Vittoria Maioli Sanese. Lo sguardo dell'altro
Un’idea di famiglia ormai deformata. Dove l’esistenza deve coincidere con ciò che sentiamo e sappiamo. Ma oggi siamo costretti «a ridirci cosa significa essere padri e madri, marito e moglie, cos’è la morte, l’amicizia». Da Tracce di MaggioTira un vento violento da più di cinquant’anni ormai, secondo Vittoria Maioli Sanese, psicologa della coppia e della famiglia. Un vento che «ha deformato completamente la nostra percezione dei legami, dei sentimenti, del posto che diamo all’altro nella nostra vita». E che ci ha reso tutti, dentro le mura domestiche, più fragili. Come si fa a non perdersi? E dove si ritrova quella passione per continuare a dirsi ancora di sì? Lo chiediamo a lei, in quanto il suo osservatorio dura, anche quello, da oltre cinquant’anni.
Cosa ha visto accadere da quando ha iniziato il suo lavoro?
L’aria che si respira dagli anni Settanta ha prodotto un individuo che ha tagliato i ponti con ciò che veniva prima di lui, e quindi anche con la dimensione del significato della vita. L’individuo stesso è diventato il senso di ciò che vive. Ma non ci siamo fatti da soli e la famiglia non l’abbiamo inventata noi. La viviamo nelle ossa, nel quotidiano e se non ci chiediamo qual è la sua legge, se la viviamo senza confrontarci con la sua ontologia, con quella legge che la forma... È come se interpretassimo da attori un dramma che non abbiamo scritto, ma di cui abbiamo fatto fuori il testo originale. Di conseguenza l’esistenza deve per forza coincidere con quello che sentiamo e sappiamo. Siamo diventati degli assoluti.
E cosa abbiamo perso?
Abbiamo perso quella che ritengo essere l’identità più vera e profonda della persona adulta, cioè l’“identità generativa”: quello che io sono genera. Io guardo l’altro e, dal mio sguardo, lui percepisce chi è. L’essenza della relazione è che si trasmette identità, sempre. Nella coppia, la moglie genera il marito e viceversa, e insieme generano i figli, non solo carnalmente.
E oggi con questo virus?
La pandemia è un evento che ha fatto emergere in maniera potentissima le fragilità, ha smontato tutte le nostre sovrastrutture in casa, in famiglia, come al lavoro, nella sanità, a scuola. La cosa bella – mi perdoni se dico «bella» – è che davanti a tutto questo o viviamo il lamento totale, il fastidio, l’orrore di quello che ci sta accadendo, oppure sentiamo l’eco profonda del richiamo all’essenziale, siamo ridotti all’osso, costretti a ridirci cosa significa essere padri e madri, essere marito e moglie, un uomo e una donna che si amano, e cos’è la morte, l’amicizia.
Così “ridotti all’osso”, si è più disponibili a guardarsi dentro…
Non so quanto oggi si sia disposti a un lavoro così: la gente desidera leggerezza. In un sondaggio apparso di recente, alla domanda “cosa le manca di più?”, la risposta è stata: la vacanza. Questo indica una certa idea del desiderio di felicità, di libertà.
Però siamo così affaticati dalla situazione e assistiamo all’esplosione di un malessere, un disagio, fino alla patologia…
La vera emergenza non è la patologia, ma l’educazione. Prima di andare dal terapeuta perché sono in crisi con mio marito, c’è un problema di conoscenza. Oggi mancano le basi: cosa avviene nel rapporto fra le persone? Qual è il senso più profondo della relazione?
E chi accetta la sfida cosa scopre?
L’esperienza più profonda che facciamo è scoprire la verità di noi, l’esaltazione del nostro io, quando siamo amati. Per cui l’amore nella coppia, in famiglia, nei rapporti, non è solo un sentimento, un’emozione… La cosa più fragile del mondo. Quando ci si innamora e ci si lega per tutta la vita, quello è il momento dove si toglie il velo alla nostra mente. Sono veramente io, in questo momento: guardata da te sono una me stessa che non voglio più perdere. È una cosa reciproca. E divento profondamente responsabile di questa mia decisione. L’amore ha questo potere identificatorio, per cui sono veramente me stesso quando sono amato. Allora vado alla ricerca tutta la vita di questo amore. Fino a incontrare l’Amore con la A maiuscola.
Però le differenze con l’altro, a poco a poco, danno fastidio. E da ricchezza possono diventare motivo di logoramento nel rapporto.
Il senso profondo della diversità è che l’altro, nella sua differenza, vede e percepisce una parte della vita e della realtà che io da sola non posso vedere. Oggi sembra che lo scopo della vita non sia affermare la verità delle cose, ma “affermare se stessi”. Invece nel rapporto di coppia c’è questo aspetto così eccezionale per cui solo se affermo l’altro posso affermare me stessa. Se nego l’altro, nego me stessa.
Nella sua esperienza cosa le permette di affermare l’altro?
Ciò che promettiamo il giorno del matrimonio, «io accolgo te come mio sposo», è di un’intelligenza spettacolare, è la sostanza della relazione. San Giovanni Paolo II dice che il segreto di questa formula sta nella particella “come”: «Dopo il “come” aprite una parentesi: come “se tu fossi” lo sposo». Tu chi sei? Sei lo sposo? Sei un poveraccio come me, pieno di difetti come me, ti ammalerai, morirai come me, sarai inadempiente come me, chissà quante volte mi peserai come io peserò a te, ma io ti prometto, ti prendo, ti accolgo come se tu fossi lo sposo, cioè sotto i miei occhi tu scoprirai sempre di essere quell’essere splendente, non sporcato e non definito dai tuoi difetti. È veramente un problema di realizzazione dell’amore e di cos’è l’amore. Su questo ci sarebbe molto di più da dire… Sempre Wojtyla diceva che il cancro che ha colpito la famiglia oggi è la realizzazione di un rapporto strumentale: l’altro è quello che mi deve star bene, non mi deve dar fastidio. Nella sua individualità l’uomo di oggi ha un’immaginazione su come dovrebbe andare la vita, che è più reale della vita stessa. Mio marito non mi dovrebbe dar mai fastidio, esser sempre all’altezza della situazione. Immaginiamo sempre cose belle e vere, ma facciamo diventare giudizio questa idea su quello che viviamo! Per cui diventa: tu non sei, tu non hai, tu non fai…tu non. È terribile.
Allora che senso ha il limite dell’altro?
Il limite è inevitabile, ci costituisce. Senza quel fastidio non sarebbe provocata la libertà, la nostra responsabilità, il nostro essere primi attori di tutto quello che viviamo. Tutto quello che accade è una domanda per noi: perché questo mi dà tanto fastidio? Invece noi, il nostro limite, quello del marito o dei figli, lo vogliamo correggere, eliminare, se non massacrare… mezz’ora dopo ci dà fastidio allo stesso modo e interveniamo nello stesso modo. È prima di tutto una posizione della nostra ragione.
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Cosa può aiutarci?
Credo sia mantenere lo sguardo sull’essenziale, sul desiderio vero del nostro cuore. Non c’è realtà negativa che viviamo che contraddica il desiderio di essere amati e amare, il desiderio di essere felici, l’essenza più profonda del nostro io. E per questo curo il modo in cui ti tratto, i giudizi che do sui tuoi aspetti. Poi cerco allo spasimo i luoghi e le persone che possano avere questo sguardo su di me, lo sguardo dove c’è la corrispondenza della mia stessa passione. Cioè: io seguo solo chi è davvero appassionato alla mia persona e alla mia verità. Io credo che questa sia la cosa che ho imparato di più da don Giussani. Mentre oggi diamo a tutti l’autorevolezza di dirci qualcosa: ai media, ai social, all’ultimo che passa per la strada.
Cosa ha scoperto nei suoi 50 anni di matrimonio?
La coscienza che il cuore di quell’uomo mi era stato affidato, la sua fede, la sua vita. Penso che la passione totale alla verità della nostra vita, dentro questo momento che stiamo vivendo, di confusione e fragilità, mi ha ripresa in maniera ancora più potente di prima: il bisogno di verità, il bisogno di essenzialità, di chiamare pane il pane, cielo il cielo e terra la terra. Senza orpelli e sovrastrutture. Entrare dentro la famiglia e la coppia con questo desiderio è drammatico, ma ne vale la pena, perché è il paradigma pedagogico più potente per imparare noi stessi.
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