Strade vuote per l'emergenza Coronavirus.

«Non ne esci da solo»

Il blocco delle attività, le incognite, il rischio di fallire. Dall’albergatore al produttore di vino, su "Tracce" di Aprile, l'impatto dell’epidemia di Coronavirus raccontato da piccoli e medi imprenditori. Come si fa a continuare?
Paolo Perego

Spread in salita, borse tra crolli e rimbalzi, smartworking, aziende che piano piano chiudono gli stabilimenti, altre che resistono, come possono, in mezzo a cali di domanda e fatture da riscuotere chissà quando... Con le città chiuse. La situazione per il mondo dell’economia e delle imprese è incerta, tra attese e timori, con la grande incognita di quello che sta accadendo nel resto del mondo.

Un’indagine di Confindustria ha già messo in luce, ai primi di marzo, gravi ripercussioni in tanti settori: il 65% delle oltre quattromila imprese che hanno partecipato allo studio ha registrato incidenze negative, soprattutto sul fatturato. Percentuali che si alzano in Lombardia e Veneto. Più della metà ha dichiarato di dover rivedere i piani aziendali, e tante dovranno ridimensionare la struttura.

Un piccolo viaggio in questo mondo lo abbiamo fatto anche noi, per vedere cosa e come stanno vivendo in tanti. E cosa può “tenere” in una circostanza tanto drammatica.

Il numero di Aprile di ''Tracce''

«È ancora tutto fermo». Francesco Monteverdi, sessantadue anni e nove figli, la più piccola di 12 anni, guida l’azienda vinicola di famiglia – «da otto generazioni» – in un fazzoletto di terra tra Lodi e Piacenza. «Nove dipendenti, più qualche commerciale. In gran parte fratelli, nipoti, cugini, figli. Una piccola realtà da 3 milioni di fatturato, vocata soprattutto all’estero». La vita era splendida, le vigne sui colli già gemmavano... «Adesso facciamo i conti con quello che sta accadendo». Con il fatto, per esempio, che «tutti in azienda abitiamo a Casalpusterlengo, nel cuore della prima “zona rossa” creata per arginare l’epidemia, mentre la struttura è appena fuori, a Borgo San Giovanni». Tradotto, fin da subito non c’era neppure la possibilità di andare ad aprire ai camion che dovevano caricare e scaricare. Tutto bloccato. «Niente smartworking per noi».

Parla di una nuova vita, fatta di passeggiate nei campi, a distanza dagli altri. «Nel mio lavoro non è concepibile, perché è fatto di rapporti e contatti personali. Online non è uguale». E così la vita: «Parlando con mio figlio, si discuteva del modo di salutarsi che alcuni giovani usano già: gomito contro gomito, scarpa contro scarpa... Io ho bisogno di abbracciare! Mia moglie, io, voglio baciarla». Oggi ci si parla da porte chiuse, o tra i reticolati dei giardini. «Ho ritrovato gente che non vedevo da anni, che, sapendo che sono implicato in Assolombarda a Lodi, mi chiede consigli». Imprese di catering che si sono ritrovate senza prenotazioni, attività bloccate senza forniture e ordini... «E le richieste che i prodotti abbiano la certificazione di essere esenti da virus. Ma come si fa? Chi dovrebbe rilasciarla a uno che fa ricambi per auto?».

Eppure, anche così può essere una sfida entusiasmante, dice Monteverdi: «Le condizioni sono queste. Ripartiremo da dove si potrà ripartire. Ma stiamo scoprendo cose nuove. Sul lavoro, a scuola, nei rapporti... Ci sono tante persone con cui posso fare questa strada che si apre. Non riesco a immaginare che sarà tutto come prima. E la “dimensione individualistica” sul lavoro sta cedendo il passo a una dimensione comunitaria. Perché non ne esci da solo, devi metterti con qualcun altro». Servono compagni di strada «in questo tunnel che non possiamo evitare», dice Carlo Fabbri, albergatore riminese, con le attività a Verona, Ferrara e Folgaria, in Trentino. Due hotel business e una struttura per il turismo familiare in montagna. «Ripercussioni? Molte, anche parlando con amici e colleghi». Un settore colpito fin dalle prime ore dell’emergenza. E ora è ancora peggio, con il blocco delle attività. «Con alcuni abbiamo sentito subito il bisogno di guardarci in faccia, di raccontarci quello che stiamo vivendo. Ma con lo sguardo rivolto in avanti».

Carlo racconta di contatti con le istituzioni, di proposte per il futuro, di idee da mettere in campo subito, appena sarà finita l’epidemia. «Promozioni all’estero per dirne una, in sinergia con le amministrazioni locali». Alcuni colleghi sono disperati, hanno strutture piccole e devono pagare gli affitti: «Io non sono disperato, non so neppure se sono nella lista di quelli che dovranno chiudere. Ma non sono solo, ci sono persone che ti fanno stare davanti alla realtà. C’è un problema? Proviamo a risolvere, a cercare una strada». Parla di una compagnia di amici del movimento: «Della fede, che mi sostiene. L’altro giorno, facendo Scuola di comunità, si parlava del Battesimo come del momento in cui Cristo inizia la sua battaglia per possederti. Questa battaglia è anche ora».

Uno abituato a combattere e a rilanciare – da sempre ma ancora di più in questi giorni – è Fabio Marabese, ceo di Seingim, una realtà veneta che si occupa di progetti ingegneristici per grandi aziende e industrie, soprattutto in campo energetico, e cresciuta tanto negli ultimi anni.

«Clienti in Italia e all’estero, con 200 dipendenti in 8 sedi sparse nel Paese». Ora sono quasi tutti al lavoro da casa: «Quello che facciamo, in parte, lo consente. Era un progetto che avevamo iniziato a studiare, e siamo stati costretti a metterlo in pratica». Il problema principale, al momento, sono le fatture insolute dei clienti bloccati: «Se le banche non ci aiutano, come facciamo a pagare gli stipendi? Io me la posso cavare, ma tanti non ce la fanno». Tuttavia, il futuro può essere un’opportunità: «Ci sono gli aspetti negativi che sappiamo. Ma stiamo riscoprendo altri valori, anche nel modo di lavorare. Il fare squadra, per esempio, anche da casa. Dall’estero, ora ancora di più, ci guardano tutti: siamo quelli che sanno risolvere i problemi, lo abbiamo sempre fatto». Servono mosse decise delle istituzioni «per consentirci, adesso e anche dopo, di essere quello che siamo: imprenditori. Non possiamo perderci dietro a burocrazie e lacci. Oggi tanti sono soli, soprattutto i più piccoli. Occorre sostenerli».

Tra questi “piccoli” c’è la ligure Fratelli Bona Snc di Chiavari. «Io, mio fratello, un amico e un ragazzo che è con noi da poco», dice Samuele, classe 1980. Fanno ristrutturazioni e finiture di interni, un’avventura partita tre anni fa «tra mille fatiche, ma ci ho messo tutto quello che avevo». Ultimamente gli affari andavano bene: «Un giro di clienti, tanti preventivi e progetti». Ora è tutto un’incognita.

Per lavorare bisogna andare in cantiere, a contatto con idraulici, elettricisti... «Stamattina il nostro fornitore ha chiuso. E se non lavoriamo non ci pagano». La situazione è difficile: «Un caro amico è in ospedale, sono anche preoccupato per i miei», racconta. «Sono abituato all’incertezza, all’instabilità. Con un’azienda giovane è all’ordine del giorno, soprattutto all’inizio. Ma non ho mai rinunciato ad attendermi qualcosa, forse anche con ingenuità, da ciò che faccio». Parla di rapporti umani con fornitori e clienti «a costo di smenarci», di amore per la realtà, anche nel mettere lo scotch sullo zoccolino: «La gente se ne accorge. È qualcosa che ho imparato, che è diventato mio nel movimento, ma “paga” anche al lavoro». E puoi vedere qualcosa “per te” anche adesso: «Stamattina, andando a fare la spesa, ho visto che la gente, ora, ti guarda negli occhi, e magari ti sorride sotto la mascherina, mentre si cerca con imbarazzo di mantenere quel metro di distanza. Quel “per me” sta già avvenendo».

Tracce di aprile è online gratis

Vive la stessa cosa anche Mario Roncaglio, 45 anni, di Soresina, guida di una piccola fabbrica nel cremonese: «Facciamo cisterne in acciaio per il latte. Fin dalla fine di febbraio abbiamo avuto problemi». Quindici giorni in quarantena per lui, intanto, isolato da moglie e figli, per aver pranzato con una persona contagiata: «E tanti amici e conoscenti morti o ricoverati. Qui per tutti è così». Anche in azienda, in cui è rientrato «come si può» da pochi giorni: «La paura, i timori li hanno tutti, anche i miei dipendenti, pur abituati a lavorare con saldatrici e flessibili a grandi altezze». Gente con il pelo sullo stomaco, insomma, che l’altro giorno ascoltava in silenzio le parole di Mario, «che non sono uno che sa fare discorsi. Chiuderemo se ci diranno di chiudere», ha detto ai suoi “ragazzi”: «Qualcuno ha fatto obiezioni, anche malamente. Ma cosa vuoi dirgli? La paura è di tutti... Il punto è come ci stai davanti». Cioè? «Io, ancora di più oggi, mi alzo alla mattina e mi accorgo di esserci, di respirare. E che non è scontato. La domanda che sta nella paura, in fondo, a partire da quel “ma ne usciremo?” che tanti ti buttano addosso, è di qualcuno che ti stia vicino. Per non “schiodare”, non esplodere. Così l’altra sera ho provato a dirlo anche agli operai: “Guardate che la paura fa parte della vita, è giusto averla anche se passi sotto 20 tonnellate di cisterna. Ma fino a qua siamo arrivati tutti, come siamo”. Un po’ cretini, magari, qualcuno tirato via dalla strada... Insomma, guardando negli occhi la gente sempre più me ne accorgo: qualcuno fino a oggi ha pensato a noi, a me. Da qui si riparte. E si cammina».