Víctor Pérez-Díaz, sociologo all’Università di Harvard e alla Complutense di Madrid, alla presentazione della biografia di don Giussani nella capitale spagnola.

Giussani e Leopardi. Fari nella nebbia

È uno dei grandi studiosi della nostra società, un luogo in costruzione con domande sempre aperte. E dove continua a esistere l’«impulso ad arrivare al sublime», che lui riconosce in due uomini. A colloquio con Víctor Pérez-Díaz
Juan Carlos Hernández

Víctor Pérez-Díaz, forse il più noto sociologo spagnolo, nel suo ultimo saggio, Faros en la niebla (Fari nella nebbia), assicura che la secolarizzazione può essere un’opportunità per l’esperienza religiosa. E aggiunge che, in questo momento, «la sensazione di drammaticità aumenta e le domande rimangono nell’aria. Il disordine attuale promuove l’insoddisfazione per le risposte date dai leader politici, dalle élites al potere, dall’apparato mediatico e per i loro luoghi comuni». In questo contesto, ritiene che Giacomo Leopardi e don Luigi Giussani possano rappresentare due chiari punti di riferimento.

Perché la secolarizzazione è un’opportunità?
Una sfida è sempre un’opportunità. Le cose non si decidono a priori. Il momento attuale è il momento di una modernità dubbiosa e, allo stesso tempo, orgogliosa di se stessa. Il suo compito è quello di coniugare i propri dubbi con il proprio orgoglio. Nei secoli scorsi per la gente era molto chiaro che bisognava stare da una parte o dall’altra. Ma le cose non sono bianche o nere. In realtà sono più complicate. Col tempo si è visto come le guerre di religione fossero in gran parte guerre di Stato, civili e non civili, delle quali bisognava pentirsi. Questa esperienza di pentimento per gli eccessi e la violenza è ricorrente. Esiste o può esistere un processo di apprendimento continuo. Siamo arrivati al 2022 e ci ritroviamo, in un certo senso, con gli stessi vecchi problemi. La storia non si evolve inesorabilmente in un’unica direzione, va alla cieca. I progressi ci sono, rifiutarsi di vederli è assurdo. Ma ora siamo diventati competenti riguardo ad alcune cose e non ad altre. Per esempio, riguardo al problema della morte. È un argomento che la modernità tende a offuscare. Ma la domanda sull’eternità è sempre presente. Il dramma di durare e non durare, non solo per noi ma anche per le persone che amiamo, esiste sempre. E così anche la percezione dell’impulso a tendere al sublime. È un romanticismo esagerato? No, è qualcosa di ricorrente nella vita umana, è ricorrente nella vita delle persone.

Nonostante questi progressi, lei afferma che nel mondo di oggi gli uomini non si sentono a casa.
Abbiamo sempre una domanda in testa: io vivo in una casa, in un luogo, ma anche se è così, quanto durerà? L’impostazione moderna ci dà l’impressione che noi creiamo cose, costruiamo, e tra queste costruiamo una dimora, un luogo. C’è una componente positiva in questo, perché siamo responsabili di ciò che facciamo. Ma c’è anche una componente negativa: nasconde i limiti della nostra capacità di fare, gran parte di quanto troviamo è già fatto. Le religioni sono opportunità per dare senso a domande, drammi, esperienze di limite e nostalgia. Sono anche un luogo, sì, ma bisogna anche tenere presente che questo luogo lo dobbiamo lasciare. Forse è meglio farlo senza troppe rotture. Pensate ai Romani: avevano il loro focolare domestico, la loro casa, le loro divinità locali e familiari. Ma in un determinato momento dovevano andare in guerra, dovevano uscire nell’agorà, dovevano discutere in pubblico, dovevano affrontare sfide e pericoli, dovevano andare con le legioni, lontano. L’epoca moderna e contemporanea è un tempo di ricerca di un luogo e di abbandono di un luogo, di situazioni favorevoli e sfavorevoli.

In questa situazione, lei sostiene che Leopardi e don Giussani sono fari nella nebbia, perché?
Giussani è tutto preso dalla preoccupazione di cosa fare con i giovani, che si trovano in una sorta di avventura drammatica, tragicomica, melodrammatica. Accompagna questa esperienza e negli anni Cinquanta è disposto a fare qualcosa di significativo al riguardo. È una normalissima persona del Nord Italia. Con il suo cattolicesimo problematico, consapevole dei tanti compromessi che bisogna accettare per continuare a operare, un cattolicesimo che esce da un’esperienza piena di ambiguità e stranezze, in cui c’erano il fascismo e la Democrazia Cristiana e altri movimenti. Ma Giussani ha un impulso vitale, un impulso romantico. Vede e comprende l’esperienza che sta per proporre come un’esperienza religiosa. È un’esperienza combattiva, non nel senso della lotta contro qualcosa o qualcuno, ma dell’essere piena di slancio, di incontri, di amore, di identificazione, di aiuto, di doni. È un impulso che dà una immensa soddisfazione. E si scopre che ha una particolare passione per Leopardi, il che è sorprendente.

Leopardi, che è un poeta ateo.
Sì, certo. Leopardi è disperato, ma canta la sua disperazione con immensa vivacità. C’è una contraddizione tra questa disperazione e il modo in cui Leopardi vive il presente, fino alla fine e oltre la fine. Canta un inno alla vita che Giussani coglie come qualcosa di affine alla propria sensibilità. A volte è intensità nella solitudine, essere presente e non esserci. In uno spazio che è difficile definire con parole precise perché ha una contraddizione interna, ma con un messaggio chiaro: l’intensità dell’impegno per la vita e per il momento presente. In mezzo alla disperazione dell’andare verso il nulla, Leopardi grida intensamente come se il suo grido dovesse persistere all’infinito. È una situazione estrema che mi viene difficile esprimere a parole. C’è un’affinità tra Giussani e Leopardi nell’affermazione della vita, anche se in forma di protesta contro una vita breve, o inadeguata. Fino a che punto arriva questa affermazione e in che modo possiamo assimilare questa esperienza? È una domanda aperta. Io non credo di esserci riuscito fino in fondo. Cerco di accostarmi e di capirlo così. Il sentimento leopardiano del sublime è qualcosa che Giussani custodisce nella testa e nel cuore. Parla della sublimità del sentire come un riferimento. È un impulso a spingersi sino al limite, ma definendo tale limite il più possibile. Si tratta di un momento curioso dell’esperienza occidentale moderna, che suole esprimersi in modo irreligioso o a-religioso. Lo spirito religioso può sentire una profonda affinità con questa esperienza, è una sorta di fratellanza di capacità, di atteggiamento. Non puoi vivere quell’esperienza, non hai il diritto di modificare i termini in cui le persone hanno espresso i loro sentimenti. Esprimere i sentimenti è molto complicato. Non è scontato che lo si sappia fare. È un problema di riflessione, da psichiatra, da confessore, da un amante che ti capisce, da amicizie intime. È ciò che è accaduto ai coniugi Curie. Nel loro modo di vedere le cose, in cui non c’è Dio e non c’è esperienza religiosa, c’è una sorta di passione per trovare qualcosa che sia esplicitamente esistenziale, morale. Si tratta di trovare affinità selettive tra il cripto-religioso – o il religioso che non si esprime come religioso – e la religiosità. Penso che Giussani faccia un tentativo meritorio, che non deve necessariamente essere realizzato, le cose non si realizzano necessariamente. Lo trovo sorprendente. Non interpreto quello che fa CL come organizzazione, se fa questo o quello nel mondo, non entro in questo discorso. Guardo la testimonianza di Giussani che ha un desiderio di curare le anime, e che esprime questo desiderio in termini il più possibile vicini al Leopardi che ha davanti.

Colpisce il fatto che Leopardi sia per Giussani un compagno e non un nemico.
Non è un nemico, è quasi una specie di anima gemella. È un personaggio che va per la sua strada, che ha la sua vita. Bisogna rispettare rigorosamente la sua esperienza alle sue condizioni, altrimenti Giussani non sarebbe fedele all’amicizia con lui. Se c’è amicizia, si riconoscono le esperienze degli altri. Si riconosce, goffamente, come accade con ogni riconoscimento reciproco, che non è mai netto o chiaro e ha sempre una componente di percezione confusa. Questa era d’altronde la visione della gente in epoca barocca, incentrata non tanto sull’idea cartesiana chiara e distinta, quanto su percezioni confuse che si vanno migliorando il più possibile. Questo è importante per comprendere la modernità non nei termini dell’Illuminismo settecentesco, ma in termini più complessi. C’è una dialettica complessa tra alcuni tempi storici e altri che, con la stupidità narcisistica del momento presente, viene dimenticata. Una dialettica che va controcorrente, in fretta, alla ricerca di un futuro vuoto. E quindi non si ha la minima idea che, per fare un esempio, da un momento all’altro possa scoppiare una guerra in Ucraina.

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La scienza e l’arte possono aiutare in questa conversazione?
Gli scienziati puri sono ossessionati dalla loro scienza, e in questa stessa passione sono poste le loro radici. Ci sono tracce interessanti nell’umanesimo laico e secolare e, naturalmente, negli artisti. La scienza gioca continuamente a superare il proprio limite, spesso dominata da manie di grandezza. Da un lato è un errore, ma dall’altro, visto in prospettiva, è un errore che può offrire contributi interessanti al processo della conoscenza umana. Se li comprendiamo, abbiamo fatto un passo avanti. Bisogna avere un giudizio graduale, questa è la chiave dell’educazione. L’educazione non è informazione. Molti sembrano così ossessionati dall’informazione da non saper che fare con la complessità e la nebulosità del passato, perché pensano di doverlo superare – così credono –, o semplicemente qualificarlo come buono o cattivo, esaltare uno, cancellare l’altro; tutto ciò è terribile.