Una veduta di Nisida

La Colletta a Nisida. «Qua sono io»

Parole di un giovane carcerato di Napoli facendo la raccolta del Banco alimentare. In questo racconto (tratto da"Tracce" 11/2017) l’esperienza di chi ha vissuto questo gesto di carità (e altri) in «operosa continuità» con la Giornata mondiale dei poveri
Davide Perillo

«Bello il vento nei capelli: non me lo ricordavo». La Colletta di Alì inizia così, scendendo verso Napoli un sabato mattina, col finestrino della C-Max aperto accanto al sedile posteriore. Da una parte lui, di fianco Ciro, vent’anni tutti e due (e tutti e due nomi di fantasia, sono storie e vite da custodire). Al volante, Giovanni Iovinella “detto Felice”, che di anni ne ha appena compiuti 45 e di mestiere fa l’architetto, ma accanto al lavoro nel suo studio di Succivo, a due passi da Aversa, dal 2012 ne fa un altro, che lo porta su e giù da queste rampe almeno tre volte a settimana: la tangenziale, Bagnoli, il pontile... E Nisida, il carcere minorile. Quello che ha appena alzato la sbarra per farli uscire.

Strano fatto, la Colletta Alimentare. Don Giussani, una volta, la chiamò «il fondo comune degli italiani»: un gesto di carità capace di coinvolgere un Paese intero, tra chi dona (almeno cinque milioni di persone, dicono le stime di quest’anno) e chi raccoglie i beni che poi finiranno ai poveri. Centoquarantamila volontari e passa, questo 25 novembre, arrivati da dovunque. Anche da dove non te lo aspetteresti. Come Nisida, appunto. L’isola legata a Napoli da una striscia di terraferma e la sede di un “Istituto penitenziario minorile” che ospita una sessantina di ragazzi, più altre dodici nella sezione femminile. Hanno tutti dai 15 ai 25 anni, limite di età per scontare qui la pena di un reato commesso da minori. La maggior parte è dei dintorni, arriva da un universo che il resto del mondo conosce per via di Gomorra. Qui è così vicina da essere dentro: discorsi, parole, sguardi...

Molti dei ragazzi vanno e vengono dal carcere, quasi tutti hanno storie durissime. Alì è di Casablanca, vive in Italia da sempre, è cresciuto in un ambiente che l’ha portato in fretta fuori strada. Ciro per strada ci vive da quando aveva 12 anni. Oggi doveva vedere sua sorella, il primo colloquio dopo quattro anni. Ha preferito uscire per la Colletta. Giubbotto in pelle nera, pettine che ogni tanto tira fuori dalla tasca, per riavviarsi il ciuffo. Il compagno lo prende in giro: «Sembra quello di Happy Days...».



L’appuntamento è al Carrefour di via Foria, angolo via Duomo. Pieno centro: alle spalle si risale verso la Cattedrale e San Gennaro, dall’altra parte della strada inizia il Rione Sanità. Intorno, Napoli e la sua umanità: gioie e dolori che puoi leggere stampati sulle facce di chi passa davanti ai volontari in pettorina gialla per infilarsi a fare la spesa. Nove, quasi tutti universitari. Bel clima, molta allegria. Contagia parecchi di quelli che si affacciano all’ingresso col carrello della spesa e prendono i sacchetti «per aiutare i poveri». Tanti altri diranno «no» o non diranno nulla, ma è normale. È una proposta semplice che in qualche modo fa venire a galla quello che si ha dentro.

Alì si infila la pettorina subito, Ciro ci mette un po’ di più a convincersi. Non hanno fatto in tempo a prepararsi, a leggere il discorso del Papa, le “dieci righe”: lo hanno saputo all’ultimo, che sarebbero usciti. «Inutile suscitare aspettative quando poi magari il permesso si arena nella burocrazia», spiega Felice. Ma dopo un po’ sono già lì a sorridere, a dare i volantini a chi entra o a smistare il contenuto dei sacchetti di chi esce - e dona - negli scatoloni allineati fuori: pasta, pelati, legumi...

«Il primo anno la Colletta l’abbiamo fatta dentro l’istituto», racconta Felice: «Era il 2012. I ragazzi hanno la loro lista per la spesa, che arriva il mercoledì, fissa. Chiesero di aggiungere la voce “alimenti per l’infanzia”. Poi uno di loro uscì, per portare quello che avevano donato al punto di raccolta. Una scatola: c’era scritto “IPM Nisida” con la matita da trucco di un’educatrice, perché non avevano penne. Me la ricorderò per sempre».

La sua storia a Nisida era iniziata pochi mesi prima, «per caso, io la conoscevo solo per la canzone di Bennato, hai presente?». Un amico doveva andarci a fare un corso sulla sicurezza, e c’erano da prendere accordi con il direttore. «Mi ritrovai davanti una persona che li aveva a cuore, preoccupato che imparassero qualcosa che servisse a vivere». È il direttore che c’è ancora adesso, Gianluca Guida. Ma soprattutto, Felice si ritrovò davanti a loro, i ragazzi. «La loro energia, la voglia di fare, l’inquietudine... Allora archite’, c’amma fa’? Quann’accuminciammo?, quando cominciamo? Telefonai al mio amico: “Guarda, tenerli seduti a vedere slide e spiegazioni non è cosa... Bisogna che ci inventiamo altro”».

Questo “altro” è il laboratorio di edilizia. Te l’ha fatto vedere il giorno prima, percorrendo i corridoi dell’antico castello angioino: le sale ristrutturate, il pavimento antico riportato a nuovo, l’intonaco del corridoio «che aggio fatt’io», raccontava Ciro, orgoglioso, mentre Gennaro spiegava come hanno sfondato i muri e tirato su le scale. È uno dei programmi che possono seguire i ragazzi: gli altri insegnano a diventare pizzaioli, o pasticceri, o a lavorare la ceramica. Ma a Nisida si studia anche teatro, scrittura... Da questa estate c’è pure un laboratorio di arte presepiale. Non servono solo a insegnare un mestiere e aprire una strada una volta fuori, per quanto stretta: servono dentro, ora. «Stando con Felice ho incontrato qualcuno che mi ha dato fiducia», dice Alì in una pausa della Colletta: «È stata la prima volta in vita mia. Non lo voglio deludere».



Sarebbe facile buttarla in sociologia, imboccare scorciatoie sui padri assenti eppure indispensabili. E sarebbe tutto vero. Ma “fiducia” è una parola a due sensi, di quelle che non ti fanno dare per scontato nulla anche sull’altro versante. «Il primo anno che mi hanno permesso di portare i ragazzi fuori per la Colletta ero preoccupatissimo», racconta Felice: «Mi aspettavo la scorta, e invece no: niente guardie. Appena saliti in macchina, mi ricordo che chiusi le serrature. Poi fuori mi sembrava che non vedessero nulla di quello che colpiva me: il mare, la giornata, la bellezza... E loro a guardare le macchine, i cellulari delle persone». Al ritorno, però, c’era un silenzio pieno. «Pensavo: devono rientrare, sono tristi. Ma prima di scendere, uno di loro mi fa: “Feli’, ti ringrazio. Perché ho capito che pure io posso fare del bene”». Spiazzato. «Ma la verità è che mi spiazzano di continuo. Mi aiutano a non dare niente per scontato, di me, della mia storia e dei gesti che facciamo. Per questo ho bisogno di loro. Sono senza filtri e pieni di domande». Che non accettano discorsi, come risposte. Qualche mese fa in carcere è andato a trovarli don Eugenio Nembrini, tra i responsabili di CL e amico di Felice. «Neanche il tempo di scambiare qualche parola, e uno gli fa, secco: “Tu si prevete, no? Allo’ famme verè: addo’ sta ’stu Ggesù?”, dov’è questo Gesù? Ecco, è la domanda che chiedo di avere io sempre, anche oggi».

È la stessa cosa che qui, a via Foria, ti dice Raffaella. Ha 26 anni, è ingegnere, ha un lavoro precario (uno stage che finirà tra qualche mese) e racconta che stamattina non voleva venire. «Ma in un momento in cui è tutto confuso, avevo bisogno di qualcosa che mi rimettesse davanti a me stessa. Qui succede». Davanti al tizio che neanche ti guarda e alla signora che dice «Dio vi benedica» mentre allunga un pacco di pasta. Alla donna anziana che esce dal super con due sacchetti gemelli, bianco e giallo, stesso contenuto, e fa: «Uno è per la famiglia mia, l’altro è per la famiglia vostra». E ai ragazzi di Nisida, con cui Raffaella ha legato subito, come gli altri in pettorina: «Dovrebbero essere senza speranza. Invece li guardi, e vedi una bellezza che tante volte faccio fatica a riconoscere io nella mia vita. Perché quella senza speranza sono io, quando faccio le cose per abitudine...».

Anche Alì è abituato ai “no”. Ma a quelli che arrivano asciutti da chi entra e non vuol donare, risponde sorridendo. «Mi mandano a quel paese? E io continuo a sorridere... Ho pazienza. Prima non l’avevo, ma l’ho imparata sbattendo la testa contro il muro». Parole che fanno il paio con quelle che ti dice Ciro, a fine mattinata, quando gli chiedi se è stato contento. «E come, no? Qui cambi facce, cambi discorsi. E cambi pure tu». Cioè? «Là in carcere stai sempre sulla difensiva, qua no. Qua sono io».

È metà pomeriggio, quando si lascia Napoli per spostarsi verso Salerno. Fisciano, il magazzino del Banco Alimentare della Campania. Da qui ogni anno si smistano 7mila tonnellate di alimenti, che serviranno a sfamare 151mila poveri. E sempre qui arriveranno i camion con il raccolto della Colletta. C’è una ventina di volontari, altri arriveranno dopo. Alì e Ciro aiutano a scaricare. Uno vuole imparare a usare il muletto, l’altro impila scatoloni sui bancali. A sera inoltrata, quando sarà tutto un bailamme di camion e volontari che arrivano qui pure con la famiglia per dare una mano, vedrai uno che si mette a cuocere piadine per il popolo della Colletta e l’altro che si porta dietro i bambini, per farli giocare a nascondino e toglierli dal viavai impazzito di gente e scatoloni.

Ti hanno appena raccontato i loro desideri. Alì vorrebbe fare «il barista, o il ristoratore, e poi col tempo aprirmi un locale. L’importante è andare via da dove vivevo prima, se no il rischio che ti riparta la testa è troppo grande. È come un castello di carte: se fai una mossa sbagliata, casca tutto e devi ricominciare da capo». Ciro ti parla degli attestati che ha preso in carcere, «voglio fare il pizzaiolo». Strada in salita, ma si vedrà. Di certo, non sono più soli. Ti rendi conto di più del perché il direttore di Nisida ci tiene a che i suoi ragazzi possano vivere momenti del genere, «per costruire relazioni positive fuori». Ma capisci meglio anche il racconto che ti aveva fatto Felice il giorno prima, mentre si saliva verso Nisida. «Tempo fa c’era un ragazzo somalo, Abdul Karim, che viveva un momento difficile. Lo vedevi pure in cantiere: non lavorava, stava sulle sue. Il direttore era preoccupato, e io pure. Ho chiesto a Luigi, un altro, di stargli dietro, di coinvolgerlo. «No, archite’... Perché io? Non ho voglia...». Ma poco dopo erano lì tutti e due, uno con la cazzuola in mano, e l’altro che quella mano la prende, la muove verso l’intonaco, la guida. “Vedi, Abdù? Se fa accussì...”. Per me è stata una svolta. Sono io ad avere bisogno di quella mano, in ogni istante».

Il rientro a Nisida è fissato a mezzanotte, vietato sgarrare. Racconta Felice che anche stavolta, in macchina, c’era silenzio. Forse meno di quella prima Colletta, ma altrettanto pieno. «È la prima volta che ho fatto del bene», dice Ciro: «Ho sempre fatto male, per campare. Ma il bene esiste, certo. Nun simm’ tutti malamente». Lo hanno visto, e lo hanno fatto vedere. «L’esperienza che hanno fatto, quello che hanno vissuto loro, è roba loro. Ma interroga me». E cosa ti dice, Felice? «Che sono grato di questo Gesù che ho visto oggi».