Don Alberto Cozzi, professore alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale (Foto Archivio Meeting)

Don Giussani. Un pensiero vivo

Martedì 15 novembre, alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, un incontro sul libro dedicato al fondatore di CL "Il cristianesimo come avvenimento". Da "Tracce" di ottobre, il dialogo con uno dei relatori, don Alberto Cozzi
Paola Bergamini

«Ero alle superiori, mia sorella mi portò in Cattolica a seguire una lezione di don Giussani. Seduto in un angolino dell’Aula Magna strapiena, mi impressionò la raffica di domande e provocazioni degli studenti a cui lui rispondeva con forza, preoccupato non di persuadere, ma che i ragazzi intercettassero una parola efficace per la loro vita. È stato il mio primo incontro con don Giussani. Poco dopo, sono entrato in seminario a Venegono dove ho trascorso i tre anni più belli della mia vita. Poi sono stato inviato a Roma per diventare teologo». Esordisce così don Alberto Cozzi, classe 1963, quando ci incontriamo a Milano nel suo studio alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, dove è stato preside dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose fino a settembre. Dopo aver insegnato per undici anni Cristologia a Venegono, nel 2002 è diventato anche parroco a Galliate Lombardo in provincia di Varese, dove vivono alcune famiglie del movimento. «La familiarità con loro è stata di aiuto nel mio studio su Giussani».
Il suo intervento al Meeting di Rimini, per la presentazione del libro Il cristianesimo come avvenimento. Saggi sul pensiero teologico di Luigi Giussani, di cui è uno degli autori, è stata per certi versi una sorpresa. Normalmente la parola “teologia” richiama qualcosa di alto, troppo alto, poco attinente alla vita “normale”. E invece don Cozzi ha restituito la tensione di vivere di don Giussani. Il nostro dialogo è iniziato proprio a partire da questo suo secondo “incontro”, da teologo.

Milano, martedì 15 novembre - ore 18. "Il cristianesimo come avvenimento". L'incontro sarà in streaming sul canale YouTube dell'Associazione Italiana Centri culturali

Che cosa l’ha colpita del pensiero teologico di Giussani?
Ritorno a quella prima impressione in Aula Magna. Giussani aveva la percezione che i giovani, per essere leali con se stessi e con la vita, dovevano usare le parole confrontandole con il proprio io, cioè coglierne il significato originario in rapporto alla loro esperienza. A lezione incalzava: cosa intendete per fede, ragione? Aveva la preoccupazione che avessero gli strumenti per comprendere e giudicare quello che lui insegnava. Cercava parole “creative” – non esoteriche – come espressione della sua ricerca sull’umano. La sua idea di teologia, lo dice negli scritti su Niebuhr, è legata alla vita perché è la consapevolezza critica integrale di un’esperienza. Non a caso, in questa sua ricerca inesausta della parola si confrontava con teologi come Ratzinger e von Balthasar. Desiderava arrivare al cuore dell’esperienza.

Un esempio?
Prendiamo la parola “obbedienza”. Giussani dice che è la disponibilità all’opera di un Altro. Non è una gerarchia che si impone, tanto meno un sistema, bensì è la percezione che l’affermazione di me passa attraverso il riconoscimento di un Altro. Con questa postura esistenziale trovo il mio “io”. Giussani precisa che questo è possibile se tengo nell’occhio la Sua presenza, perché mi permette di vedere l’altro e di percepirne tutta la ricchezza. È una dinamica interessante. Ma c’è un’altra parola a mio avviso che rende bene: sacrificio.

Provi a spiegare.
Nell’amore, come riconoscimento dell’altro, c’è il sacrificio. La misura dell’amore non è soltanto il benessere: cioè, c’è una dinamica di ospitalità che chiede un passo indietro rispetto alle mie esigenze, alle mie pretese.

Perché ne vale la pena?
Perché l’uomo non si possiede. E qui c’è la grande intuizione, la chiamo l’“ossessione” di Giussani: «Io sono “tu che mi fai”». L’uomo è continuamente collocato tra il mondo, da cui vorrebbe dedursi – pensare di essere frutto di puro meccanicismo lascia più tranquilli – e il Mistero. L’io è stretto tra questi due poli. Giussani aggiunge che si sperimenta questa condizione dentro le circostanze.

Sono il punto di incontro tra il Mistero e il mondo?
Sì, sono il luogo dove l’uomo deve impegnare il proprio io, è un movimento dell’essere. Ben diverso dall’adeguarsi all’ideologia che afferma: ho scoperto l’uomo e lo deduco. Ritorniamo al meccanicismo. Giussani sostiene esattamente il contrario. E in questo è affascinante, perché mette in atto l’avventura della libertà. Cioè mette in azione l’umano.

In che senso?
Come uomo, con questo io irriducibile messo di fronte al Mistero dentro l’esperienza delle circostanze – lavoro, relazioni, progetti –, mi impegno con tutto me stesso a dare significato a quello che vivo. Ad esempio: non “faccio” il papà, divento papà, non faccio il marito, divento marito.

Perché questo avvenga, afferma Giussani, c’è bisogno di un incontro.
Altra “parola” teologicamente importante, che esprime la sua tensione esistenziale. E per questo fa arrabbiare il pensiero moderno. Non c’è una regola, una legge da applicare, perché per trovare me stesso deve avvenire un incontro, qualcosa di “occasionale”. Questa la sfida che Giussani elabora nel dialogo provocatorio con Niebuhr e altri teologi dell’epoca. È il metodo di Dio: ci offre un incontro storico che si rende presente, perché Cristo è risorto nella Chiesa, e mi provoca al punto da mettere in gioco il mio io. È la stessa dinamica che accade, ad esempio, nell’innamoramento, che risveglia energie, affezioni che non si pensava di avere. Accade in tante circostanze della vita: nella decisione di diventare medico, ingegnere, nell’attuazione di un progetto, nelle relazioni…

Possiamo dire che l’incontro con Cristo apre gli occhi sugli altri avvenimenti?
Meglio: li tiene aperti alla promessa che contengono e che le “botte” della vita tendono a smentire. Questo è possibile, come dice Giussani, perché la presenza di Cristo è una provocazione. Nel senso che tiene attiva la gratitudine e la percezione del centuplo di affezione, di coinvolgimento. Giussani parla di fecondità: uno si accorge che l’incontro con Cristo lo rende generativo: non necessariamente fa grandi cose, ma ogni aspetto della vita ha dentro una promessa che si rinnova. Il teologo Karl Barth diceva che l’incontro con Cristo aveva reso la sua vita un luogo di capolavori. Ed io come sacerdote assisto ai capolavori che Dio fa in tanti fratelli e sorelle. Scruto l’opera di Dio nella vita degli altri. È anche questo un pensiero giussaniano!

Al Meeting, riprendendo la frase di Mario Vittorino: «Quando ho incontrato Cristo mi sono accorto di essere uomo», ha detto che Giussani ci lascia un’antropologia della fede, come esperienza che ha a che fare con l’umano.
La provocazione di essere uomo è sempre uguale in ogni epoca. Oggi però alcune teorie, penso al transumanesimo, chiedono di tornare a percepirsi come un animale che attraverso, ad esempio, la tecnologia, può fare il salto evolutivo. In fondo, se basta un virus per infrangere ogni desiderio, progetto, relazione, conviene mettere da parte la pretesa esorbitante dell’irriducibilità dell’io. Ritorniamo allo stesso punto: tutto si riduce all’ideologia del benessere estemporaneo, delle emozioni. L’autocoscienza cui Giussani invita, invece, è a essere leali con se stessi, perché siamo in rapporto con l’infinito. Questo vale per il teologo come per la massaia. Nell’incontro con Cristo l’uomo cerca di scoprire la sua identità creando nessi di significato tra sé e il mondo. È una esperienza, cioè un cammino per cogliere i segni che aprono alle esigenze vere del cuore, trovando una corrispondenza fra sé e il mondo. È il problema che io noto nella cultura giovanile.

Provi a specificare.
I media riempiono la loro vita di opinioni, emozioni, conflitti, ma ai giovani mancano segni che intercettino l’io. Quando si dialoga con loro della guerra, del problema ecologico, di come va il mondo, è interessante arrivare a dire: tu dove sei? Perché affiorino quelle esigenze di bellezza, di giustizia, di verità – notitia Dei, le chiamava sant’Agostino –, che accendono l’intuizione del «Tu che mi fai». Questo ti fa mettere giù i piedi dal letto e affrontare la giornata. Aggiungerei un elemento in più, che è proprio della pedagogia molto concreta di Giussani.

Quale?
Nella grazia dell’incontro con Cristo, la compagnia della comunità cristiana è ciò che ti permette di verificare l’esperienza. È il realismo cattolico, in antitesi con lo psicologismo protestante che lui aveva ben studiato. Dicevo “pedagogia” perché in Giussani c’è un ascolto della parola di Gesù, una percezione del Risorto, del camminare con Cristo, che permette di dire anche nelle situazioni più dolorose: questa cosa la prendo perché la ricevo da Dio. Giussani afferma che, quando sei davanti al Mistero come destino, la cosa più sensata da dire è: Tu. E in questo ti senti totalmente libero. La preghiera, allora, è mendicanza, invocazione radicale, di questo Tu presente.

Quale è oggi il contributo più forte del pensiero di Giussani?
Aveva la genialità di trasmettere la fede vivendola, facendola vivere, e di arricchirsi di coloro a cui l’aveva trasmessa. Forse questi sono solo alcuni degli aspetti del suo “segreto”. È comunque una eredità che va assolutamente capita, al di là del perimetro del movimento.