Damir Muhetdinov (Foto Olga Khroul)

Verso il Meeting 2021. Figli tutti

L’imam Damir Muhetdinov sarà ospite al Meeting il 22 agosto. Qui l'intervista sulla scelta della comunità musulmana in Russia di tradurre l’ultima enciclica di Francesco. «Occorrono testimonianze vive» (da "Tracce", febbraio 2021)
Giovanna Parravicini

«Proprio nei momenti di crisi, in cui interi popoli e Paesi si trovano senza una guida e un orientamento, è necessario andare alla ricerca di testimoni». L’imam Damir Muhetdinov, vicepresidente della Direzione spirituale dei musulmani in Russia, racconta a Tracce la provocazione ricevuta dal Papa e, in particolare, dall’enciclica Fratelli tutti, che è stata tradotta e pubblicata dalla comunità musulmana in Russia. Promotore dell’iniziativa è stato il Forum Musulmano Internazionale, coadiuvato dalla casa editrice Medina. Incuriositi dall’iniziativa, abbiamo proposto di presentare il volume al Centro culturale «Pokrovskie vorota» di Mosca, nel corso di una serata a cui, insieme ai musulmani, hanno partecipato cattolici, ortodossi, protestanti ed ebrei. Questo incontro ci ha schiuso un intero mondo, testimoniandoci una grande attenzione e stima per «la mano di amicizia e di pace tesa da papa Francesco al mondo islamico», come ha scritto il gran Mufti Ravil Gainutdin nel suo messaggio ai partecipanti. Di qui il desiderio di approfondire le ragioni che hanno condotto alla pubblicazione, e soprattutto a un cammino comune tra credenti di diverse religioni, attraverso un dialogo con l’imam Muhetdinov, che ha firmato l’introduzione al volume in lingua russa.

Perché questa decisione di pubblicare un documento cattolico? Nell’introduzione all’enciclica lei parla di «cultura dell’incontro», arrivando ad asserire che il motivo primo della pubblicazione è che «ci aiuta a comprendere meglio la nostra stessa religione». In che senso?
Per noi è sempre stato fondamentale mantenere dei rapporti con le altre religioni, è una necessità che ci viene dalla religione stessa, perché l’Altissimo nella Scrittura invita tutti gli uomini a vivere nella pace, nell’armonia e a conoscersi gli uni gli altri. Ebbene, da anni in Russia stiamo lavorando sul dialogo interreligioso, e comprendiamo bene che il dialogo deve radicarsi nei fondamenti, altrimenti tutti gli appelli al dialogo si limitano a tradursi in progetti sociali comuni, oppure in scambi di cortesie a livello diplomatico e ufficiale, in cui si pronunciano belle parole che restano però senza fondamento e non muovono nulla tra i credenti. Per noi era importante capire che cosa dicono sul dialogo interreligioso il Corano e le Sacre Scritture dei cristiani e degli ebrei.

Damir Muhetdinov con l'arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, monsignor Paolo Pezzi (Foto Olga Khroul)

E come si radica il dialogo nei fondamenti?
Non possiamo nasconderci che sono esistite epoche di cordiale collaborazione e convivenza fra le nostre religioni, e altre invece in cui si sono verificate inaudite violenze e si è sparso molto sangue (penso all’Iraq, alla Siria, alla Palestina, al Libano). Ci rendiamo conto che questi processi conflittuali stanno crescendo sempre di più, e d’altro canto mi ha colpito molto vedere come nel corso dei duemila anni della sua esistenza la Chiesa cristiana abbia fatto enormi passi in avanti nella comprensione dei fondamenti del dialogo: si è passati dal periodo delle crociate alla dichiarazione Nostra aetate (1965), in cui leggiamo che anche i fedeli delle altre religioni che credono sinceramente in Dio e compiono atti di bene possono giungere alla salvezza. Forse, per un uomo laico del Ventunesimo secolo queste parole possono suonare come una norma, ma per i credenti sono fuori da ogni logica consueta, perché se chiedessimo a un musulmano comune quale sia il posto dei cristiani nell’aldilà ci sentiremmo rispondere tranquillamente: «L’inferno». E, probabilmente, riceveremmo una risposta analoga sui musulmani interpellando un cattolico o un protestante. In altri termini, tra i credenti è molto radicata l’idea dell’elezione, della salvezza come portato esclusivo della propria confessione religiosa. Che dialogo possiamo iniziare, di che incontro possiamo parlare se, sedendoci a un tavolo, ciascuno di noi agli occhi dell’altro resta un peccatore destinato a bruciare nel fuoco perenne, e nel nostro dialogo l’intento di ciascuno è esclusivamente quello di condurre l’altro ad abbracciare le proprie posizioni, di salvare un’anima che ha smarrito la retta via? Così pensavano nel Medioevo cristiani e musulmani, e molti di loro continuano ancor oggi a pensarla così. Ma andando alle radici della nostra religione scopro anche in essa una visione analoga a quella offertaci dalla Chiesa cattolica, nel principio che il Corano chiama taqwa, e che Maometto spiegava così: «Non esiste una supremazia del bianco sul nero, o dell’arabo sul non arabo. Tra voi esiste un’unica supremazia, quella della pietà religiosa (taqwa)». Proprio questa capacità di compiere opere buone, di comprendere e aiutare il prossimo indipendentemente dalla sua identità etnica e religiosa, definisce l’uomo nella sua natura autentica e lo distingue da tutti gli altri esseri appartenenti al regno animale.

Si potrebbe dire che questa è la sfida che si apre anche di fronte all’islam nei confronti della modernità?
Certamente, e ci ha molto aiutato vedere come la Chiesa cattolica abbia intrapreso un cammino, si sia messa alla ricerca di un fondamento comune, di una vasta piattaforma per tutti coloro che vivono nel mondo contemporaneo, nel momento in cui – in particolare nei Paesi europei – l’elemento religioso non è più dominante dal punto di vista della legge, della morale, dei valori. Questo diventa altrettanto attuale per il mondo musulmano, nel cui ambito una serie di Paesi stanno allontanandosi dalle tradizioni religiose. Le dico di più: non si potrà risolvere il problema di un dialogo autentico, che non si riduca a uno scambio di cortesie e non implichi un venir meno alla propria identità, senza una profondissima riforma del pensiero all’interno dell’islam. Anzi, senza questa riforma non si potrà neppure porre il problema del dialogo, perché siamo inevitabilmente portati a restringere sempre più il campo della salvezza, anche all’interno dell’islam stesso, tra sciiti, sunniti, e così via. Alla fine, mi salvo solo io, e tu che mi stai davanti sei inevitabilmente un eretico…

Qual è la strada per questa riforma?
Operare questa riforma significa ritornare alle fonti dell’islam, ai documenti più antichi, dei primi califfi, che sono anche i più vicini allo spirito del cristianesimo. È proprio il ritornare alle radici che ci permette, paradossalmente, di trovare risposte nuove alle sfide della modernità. Questo implica un grande lavoro, perché la maggioranza dei nostri fedeli non ha questa apertura (anche nella nostra comunità, ad esempio, sono stati parecchi a criticare la pubblicazione dell’enciclica, la foto del Papa in copertina), occorre un’educazione, si rendono necessari strumenti di riflessione, testimonianze vive. Un altro elemento da tenere presente è la pandemia, che ha sovente mostrato l’impotenza delle istituzioni religiose che si sono ritirate, hanno lasciato i propri fedeli in pasto al nuovo idolo, il Covid, che ha cominciato a determinare e a dettar legge in tutto. In questo vuoto sono echeggiate in maniera impressionante le parole rivolte da papa Francesco ai propri credenti rispetto ai migranti, richiamandoli – di contro a politici e governanti di molti Paesi, che guardano con ostilità ai migranti, ritenendoli i responsabili della disoccupazione, della criminalità, eccetera – ad aprire loro le porte, a offrire loro soccorso, cibo, medicine... Proprio in questi drammatici frangenti ho capito una volta di più che non è un caso che il Papa abbia scelto il nome del Santo di Assisi, che con tutta la sua vita ha testimoniato la vittoria della fede, dello spirito. Un terzo elemento: penso alla sanguinosa contrapposizione fra la posizione – diciamo – di Charlie Hebdo, che sventolando la bandiera della libertà religiosa colpisce le tradizioni religiose, non solo dei musulmani, ma anche degli ebrei e dei cristiani, e la tremenda barbarie insita in una «risposta» come la decapitazione di Samuel Paty…

Cosa ci dicono questi fatti?
Parrebbero dimostrare che la predicazione religiosa della fratellanza è pura utopia, che in realtà le cose vanno in ben altro modo. Ebbene, io credo che proprio nei momenti di crisi, in cui interi popoli e Paesi si trovano senza una guida e un orientamento, sia necessario andare alla ricerca di esempi, di testimoni. Lo stesso papa Francesco, poi, dice apertamente di essere stato «stimolato a scrivere l’enciclica dal Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb», insieme al quale ha fatto memoria che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». E ci siamo detti: ma se è così per papa Francesco, come possiamo non sentirci stimolati noi? E proprio a partire dal contenuto espresso nell’enciclica, abbiamo pensato che era un documento talmente importante da esigere di essere divulgato e fatto conoscere al numero più grande possibile di persone. Del resto, ripeto, questa attenzione non è un fatto nuovo: ad esempio, nel 2015 abbiamo pubblicato ampi stralci della Nostra aetate.

Dal «dialogo» all’«incontro», si potrebbe dire, cioè dalla reciproca conoscenza a un’esperienza di fraternità. È questo, se capisco bene, il cammino che ha visto fare nella Chiesa, e che vuole accompagnare anche la sua comunità a fare?
Sì, è proprio così, e le dirò che per me è stato molto importante il fatto di essermi trovato a lavorare sul testo dell’enciclica mentre assistevo mia madre, molto malata, nei suoi ultimi giorni. Proprio per questo, non ho potuto leggere l’enciclica in maniera astratta, quelle parole erano parte dell’esperienza umana intensissima che stavo facendo in quel momento. E non ho potuto non pensare al gesto di papa Francesco mentre il Giovedì Santo lavava i piedi a uomini tra i quali c’erano profughi e migranti. Io non lavo i piedi neppure ai miei figli, e quest’uomo li ha lavati – e anche baciati – a questi derelitti, ultimi degli ultimi. Nella sua sincerità, il Papa ha saputo farci guardare alla Chiesa, alla fede, non come a delle istituzioni o a delle regole, ma come a un’esperienza di fraternità, di amore, a un luogo dove Dio è vivo e presente. Ed è proprio questo che consente a ciascuno di rigenerare la propria fede.

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Nella sua esperienza l’unità e l’appartenenza non sono in contrapposizione…
Devo dire che ho conosciuto la Bibbia ancor prima di studiare il Corano. Appartengo a una famiglia tatara, musulmana per tradizione ma, come avveniva in Unione Sovietica, di fatto agnostica. A introdurmi per prima alla religione è stata un’anziana ortodossa, baba Maša, che mi leggeva i racconti biblici, ma senza avere alcuna pretesa di «tirarmi dalla sua»; ricordo che mi diceva: «Di’ sempre una preghiera, prima di mangiare, e non dimenticarti che Dio è uno, anche se le fedi sono diverse». Così, si può dire che sono cresciuto avendo nel sangue questa idea di un’unità fondata nel riconoscersi figli dello stesso Padre, che viene prima di qualsiasi divisione. Solo in seguito, studiando il Corano, ho fatto la mia scelta consapevole di appartenenza, ma senza mai rinnegare questa unità ultima.