Gus Powell (New York, 1974). È docente del Master di fotografia alla School of Visual Art di New York. Vive a Brooklyn con la moglie e le due figlie (©Archivio Meeting)

Gus Powell. «Sono ancora in viaggio»

Il fotografo di New York, autore delle immagini della mostra del Meeting “Family Car Trouble”, su "Tracce" di settembre racconta il suo incontro con il popolo di Rimini
Luca Fiore

Ho conosciuto Gus Powell nel 2019 attraverso il suo libro, Family Car Trouble. Tre anni dopo, ho curato la mostra tratta da quel volume per il Meeting di Rimini. Lui è stato in fiera per una settimana, prima a montarla e poi a spiegarla. Dice: «Family Car Trouble è la storia di un viaggio on the road. Un percorso durante il quale l’unica aspirazione era, semplicemente, far arrivare tutta la famiglia a fine giornata». I protagonisti sono la moglie, le due figlie, il padre malato e Jimmy, la Volvo Polar del 1993. La vita quotidiana. L’energia dell’infanzia e lo struggimento per lo spegnersi lento della vita del papà. «Il Meeting è stata un’esperienza travolgente. Dal punto di vista della quantità di visitatori, certo. Ma al di là dei numeri, mi ha colpito la qualità della risposta del pubblico», dice di ritorno negli Stati Uniti. «Mi sorprendo ancora a pensare a nuovi modi di parlare delle mie foto, nonostante la mostra sia finita. Per fortuna ci sono le mie figlie che mi tengono con i piedi per terra. Maude, la più piccola, quando ha sentito che tutti mi fermavano per farmi delle domande, con la voce da smorfiosetta mi ha detto: “Sì, perché tu sei così aperto e gentileeee…”. Mi prendono in giro e fanno bene».

Racconta dei tuoi giorni a Rimini.
Alla vigilia, mi sentivo un po’ come Boriska, il ragazzo che in Andrej Rublëv di Tarkovskij costruisce la campana per il Duca. Fino a quando non la prova è sulle spine: non sa se suonerà davvero. Ma mi sembra che al Meeting Family Car Trouble abbia suonato bene.

La mostra di Gus Powell a Rimini (©Archivio Meeting)

In che senso lo dici?
L’obiettivo di questa serie di immagini era generare una discussione. E io ho avuto centinaia di conversazioni con gente che mi è venuta a ringraziare o persone che non capivano e mi facevano domande. In tanti mi sembra si siano portati a casa qualcosa. I visitatori hanno collaborato alla riuscita della mostra, tanto quanto gli splendidi volontari che mi hanno aiutato ad allestirla e le guide che la presentavano con me.

Perché dici che i visitatori hanno “collaborato”?
Queste fotografie rappresentano momenti di vita della mia famiglia, ma non sono pensate come un diario da tenere nel cassetto. Lavorando prima al libro e poi alla mostra ho scelto le immagini che meglio potessero comunicare a persone che della mia vita non sanno niente. E questa gente ha iniziato a venire da noi a dirci che cosa stavano provando e in tantissimi hanno voluto raccontarci le loro storie. Abbiamo visto qualcuno uscire commosso fino alle lacrime. Ma non ho dubbi che nessuno di quelli che è uscito piangendo lo facesse per la morte di mio padre. È come se la mostra avesse dato loro accesso a un luogo preciso della memoria e gli avesse permesso di rivivere, in pubblico, certi sentimenti. E sono anche abbastanza convinto che, tra i più colpiti, la maggioranza non avesse vissuto la morte di un genitore. In questo senso dico che hanno collaborato: se racconti la storia a un sasso, la storia non va da nessuna parte. Una storia ha bisogno di essere ascoltata e condivisa.

Dicevi che qualcuno non capiva…
Sì, ma chiedevano. Io insegno e so quanto sia difficile suscitare domande. C’è stato un momento in cui, in un lasso breve di tempo, si sono avvicinati tre ragazzi tra i 19 e i 23 anni che mi hanno chiesto perché ci fossero le tre fotografie della pioggia sul parabrezza. E, per me, è abbastanza ovvio che – dopo l’immagine di mio padre nella bara – quelle foto rappresentano le lacrime e il dolore. Ma con i maschi di quell’età è più facile parlare di auto. Eppure…

Eppure?
Quando accompagnavo i visitatori in mostra, il mio passaggio preferito era quello: dopo l’immagine della morte di mio padre, arrivano le fotografie della pioggia. Quello era il momento in cui vedevo le persone annuire. È un’idea poetica, ma anche una situazione molto reale e quotidiana. Quando parcheggiamo l’auto, la spegniamo e stiamo lì, senza uscire. Siamo noi e la nostra coscienza. Sono momenti di meditazione. A volte di dolore. È una situazione che penso sia capitata a tutti. Sei lì e dici a te stesso: «E ora?».

Quali sono gli incontri che ti hanno più colpito?
Un giorno è arrivata una signora, una nonna. Aveva gli occhi azzurri e i capelli bianchi. Non aveva seguito la mia visita ed è voluta venire a dirmi che cosa vedeva nelle mie foto. È stata lei a fare la guida a me. E aveva capito tutto. Tutto. Trovi una persona che ha molta più esperienza di te e che legge il tuo lavoro e lo capisce perfettamente. È stato un dono. Un’altra volta, invece, è arrivato un ragazzino di 11 anni che ha iniziato a parlarmi della foto che conclude la mostra, quella con mia figlia che apre le braccia e sembra aprirsi al futuro. Si vedeva che voleva esercitare il suo inglese rudimentale ma, allo stesso tempo, parlava davvero di quell’immagine. Che tenerezza.

Che cosa hai imparato di nuovo di questo tuo lavoro?
Quando finisci un progetto, di solito, non ne puoi più. Te lo lasci alle spalle e vai avanti. Il libro è uscito nel 2019 e ormai non ricordavo neanche bene la sequenza delle immagini. Ma mentre continuavo a parlare e a rispondere alle domande, mi sono accorto che sto ancora elaborando quel periodo della mia vita. Non so quante volte ho fatto il giro della mostra e mi sembrava di essere in Ricomincio da capo, il film con Bill Murray: ripetevo sempre le stesse cose, ma ogni volta c’era una faccia diversa a cui parlare. Non mi era mai capitato di guardare le mie immagini in questo modo. E il fatto che sia riuscito a pubblicare un lavoro su questo tema non significa che il mio dolore sia sparito. È qualcosa che mi porto ancora dentro. Erano anni che non sentivo il nome di mio padre così tante volte: «La foto di Peter la mettiamo così…», oppure «Cominciamo con Peter…». Mi ha commosso sentirlo nominare di nuovo.

Che cosa pensi del Meeting? Invitandoti, ti avevo spiegato cosa fosse, ma non lo avevo fatto nei dettagli…
Sì, mi era chiaro che avrei incontrato gente con un background religioso. Ma non sapevo bene che cosa aspettarmi.

Ho pensato che i tuoi amici italiani ti avrebbero spiegato a sufficienza che cos’è CL.
Sì, quando ho detto che sarei andato al Meeting di Rimini in molti hanno sgranato gli occhi. È gente di sinistra, che spesso considera il vostro movimento agli antipodi. Ma Giulia Zorzi, la mia gallerista, era convinta che fosse comunque una grande opportunità per far conoscere e condividere il mio lavoro.

Arrivato a Rimini che cosa hai visto?
Negli Stati Uniti, una manifestazione del genere, dove il motore è l’appartenenza a un gruppo cristiano, nella mia mente – che è solo la mia, ma è l’unica cosa da cui posso partire – sarebbe stato qualcosa dai toni molto più accesi, anche dal punto di vista delle manifestazioni estetiche: t-shirt con scritto “Jesus Saves” o croci immense dappertutto… In fondo è comprensibile, come quando si va allo stadio: ciò che indossi ti serve per farti sentire vicino a chi è come te. È naturale. Invece a Rimini sia i giovani che i sacerdoti non sembrano voler gridare con il loro aspetto la propria posizione religiosa. Quando ho fatto scalo all’aeroporto di Parigi, tornando a New York, mi sono ritrovato in un luogo simile alla Fiera di Rimini e la gente che vedevo non era differente, guardandola, al popolo del Meeting. Mi sono dovuto chiedere che tipo di connessione c’è tra la gente del Meeting.

Che risposta ti sei dato?
Si capisce che non si tratta di qualcosa di dogmatico o riduttivo. È qualcosa di più sofisticato e sottile. Forse un modo per dirlo è proprio il titolo di questo Meeting: una passione per il cuore dell’uomo. Anche il fatto che si parlasse di tutto: scienza, religione, politica, economia, arte… È stata una vera sorpresa. E quando chiedevo ai ragazzi quale fosse l’aspetto del Meeting che amano di più, mi rispondevano: imbattersi per caso negli amici. Rivedere persone che non si vedono da anni. Sedersi a bere e chiacchierare a fine giornata. Al di là di mostre e conferenze, la cosa più interessante è l’incontro tra le persone.

E di don Giussani, che cosa hai scoperto?
Ogni tanto, in qualche discussione, saltava fuori il suo nome. Una volta stavo parlando con una persona e con me c’era Chiara, una delle guide, che traduceva. Prima di andarsene questa donna mi ha ringraziato dicendo una cosa come: «Grazie perché ci aiuti a vedere la realtà» o «a vivere la realtà». E Chiara mi ha detto: «È una frase molto ciellina…». Nei giorni successivi ho cercato di capire che cosa intendesse e ho capito che è una specie di mantra, tratto dal primo libro di don Giussani, Il senso religioso.

LEGGI ANCHE «Dio si è fatto uomo. Dire questo sarebbe già abbastanza»

«Vivere intensamente il reale»…
Esatto. Ed è una frase in cui mi ritrovo molto. Il fotografo osserva intensamente la realtà e contemporaneamente cerca di vedere se stesso dentro ciò che guarda. È un aspetto fondamentale di Family Car Trouble. Ed è bello che la gente abbia potuto vedere, nel mio lavoro, qualcosa che la connette con l’insegnamento religioso ricevuto o, almeno, con una parte di esso. Poi, per me, il rapporto con la realtà è completamente soggettivo, quindi non so bene se si tratti proprio della stessa cosa che intende Giussani. Ma è stato un punto di incontro tra la gente, me e il mio lavoro. Il Meeting mi ha regalato una copia de Il senso religioso. Lo leggo e ne riparliamo.