Chiara Beria di Argentine (©Flavio Lo Scalzo/Ansa)

«Quella sua proposta ragionevole»

Tra le grandi firme del giornalismo italiano, Chiara Beria di Argentine ricorda oggi il suo incontro con don Giussani. E quella sua intervista a lui, per cui ancora, al rivederla, si è trovata a prendere appunti
Paola Bergamini

«Mi sono emozionata a rivedere l’intervista. È stato uno degli incontri umanamente e professionalmente più importanti della mia vita», esordisce Chiara Beria di Argentine, firma di punta del nostro giornalismo, sia della carta stampata - Panorama, l’Espresso, la Stampa - che della televisione, in Rai e Fininvest.
Nel 1987 per Canale 5 intervistò don Giussani (un dialogo rimesso in onda nel 2014 da Retequattro, nel programma “Don Giussani. Tre interviste”).
Ci incontriamo nella sua casa milanese e, come nel servizio televisivo, ha tra le mani un block notes. Scoprirò dopo il perché.

Da dove nasce quell'intervista?
Arrigo Levi, direttore di Tivù Tivù, il settimanale d’informazione giornalistica di Canale 5, mi chiese di realizzare uno speciale su Comunione e Liberazione. Del movimento sapevo poco, giusto qualcosa da amici che avevano bazzicato in Gioventù Studentesca. Ho iniziato a leggere, a documentarmi. Perché allora il giornalismo si faceva così: si studiava, ci si preparava. Ad agosto vado al Meeting di Rimini e qui la prima sorpresa.

L'intervista a don Giussani nel 1987

Perché?
Sia come cronista che come figlia (suo padre Adolfo fu, presidente dell’Associazione nazionale magistrati e Procuratore generale di Milano, ndr) arrivavo dagli anni terribili del terrorismo. Raccontavo le inchieste, gli attentati, con l’angoscia di quello che poteva capitare a mio padre. Così, dopo tanta violenza perpetrata da miei coetanei, approdo nei padiglioni della Fiera riminese e trovo dei giovani con una grande voglia di stare insieme, pieni di gioia di vivere. Dopo sono andata nella casa dei Memores Domini a Gudo Gambaredo, alle porte di Milano. A ripensarci, si sono proprio fidati. Infine ebbi la possibilità di incontrare don Giussani.

Vi vedete a ottobre nel giardino del Pime a Milano.
Sì, io e lui seduti su una panchina e il cameraman, che riprende praticamente da un’unica posizione. Solo qualche controcampo. Ero emozionata e incuriosita di conoscere questo sacerdote, “trascinatore” di giovani. Sbaglio subito la prima domanda, quando lo definisco «suscitatore di questo movimento», e lui sorridendo mi corregge: «Iniziatore». Poi don Giussani mi racconta del seminario e sento immediatamente una vicinanza: io ho trascorso tanto tempo ad Appiano Gentile, a Venegono si andava in bicicletta.

Quale è stata la prima impressione?
Giussani voleva davvero bene ai giovani e non è da tutti. Inoltre mi colpì molto la sua scelta di andare nella scuola pubblica. Ma la cosa importante è questa, l’ho appuntata sul mio block notes rivedendo il video: la sua è una proposta ra-gio-ne-vo-le. Questo è rivoluzionario.

Ne parla al presente
Io non sono di Cl e sono anche una “pessima” credente, ma umanamente sentire, in mezzo a tanti discorsi vuoti: «La mia è una proposta ragionevole» mi fa capire, oggi come allora, il vero significato di questo carisma. Allora la violenza del terrorismo, insieme alla droga, trascinava i giovani nel baratro, li vedevo arrivare disfatti nella comunità di San Patrignano, dove come volontariato ho anche fondato il giornale. Oggi il dolore lo scorgo nei ragazzi sempre più soli, sempre più fragili. Due facce della stessa medaglia: il nichilismo di cui parla Giussani. Risentire quelle due parole: “proposta ragionevole” è ancora una vera via d’uscita. È quello che insieme alla pace sognerei per i miei quattro nipoti.

A proposito di giovani, nel vostro dialogo parlate del ’68 come di un momento fondamentale.
Il suo giudizio, rispetto a tante interpretazioni superficiali, è chiaro: all’origine c’è una spinta ideale che però non riesce a tenere e la parabola si è chiusa in derive tremende che hanno portato solo morte. In questo, Giussani mi ricorda mio padre, uomo molto cattolico. In ambiti diversi hanno guardato in faccia la realtà, non si sono voltati dall’altra parte. Ma ci sono altre due frasi che mi sono appuntata.

Quali?
«Dilatarsi di oasi di umanità più vera» e «la fede è una vibrazione della terra». Questo è un dono. Chissà cosa sarebbe stato di me se fossi stata una sua allieva.

Per lei cosa è la fede?
«Un’oasi di umanità»: nei momenti della vita in cui si è soli con se stessi, avere quello sguardo, quella speranza. Oggi, in mezzo alla tragedia della guerra e a questo baillamme dove tutti devono parlare, scrivere di sé e degli altri, c'è bisogno di silenzio, di capire. Quando io non riesco a controllare una cosa, prego.

Incontrò ancora don Giussani?
No. Per la Stampa feci il reportage dei funerali. Anche questo sono andata a rileggermelo. Ricordo benissimo quel giorno, fuori dal Duomo, imbacuccata sotto la pioggia. E una ragazza, Silvia, che non era mai riuscita ad incontrare don Giussani ed era lì. Io ero stata più fortunata. Anche questo è stato un regalo.

Sempre per la Stampa, il giorno della morte di don Giussani intervistò don Carrón.
Ci incontrammo all’istituto Sacro Cuore. In continuità con don Giussani, la sua preoccupazione era il nichilismo, che «sta rovinando la vita delle persone e della società». Penso che ha avuto un grande coraggio a prendersi quella responsabilità in un momento dove non c’erano grandi segni di speranza.