Luca Doninelli (Foto: Leonardo Cendamo/Getty Images)

Luca Doninelli. Letteratura, fame di vita

Dialogo con lo scrittore milanese sulla letteratura: baluardo contro il potere, perché celebra «l’irriducibilità dell’uomo». Il suo ultimo romanzo, il piacere, i lupi sazi di McCarthy e il gesto di un uomo crudele… (da Tracce di febbraio)
Luca Fiore

«Tutto ha un senso, un significato e uno scopo. Non riesco a concepire la possibilità che su questa terra esistano persone inutili. Non esiste uomo, ne sono certo, che almeno una volta nella vita non abbia servito qualcuno. Ora, io dico: se ha servito anche soltanto quella volta, bene: è per quest’opera buona che la vita gli fu data. E se qualcuno in tutta la sua vita non ha offerto nemmeno un bicchier d’acqua, non c’è dubbio che prima o poi qualcuno l’avrà offerto a lui! In questo caso, che reputo molto raro, diremo che il senso e l’utilità di quella vita è tutta nel fatto che un altro ha potuto fare del bene grazie a lui». Questo brano di padre Afanasij Sacharov, vescovo della Chiesa ortodossa del Patriarcato di Mosca, perseguitato dal regime sovietico e morto nel 1962, è posto in esergo all’ultimo libro di Luca Doninelli, Tu credi che io dorma (La nave di Teseo, 2021). Doninelli affida a queste parole la presentazione del tema dell’opera. Seguono cinque racconti apparentemente slegati tra loro. Un bambino su un treno che, muovendosi di scompartimento in scompartimento, vede episodi della propria vita passata e futura. Un editore newyorkese di successo che si trova nelle strade dell’hinterland milanese in cerca della vera letteratura. Un professore parigino di tecnica del romanzo che vediamo vivere un intricato rapporto tra arte e vita. Un ragazzo poco di buono che uccide senza ragioni, come spesso avviene nei racconti ambientati nelle praterie del West americano. E, infine, il racconto che riprende il tema di Afanasij: l’incontro tra un ufficiale dell’esercito sovietico e un metropolita ortodosso che attende l’esecuzione capitale. L’insieme è una sorta di puzzle, in cui un racconto si incastra nell’altro, formando un’unica immagine che sembra essere il ritratto della grande letteratura. Siamo andati da Doninelli, chiedendogli da quale esigenza nascesse questo libro e lui ha ribaltato la domanda: «Se la dinamica della vita fosse quella di individuare l’esigenza e dargli una risposta, saremmo tutti un po’ dei ragionieri. Invece la realtà di noi stessi ci scappa da tutte le parti. Tante volte è la risposta a rendere evidente il cuore di un’esigenza che hai».

E quindi come è andata?
Alcuni anni fa ho ospitato a casa mia uno studente russo, Misha. Una delle persone più deliziose che abbia mai conosciuto. Mentre era qui abbiamo visto insieme una bella mostra sui martiri della Chiesa ortodossa russa al tempo di Stalin. È in uno dei pannelli di quel percorso che mi sono imbattuto nella frase di padre Afanasij che è l’esergo, ma anche il vero incipit, del romanzo.

Che cosa ti aveva colpito?
La capacità, che compare raramente nella cultura umana, di gettare una luce così chiara sull’uomo. E che Afanasij ce l’avesse mentre era perseguitato. Eppure scrive questa frase stupefacente: non esistono persone inutili. È un modo per descrivere l’irriducibilità dell’uomo, che poi è anche la ferita che ci portiamo dentro.

Che ferita è?
Noi possiamo dire che nella cultura moderna c’è stata quella che alcuni definiscono “la perdita del centro”, un fenomeno che ha portato alla crisi contemporanea dell’io. Oggi, ad esempio, può capitare che due persone si sposino e si separino dopo tre mesi. Accade sempre più di frequente. È segno di una grande fragilità. Eppure io penso che se quei due si sono sposati, significa che speravano di realizzare qualcosa di più grande di quello che sono riusciti a realizzare. E per descrivere questa situazione non possiamo omettere il dolore personale che questo ha implicato. Non possiamo ridurre quell’esperienza, quel senso di lacerazione, a un fatto culturale.

E padre Afanasij che cosa c’entra?
Lui, nel bel mezzo del terrore staliniano, è come se ci ponesse la domanda: «Che cos’è l’essere? Che cos’è il nostro rapporto con l’essere?». Sembra suggerire: è l’adesione a un bene che accade comunque, anche nella situazione più orrenda. Noi, anche in altri casi simili, penso a Etty Hillesum o a Dietrich Bonhoeffer, rischiamo di dare una lettura in chiave moralistica e siamo tentati di pensare: «Ah, com’erano bravi». Riduciamo le loro figure al piano etico. Invece non si tratta di questo. Ciò che è straordinario, in loro, è il riconoscimento del bene, anche lì dove sembrerebbe impossibile vederlo. Questa frase di padre Afanasij mi è rimasta in testa per diversi anni e non sapevo che cosa farne. Mi dicevo: da quelle parole si può capire che cos’è un uomo. È una prospettiva che fa capire come siamo fatti. La prima idea era di raccontare la vicenda di un personaggio spaventoso, crudele, che offre un bicchiere d’acqua a un santo. Ma non sapevo come arrivarci. Tutto il libro, un po’ consapevolmente e un po’ no, è stato il tentativo di prepararmi a raccontare quel gesto. Una sorta di avvicinamento.

Lo fai attraverso racconti che sono una sorta di parodia di generi letterari. Perché?
Hannah Arendt diceva che l’ideale del potere è che la persona non esista. In uno dei suoi ultimi libri, L’après littérature, Alain Fienkielkraut scrive che il genere umano ha innalzato due fragili baluardi contro l’invadenza del potere: il diritto e la poesia. Ho pensato di provare a scrivere dei racconti visitando dei mondi poetici o letterari che esistono già per descrivere quella che prima chiamavamo “l’irriducibilità dell’uomo”.

(Foto: Marc Olivier Jodoin/Unspash)

Hai detto che sentivi il bisogno di prepararti a raccontare quel gesto. Perché non raccontarlo e basta?
Si tratta della storia di un uomo stupefatto di vedere un’altra persona che, non avendo nulla davanti a sé, se non qualche ora di vita, si sente miracolosamente al suo posto. Verso la fine del racconto scrivo: «Del resto non erano state le parole a colpirlo così profondamente, ma piuttosto la voce: la voce di un uomo, così disse tra sé Gennadj Gavrilovič, persuaso di avere davanti a sé non qualche ora ma secoli, millenni». Dall’altra parte abbiamo il metropolita Konstantin che sente pietà del suo carnefice e pensa: «Lui non sa chi è, io lo so. A me è stato donato di saperlo». Non è una consapevolezza tronfia, è umile. È una vicenda tipica della grande letteratura. E io dovevo raccontarla in modo che fosse credibile. Per questo chiedo al lettore di attraversare quelli che ho chiamato “mondi letterari”, perché un libro è un’architettura fatta per offrire un’esperienza piacevole dentro la quale ognuno riesca ad arrivare al livello di significato che è in grado di cogliere.

Dici «una vicenda tipica della grande letteratura». In che senso?
La letteratura che cosa celebra? Qual è la sua forza? È celebrare proprio l’irriducibilità dell’uomo nei confronti del nulla, della tentazione del nulla.

Fai qualche esempio.
I promessi sposi? Due poveri ragazzi che combattono contro la Storia. Il potere li vuole annullare in mille modi (e, con don Abbondio, anche la Chiesa ci mette del suo). I miserabili? È la storia di un forzato che vive con il passaporto giallo, con il quale, se sgarra di un nulla, dovrà tornare per sempre in prigione. Guerra e pace? Tolstoj, che era filonapoleonico, racconta la sconfitta di Bonaparte. E la vittoria di chi? Della nostra vita, della nostra povera vita. Stamattina, mentre parlavo con mia moglie, guardavo fuori dalla finestra e ho visto la mano di una donna che puliva un vetro. E mi sono commosso, mi è venuto quasi da piangere.

Perché?
Perché mi è stato dato di assistere a una cosa normale, a un gesto della vita. Che è infinitamente più grande di tutte le teorie che possiamo avere. Infatti, un grande errore è quello di credere di poter sconfiggere il potere conoscendolo. La conoscenza è importante, è fondamentale, ma poi è la purità del bambino che dice sì, che è il sì di Maria, il sì di san Pietro. E quindi, con questo libro, sentivo la necessità di compiere questa celebrazione dell’uomo, della sua vita, attraverso dei mondi letterari che io amo, nei quali – in passato – è stato possibile compiere questo tributo. C’è il pre-esistenzialismo alla Friedrich Dürrenmatt, il racconto di ambientazione newyorkese un po’ alla Paul Auster, la mia Parigi e il suo mondo letterario e infine una miscela tra Flannery O’Connor e Cormac McCarthy.

(Foto: Gabriel Dizzi/Unspash)

È anche esercizio di stile?
È un esercizio di letteratura. Diffido di chi, leggendo, cerca i contenuti a tutti i costi. Perché i romanzi sono fatti di pieni e di vuoti. Se ci pensi, la prima forma di narrativa è la fiaba, dove troviamo orsi parlanti, formiche parlanti… E non sempre dicono cose sagge. Non è attraverso l’indottrinamento o l’ossessione contenutistica che si arriva a comunicare qualcosa di importante, ma attraverso il godimento. Leggere un libro è come setacciare un fiume per trovare qualche pagliuzza d’oro. Pensa alle balene, che per nutrirsi devono filtrare ettolitri d’acqua per ottenere il plancton. La balena non dice: «Dov’è la mia bistecca di tonno?».

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Prima dicevi che, nell’esperienza della lettura, l’aspetto del godimento è fondamentale.
Noi pensiamo al piacere generalmente in termini volgari, io per primo. Ma il piacere è un baluardo contro il potere.

D’accordo, ma nel leggere certe grandi pagine di Cormac McCarthy o Michel Houellebecq si può provare anche ripugnanza. Come stanno insieme queste due cose?
Per quanto mi riguarda, fu don Giussani a risolvermi questo problema. Una volta mi disse: «Caro Luca, metti che io abbia mangiato aglio prima di parlarti. Sta a te decidere se è interessante ascoltarmi per quello che dico o andartene perché non sopporti il mio fiato cattivo». In Cavalli selvaggi di McCarthy ci sono quindici o venti descrizioni di temporali, una diversa dall’altra, che sono già di per sé un pezzo di storia della letteratura. Non è un piacere questo? In Oltre il confine, sempre dello scrittore americano, c’è l’episodio del bambino che di notte esce sulla neve perché vuole vedere i lupi e a un certo punto li vede passare. E sono sazi. Capisce che hanno sentito il suo odore, perché uno di loro si gira e lo guarda negli occhi. Poi si volta e va via. E l’autore aggiunge: «E non disse mai a nessuno quello che aveva visto». Potremmo dire che la letteratura è spesso qualcosa che ti lancia questa sfida: puoi ascoltarmi o andartene. Ma se il lettore sente che non riesce ad andare oltre lo scandalo, è meglio che lasci perdere. Poi, a volte, la letteratura sa anche lavarsi i denti, ma non lo si può mettere come condizione a priori.