Giovanni Stanghellini. Imparare ad imparare
Nel ritorno alla “normalità”, ci si butta nel presente. Che è come la schiuma del mare, oppure è «presenza». Su Tracce di luglio-agosto parla lo psichiatra toscanoLa curva dei contagi in discesa, gli ospedali non più al collasso, le vie delle città affollate. La vita è fisicamente meno claustrofobica. Tra varianti del virus e reazioni ai vaccini, lentamente, con mille cautele, c’è un ritorno alla “normalità”. Si fanno progetti. «Adesso si torna a vivere!», è una frase ricorrente. L’adesso sembra urgere, ma «il presente senza passato e senza proiezioni nel futuro è tagliente come una lama di rasoio», dice Giovanni Stanghellini, psichiatra, psicoterapeuta e docente all’Università di Chieti.
Come un flash mi vengono in mente i versi di Montale della poesia Prima del viaggio: «E poi si parte/e tutto è O.K. e tutto/ è per il meglio e inutile». Ma allora il presente può far male? Da quella prima battuta capisco che il nostro dialogo si snoderà tra domande e risposte reciproche. Dove parole e immagini non sono definitorie, ma hanno la forza di aprire orizzonti. E si parte proprio dal passato, quello recente.
La pandemia ci ha fatto fare i conti con una realtà che ci è venuta addosso, sovvertendo le nostre certezze. Cosa rimane, ora, di quello che abbiamo vissuto?
Credo che si debba essere molto realisti riguardo a quanta realtà possiamo sopportare. Mi spiego. Siamo in grado di guardare in faccia le cose senza farne una rappresentazione a nostro uso e consumo? Che alla fine faccia tornare i conti con quello che credevamo di sapere, che non ci spaventi troppo? Abbiamo la tendenza ad accomodarci le cose, a innamorarci delle nostre certezze, scambiando le nostre e le altrui opinioni per verità. Facciamo fatica ad apprendere dall’esperienza.
Qualcosa però ci ha insegnato?
Non ne sono sicuro. Non sono né scettico né speranzoso. A me ha insegnato che mi piacerebbe imparare a imparare. Ecco, potrei elencarle una serie di “mi piacerebbe aver imparato”: a dare la priorità alla difesa delle persone fragili; a rispettare lo spazio – l’aura – che circonda gli altri; a far prevalere il senso di partecipare alla vita di una comunità rispetto all’obbligo di obbedire alle leggi di una società; a ricordare che libertà non è sinonimo di individualismo, ma di rispetto e responsabilità; a insegnare ai miei studenti che la scienza ha molto da insegnarci, a patto che comprendiamo che il suo sapere si approssima alla verità, ma non dispensa certezze. Ma soprattutto mi piacerebbe aver imparato l’importanza della presenza.
Che cosa intende per “presenza”? Che mi sembra di capire è diverso da “presente” come carpe diem.
La presenza ha uno spessore che il presente non ha. L’elogio del presente è proprio delle filosofie dei momenti di crisi, che corrispondono al crepuscolo di una civiltà, filosofie spicce che insegnano a cogliere l’attimo, l’istante, disperando del futuro. Il presente è come la schiuma del mare, vitale, ma pronta a disperdersi. L’intensità che si cerca in questo presente si accompagna a una sensazione di vuoto, l’unica cosa che lascia è un retrogusto persistente di tedio. La presenza, invece, ha una profondità e un’estensione che il mero presente non ha. Si è presenti a una situazione, a se stessi, e soprattutto all’altro. La presenza è una pausa che sospende la frenesia del fare, del produrre, del consumare. Eppure è una pausa in movimento, perché si avverte qualcosa che ti viene incontro o a cui io vado incontro. Un movimento che mi fa accorgere delle mie e delle altrui emozioni, inclinazioni, desideri. La definirei una “risonanza” che avviene adesso, ma che si manifesta con tutta la sua intensità soltanto in uno spazio intersoggettivo. La presenza è intimità con se stessi e con l’altro. Nella logica della presenza c’è sempre un altro in gioco: una persona, una cosa che evoca un ricordo, un fiore che mi avvolge con il suo odore, un evento che mi coinvolge con la sua atmosfera. Pensiamo a un tramonto: perché la bellezza di un tramonto è così struggente? Per la stessa ragione per cui lo è un fiore che sboccia: in entrambi si annuncia la vita nella sua pienezza, che è in continuità con il suo dissolversi. Si racconta che un giorno Freud e il poeta Rilke condividessero una passeggiata primaverile sui monti e che di fronte allo spettacolo del risveglio della natura il poeta dicesse che tutto ciò gli dava un senso di profonda tristezza, perché nella rinascita già intravedeva la morte. Freud ne fu stupito e cercò di confortare Rilke, autore del famoso verso: «Il bello non è altro che il preludio del terribile». Ma ciò non significa che il destino del bello sia imbruttire; anzi, significa che è proprio del sentimento della bellezza abbracciare il tempo, quindi anche il futuro in cui la bellezza in fiore sfiorirà. Ma questo non dissolve la presenza della bellezza, piuttosto la rende più intima, vera e intensa. Questo permette di non scadere nella logica dell’istantaneità. La nostalgia del passato, del bello che è stato, e l’attesa del futuro, del bello che verrà, si fondono nell’esperienza della presenza della bellezza, sono i caratteri della presenza della bellezza. Molto meglio se si può condividere questa esperienza con qualcuno.
È l’esperienza della felicità come pienezza? Possiamo introdurre questa parola nella logica della presenza?
Noi siamo fatti per sentire costantemente una mancanza. Pico della Mirandola racconta che Dio, giunto a creare l’Uomo, avesse esaurito tutte le caratteristiche avendole già attribuite agli altri animali. Stabilì dunque che l’Uomo fosse quell’animale che non aveva nessuna caratteristica, ma avrebbe potuto averle tutte. Quello che ci caratterizza: la possibilità di desiderare ogni cosa. Quindi, in ultima analisi, ciò che ci caratterizza sono la mancanza e la libertà. L’aspirazione alla felicità, alla realizzazione di se stessi, non può non accompagnarsi a un velo di tristezza.
E per lei cosa è la felicità?
La felicità è fondata sulla capacità di sopportare una quota di infelicità. Così come l’autonomia è la capacità di tollerare una quota di dipendenza. Mi rendono felice i rapporti, penso a mia moglie, alle mie figlie, ai miei amici, ai miei pazienti. Mi vengono in mente momenti di particolare risonanza e non evanescenza.
Un esempio?
Torno sul tramonto. Ora io da solo sto guardando un tramonto che mi riempie il cuore, non posso fare a meno di pensare che se ci fosse una delle persone che amo, ecco, questo mi renderebbe più felice. Poterlo condividere. Ma niente che possa immaginare prolungato e costante. Non mi sono mai abbeverato a una fonte che mi abbia definitivamente dissetato. Non c’è un tramonto eterno. Non esiste per nessuno, forse anche per chi come lei ha fede. Perché c’è un rapporto strettissimo tra inquietudine e fede.
Certo. E ci sono momenti dove la Presenza incarnata si fa esperienza. Riempie il qui e ora.
In ebraico si chiama Shekinah (divina presenza): ogni volta che «in due siete insieme in modo autentico e sincero, io, Dio, sono con voi». Tradurrei, per chi non beneficia del dono della fede, quell’“io” con la parola “intimità”, che preferisco a felicità. L’intimità è ciò che accade tra due persone, o anche fra me e me stesso, in un silenzio comunicativo, dove non c’è bisogno di parole. L’intimità è essere-soli-insieme, sentirsi insieme in quanto accomunati dalla solitudine. È un paradosso, certo. L’intimità è anche il sentimento dell’impossibilità di soddisfare il proprio desiderio di compiutezza. Pensi al rapporto tra marito e moglie, o tra due amici. I momenti più belli sono quelli in cui si è consapevoli della fatica che si fa per stare insieme. Ci vuole coraggio per vivere così, per affrontare la propria insoddisfazione. Questa è l’intimità.
Così si evita l’affanno di un presente che morde e in ultima analisi non soddisfa?
Solo la nostra cultura edonistica ci dà l’illusione di una felicità a portata di mano. Siamo consumatori ai quali si vendono ricette per la felicità. Ma l’uomo è dotato di uno sguardo che lo fa sempre andare oltre.
Sant’Agostino diceva: «Il mio cuore è inquieto finché non riposa in Te». Questo vale sempre e per sempre.
Con la differenza che il Vescovo di Ippona aveva un Tu su cui riposare. La fede la si riceve, non la si dà. Tante persone non raggiungono questo riposo, pur sentendo questa mancanza. È uno dei punti che io condivido profondamente con don Giussani: l’elogio dell’inquietudine. Fede e inquietudine sono due facce della stessa medaglia. Ho incontrato Giussani attraverso degli amici e, pur venendo da mondi diversi, questo tema dell’inquietudine relativo alla fede, che io chiamo Sacro, ci unisce. L’alternativa è il fanatismo. Questa inquietudine apre alla “divina presenza” e forse ce la fa riconoscere. Se mi accadesse di fare l’esperienza della fede, penso che sarebbe nell’incontro con un Tu che mi direbbe: «Hai fatto bene a essere inquieto».
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Ma il mondo dice tutt’altro. Lei ha parlato di edonismo: possiamo aggiungere la parola nichilismo?
L’edonismo è effimero, ma affonda le sue radici nel nichilismo di chi lo promuove. A queste persone, a questi imbonitori, non importa porre domande, la complessità del reale. Vogliono sedurre: forniscono risposte, non quesiti. Se vendono formule magiche cariche di “certezze” per essere felici è perché reputano che non c’è nulla per cui valga la pena vivere. Il nichilista è colui che ha deciso di non porsi domande e di perseguire il piacere momentaneo della propria esistenza. Così si fa male all’uomo.
Al senso religioso?
Esatto. Si distruggono il mistero e l’inquietudine.
Montale ha scritto: «Un imprevisto è la sola speranza».
Concordo. Lui arriva al bordo del nichilismo e poi ha un colpo di reni. Ci crede e ci spera, nell’imprevisto. È in uno stato di allerta.
Di allerta o di attesa?
Meglio attesa. Nell’allerta serpeggia l’ansia.