “fondo” di cui si parlava, mi sembra molto “sanchopancesco”. E poi c’è la trasformazione, il bisogno di trasformazione di quel fondo necessario di realtà in «cuore d’intelligenza e resistenza», mi sembra fosse così. Cioè non so se in un’«intelligenza emotiva», come si dice troppo spesso banalmente oggi, ma in una ragione che si prenda a cuore il cuore, i sentimenti; che li ascolti e pure li sorvegli; e in un cuore che (se il linguaggio me lo permette) “prenda a ragioni” la ragione. Poi c’è la resistenza, la realtà come resistenza…

Questo brusco ritorno al reale ha un risvolto potente, si osserva nel libro: «In qualche modo, il nichilismo è sconfitto». Lei che ne pensa? Abbiamo davvero davanti un cambio di paradigma rispetto a una concezione mainstream degli ultimi decenni?
Non credo che il nichilismo sia sconfitto; ci sconfiggiamo poi noi forse nel voler sconfiggerlo. Simon Critchley, il filosofo inglese, mette la questione piuttosto nel «riuscire a resistere» al nichilismo – la resistenza, di nuovo –; resistere al nichilismo nello stesso tempo in cui si lascia da parte il desiderio di superarlo, o di sconfiggerlo. Mi sembra interessante. E come? Ci risiamo: con presenza, con «qualità di presenza». Mi piace dire, con «verità di presenza», con verità di posta in gioco, con le cose che ci sono, anche o soprattutto le più piccole, comuni, fragili, che forse semplicemente sono, e basta così.

Un’altra parola chiave di questo momento è «paura». Lei ce l’ha? E se sì, cosa la aiuta di più ad affrontarla?
Certo che ho paura. Come persino ogni torero ha paura. Il toreo, a scapito della banalità progressista, è un’alta scuola di valore e di vita. Il torero non è “morto di paura”, ma vivo di paura; vivo perché ha paura. La paura, però, arriva per vincerla. È la lotta contro la paura, la resistenza alla paura, quello che conta, penso. E la paura ci fornisce già le armi: ci fa essere prudenti, intelligenti, furbi, ci fa adoperare tecniche, escogitarle… Aiuterebbe, penso, come abbiamo sopra accennato, la serenità. Ma… Anche forse il fare il proprio dovere con tutta sincerità (e già mi pento di questa frase perché è caduta in bocca ai politici, e santo cielo come la usano…).

Più in generale, che cosa la sta aiutando di più a vivere, in questa condizione?
Proprio quella ricerca di serenità che non raggiungo mai quanto vorrei; ricerca di comprensione, ricerca di presenze e di compagnia, di qualità di presenze e qualità di compagnie, nelle persone e nelle cose più piccole e comuni e nei momenti quotidiani. Ricerca, propensione, tensione sempre. La scrittura è un modo di quella ricerca. Il linguaggio: ascoltare, leggere, pensare.