«Qualcosa che non avevo mai visto prima»
Padre Mauro-Giuseppe Lepori su Tracce di giugno racconta il suo incontro con il movimento a 17 anni. Cosa è successo da quel momento. E gli sguardi che lo hanno fatto crescereCi sono date indelebili nel curriculum vitae di un monaco: l’intuizione della vocazione, l’ammissione in monastero, la Professione definitiva. In quello di padre Mauro-Giuseppe Lepori, dal 2010 abate generale dei Cistercensi, ce n’è un’altra, «forse la più importante dopo quella della mia nascita», ha raccontato agli Esercizi spirituali della Fraternità di CL, «perché è la data in cui Cristo si è imbattuto nella mia vita e tutto di me ha preso finalmente senso». È il 25 febbraio 1976. Ha 17 anni. Vive con la madre, il padre e due fratelli maggiori, a Canobbio, un piccolo paese della Svizzera italiana. Va al liceo e frequenta la parrocchia. «Quella sera fui invitato, insieme a un gruppetto di giovani, da una famiglia di immigrati friulani del movimento di CL. Lui si chiamava Luciano e faceva il falegname, lei Nella, era casalinga e si occupava dei tre bambini piccoli. Non accadde nulla di eclatante. Se non l’incontro tra il mio cuore insoddisfatto e una presenza che mi diceva: “Mauro, io ci sono e sono qui per colmarlo di gioia”».
Perché andò da loro quella sera?
Luciano aveva invitato un gruppetto di giovani della parrocchia a casa sua con l’idea di organizzare una Messa. Era stata mia mamma, durante una riunione, ad aver fatto presente che bisognava coinvolgerci di più. Ci andai con mio fratello. Era una casa povera, ma c’era qualcosa che non avevo mai visto prima: la comunione tra loro. Rimasi impressionato da un piccolo fatto: prima di uscire Luciano tirò fuori il Libretto delle Ore e ci invitò a recitare Compieta. Io ero devoto e di solito pregavo in chiesa, non fu quindi tanto il gesto a colpirmi. Ma la sua libertà. Eravamo estranei, ma lui ci ha lasciato vedere tutto di sé.
E cosa è accaduto dopo?
Quella sera io incontrai non solo Luciano e Nella, ma un luogo di amicizia che rispondeva alla solitudine che provavo e che sentivo incombere sul mio futuro. Avevo 17 anni, degli amici, una passione, quasi un’idolatria per lo studio, per gli hobby. La mia solitudine era per non aver incontrato qualcosa che riempiva davvero il mio cuore. Un abisso di tristezza che conoscevo bene e in cui tante volte avevo sentito la mia vita cedere. Ma in quella casa sono stato sorpreso da un altro abisso, quello di una gioia che non era mia, che non potevo aver generato io. E a cui è seguita una oggettività di durata, perché poi, per molte settimane, sono stato felice. Il primo riflesso di quell’incontro è stato andare a cercare quel gruppetto che vedevo recitare le Lodi in un’aula della mia scuola. E poi ho cominciato a dar seguito agli inviti del mio professore di religione, don Willy, che accompagnava l’esperienza di Gioventù Studentesca nel Canton Ticino. La domenica andavamo a due Messe: quella del movimento a Lugano e poi correvamo a Canobbio sull’utilitaria di Luciano, per partecipare alla Messa del paese animata dal nostro gruppetto.
Come ha scoperto la sua vocazione?
Era qualcosa che maturava parallelamente a tutto questo. Ma anche qui ci fu un momento preciso. Fu nel ’77, durante un pellegrinaggio ad Assisi. Eravamo alla Porziuncola e, durante la predica, un frate disse qualcosa sulla vocazione. Non ricordo neanche cosa, ma in quell’istante mi è tornata la gioia di quel primo incontro. Lo stesso fenomeno. Come quando rincontri la stessa persona. Inconfondibile. Era Cristo che mi chiamava ancora. Non avevo idea della forma, ma sapevo che volevo seguirLo.
E intanto si era iscritto all’università…
Sì, ho frequentato la facoltà di Filosofia, nella prospettiva di diventare sacerdote secolare. Ma poi quella gioia si è rifatta viva e ha scombussolato tutti i piani.
Dove?
Ero andato a preparare un esame impegnativo nell’Abbazia cistercense di Hauterive, vicino a casa. E di nuovo, stando lì, la stessa esperienza di gioia. Poteva essere una suggestione psicologica, un sentimento che voleva dir tutto e niente. Ma ciò che ha salvato quell’esperienza è stato il fatto che ogni volta assieme alla gioia mi era data una compagnia a cui questa gioia rimandava, in cui potevo fare dei passi.
Cosa l’ha attirata di san Benedetto? E come il carisma del movimento l’ha aperta al carisma cistercense?
Non ho mai avuto l’impressione di dover scegliere tra un carisma e l’altro. C’è stata una continuità. Il carisma è Cristo che ti attira, ti indica una strada. Il movimento mi ha aiutato perché non mi ha mai messo in una forma, ma mi ha sempre educato a una sostanza. Grazie a quello che ho vissuto nel movimento ho potuto guardare e abbracciare la sostanza della Regola benedettina con una sensibilità amplificata. Anche se devo dire, ma questo l’ho capito negli anni successivi, che pure nella forma, il movimento si ispira alla metodologia benedettina: nella concezione della comunità, dell’autorità, della preghiera, della cultura, del silenzio.
Il rapporto con don Giussani l’ha accompagnata in questa scelta?
Tra di noi ci sono stati alcuni dialoghi. Di cui ricordo ogni parola. Ma quello che trattengo di più è il suo sguardo. Ti guardava e ti faceva crescere. Percepivo una stima per me, che mi era evidente di non meritare, ma che nasceva da una gratuità con cui guardava ogni particella di realtà. E poi mi impressionava come fosse il primo a farsi discepolo, a farsi figlio. Lui, da quel momento con te, voleva imparare tutto. Pendeva da ogni tua parola. Ma senza lusinga. Ti ascoltava con una lealtà totale, per cui ti correggeva, anche solo di un millimetro, se era necessario. Senza avvilirti, gli bastava un “però…”. Quando l’ho incontrato dopo essere diventato abate, si è buttato in ginocchio, e mi ha detto: «Padre, una benedizione!».
Un’altra figura decisiva per lei fu il vescovo Eugenio Corecco, teologo e tra i responsabili del movimento in Svizzera…
Da lui ho ricevuto lo stesso sguardo di carità di Giussani. Quando ero universitario ho avuto la grazia di vivere con lui per cinque anni. Da professore universitario aveva voluto aprire le porte del suo grande appartamento a un gruppo di studenti. Una fucina di grazie da cui sono usciti sacerdoti, vescovi e cardinali, ma anche laici impegnati nel mondo e nella Chiesa. Era quasi normale avere Von Balthasar o Christoph Schönborn a cena. È stato un luogo di educazione senza che avesse la pretesa di esserlo. Io, paradossalmente, con Corecco ho avuto pochissimi dialoghi personali, ma c’era la vita, i pasti insieme, dove tiravamo fuori le questioni dello studio, della vita universitaria, delle fidanzate. Corecco aveva solo una preoccupazione: che fossimo coscienti delle cose che ci capitavano e di come le vivevamo. Mi ricordo che andavo a letto la sera con il cuore che mi scoppiava di gratitudine per l’esperienza di libertà che potevo fare. Poi, non è stato sempre facile stare lì, non era una vita comoda. Lui ci faceva vivere a quel livello anche le fatiche e i litigi. E anche la mia grettezza d’animo, il mio umano, sono dovuti venir fuori, perché io li guardassi e desiderassi cambiare. Poi il cambiamento era sempre una grazia.
Agli Esercizi della Fraternità, lei ha detto che «il Vangelo non finisce mai», perché siamo circondati da una moltitudine di testimoni che ci mostrano che «Cristo è vita della vita». Chi sono questi testimoni per lei?
Ci sono testimoni che mi porto dentro e che magari ho incontrato solo per un breve istante. Eppure sono come padri e madri per me. La mia persona non può più esprimersi senza aver dentro quel rapporto. Penso agli occhi con cui mi ha guardato Madre Teresa o alla mitezza del cardinal Van Thuân. È un’intensità di vita che Cristo, incarnandosi, mette dentro anche in un solo istante della nostra vita. E poi mi viene in mente il nipotino di una cara amica, nato con una gravissima malformazione alla testa e al volto…
Racconti.
Appena nato, nel 2000, era stato affidato alle mie preghiere, ma non avevo mai avuto occasione di andare a trovarlo. Poi, un giorno, mentre mi trovavo in Svizzera per un matrimonio, la mia amica mi dice: «Vieni da Matteo è a cinque minuti da qui». Non avevo scampo. Quei cinque minuti sono stati i più intensi della mia vita. Avevo paura e ho pregato tanto. Ma quando sono entrato nella sua stanza, avvicinandomi al suo lettino, ho avuto l’impressione di venire dal buio e andare verso la luce. La paura e il disagio sono svaniti. Matteo, che non era in grado di parlare, ha iniziato a battere le mani e a suonare sui tasti dell’organetto giocattolo che aveva accanto a sé. Ho visto la sua capacità straordinaria di relazione. Era felice che fossimo lì con lui. Non ho mai avuto un incontro così fisico ed evidente con Gesù Cristo. Con Matteo è iniziata un’amicizia misteriosa. Da lì in poi mi è stato sempre presente. Sono tornato a trovarlo poco prima che morisse nel 2016, il giorno degli Angeli Custodi.
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Cosa permette di stare davanti al dolore innocente? Durante l’assemblea degli Esercizi, a una donna ucraina che chiedeva come vedere il Padre nelle atrocità della guerra, lei ha detto che avverte questa domanda come il compito che si porta a casa. Cosa intendeva?
La nostra responsabilità verso la guerra, e verso tutte le piaghe che affliggono l’umanità, è dire il nostro sì a Cristo dentro al frammento di realtà che incontriamo. Fosse anche raccogliere un pezzo di carta per strada. E cosa lo rende possibile? Dobbiamo tornare dove l’incontro con Lui è diventato reale, dove mi ha preso il cuore, da quelle persone che abbiamo sentito più amiche di tutte. È tutto appeso alla nostra libertà. Se nell’inferno ci fosse uno che dicesse sì a Cristo, l’inferno sparirebbe. In modo misterioso siamo noi a dare a Dio il permesso di entrare nel mondo. E di abbracciarlo, generando una bellezza a noi impossibile.
Che cosa sono stati questi Esercizi per lei?
Un dono che ho ricevuto. Anche la riflessione su Marta non era prevista. Pensavo di usare l’episodio evangelico solo per introdurre il silenzio la prima sera. Invece è accaduto che nei giorni precedenti, mentre preparavo i testi, sono stato preso dalla preoccupazione dell’esito e ho avuto bisogno di tornare a quelle parole di Gesù: «Marta, Marta, tu ti preoccupi di troppe cose, ma una cosa sola è necessaria». Ho dovuto accorgermi che non avevo bisogno di fare bene gli Esercizi, ma che avevo bisogno di Cristo per farli. Questa inversione mi ha così liberato che non ho avuto altro da offrire a voi.#100Testimonianze