Don Antonio Villa nel refettorio della sua scuola a Tarcento

Don Antonio Villa. «Meno di un minuto»

Metà della sua vita l'ha trascorsa a Tarcento, in Friuli, dove era arrivato per dare una mano ai terremotati. Non se ne è più andato. Ecco come si raccontava su Tracce nel 2016, a 40 anni dal sisma
Davide Cestari

Andrea si arrampica sugli alberi. Con le corde, sale su fino alla cima e ne misura l’altezza. Questo è il suo lavoro. Ha girato il mondo: California, Nuova Zelanda...Quand’era bambino i suoi genitori avevano un vivaio vicino a Tarcento, in Friuli. E avevano appena finito di ristrutturare la casa, quando è arrivato il terremoto. Alla prima scossa, tutti fuori in cortile. Alla seconda, l’edificio si apre in due. «È stato un istante, e ci sembrava che finisse il mondo», racconta Andrea: «Ci siamo ritrovati in giardino con i vicini e ci siamo organizzati subito per passare la notte nei tunnel delle serre. C’erano molti ragazzini della mia età. Mentre i grandi si davano da fare, noi guardavamo gli elicotteri atterrare nelle nostre terre. E ci divertivamo a salire sugli alberi. Forse è nata così la mia passione per le cime».

Il 6 maggio 1976, poco prima delle 21, una scossa del sesto grado della scala Mercalli colpisce una vasta area del Friuli. Dopo qualche istante, una seconda scossa tra l’ottavo e il decimo grado (una delle più forti mai registrate in Italia) rade al suolo interi paesi, tra le province di Udine e Pordenone. In poco meno di un minuto, palazzi, case, chiese e fabbriche vanno distrutti. Un migliaio di morti, circa tremila i feriti. Più di 60mila persone rimangono senza casa. Niente energia elettrica, acqua, telefono.

Don Villa distribuisce il pranzo ai ragazzi della scuola nata dopo il terremoto

Scatta immediata la gara di solidarietà. In molti arrivano in questa terra ferita per portare conforto e dare una mano. Oltre agli alpini, peraltro presenti con le loro caserme colpite, anche i Vigili del fuoco e l’esercito. La mobilitazione è generale, non si può stare a guardare senza sentire dal profondo il desiderio di fare qualcosa. Aiuti arrivano dalla vicina Jugoslavia, dall’America, persino dagli Emirati Arabi. Parrocchie, associazioni e movimenti cattolici si mobilitano subito. Così come organizzazioni, enti, partiti, semplici cittadini... Un intero popolo si muove, colpito dal dramma e dal dolore che stavano vivendo i friulani.

Anche don Giussani si precipita subito a Udine, offre la disponibilità di tutto il movimento di CL all’arcivescovo della città, Alfredo Battisti, che lo invita a dare aiuto direttamente ai parroci della zona. Alcuni universitari e ingegneri partono per creare un primo campo a Tarcento. Il 18 maggio, durante un’assemblea del movimento a Milano, si dà inizio a una mobilitazione che vedrà coinvolte più di 3mila persone che per tutta l’estate andranno (autotassandosi per non pesare sulle realtà locali) nelle tendopoli tra Gemona e Tarcento. Il 19 maggio don Giussani è su un pulmino con don Antonio Villa, canonico di San Babila a Milano, che ha dato la disponibilità a partire.

Arrivati, troviamo ad aspettarci monsignor Francesco Frezza che dormiva in tenda, un uomo semplice, che diventerà un padre per noi. Il Gius ci ha “consegnato” nelle sue mani: “Restate al servizio del parroco senza creare problemi di nessun genere, al primo segnale di disturbo ritornate immediatamente indietro”. Questa era l’unica raccomandazione».

A raccontare è “il Villa” o, come lo chiamava don Giussani, il “Villin”, 84 anni, sacerdote dal 1955. Una presenza che si fa notare. Una certa stazza, sempre in movimento. Una roccia, di quelle che se le metti al posto giusto ti tengono su bene tutta la costruzione. «Ci sentivamo impotenti. La prima ora che ero lì, mi dicevo: cosa sono venuto a fare? Era quasi umiliante. Poi il parroco ci ha mandato a tenere in braccio i bambini. Letteralmente. Dovevamo solo tenerli in braccio, perché nel campo c’era il fango e loro non avevano le scarpe adatte. La pioggia sembrava non finisse mai. Mi dicevo che era impossibile che non ci fosse niente da fare. Abbiamo iniziato a colorare le macerie perché fossero “belle”... Abbiamo fatto dei murales».

Iniziano a girare per il paese con i megafoni invitando i bambini alla Domus Mariae, l’oratorio parrocchiale dietro al Duomo di Tarcento. Don Villa chiede aiuto alla sede di Milano, che estende l’invito a tutta Italia. I turni al Campo Tre stelle durano 15 giorni e hanno come punto di riferimento Tarcento, ma poi ci si distribuisce nei campi dei paesi vicini. «Quando la gente arrivava, gli dicevo che se erano venuti per ricostruire il Friuli potevano tornare a casa. Noi dovevamo solo tenere i bambini. Per me era come la caritativa che facevamo nella Bassa milanese. Era una caritativa permanente, ad oltranza».

Le autorità pensano che ai bambini andrebbe risparmiato il dramma, tutta quella bruttura, e bisognerebbe portarli via. «Invece per loro era la possibilità di imparare ad affrontare una situazione difficile», si scalda ancora oggi don Villa: «Dalle macerie si doveva ricostruire qualcosa e questa era una vicenda importantissima anche per loro. Era come essere improvvisamente nel deserto: i tuoi bisogni sono tali e quali al giorno prima, ma non hai più niente per soddisfarli. E lì c’era da rivivere. O come scrisse una volontaria americana su un cartello, c’era da “imparare a vivere”».

Si inizia al mattino, un momento insieme con un canto e le ragioni della giornata: «Perché un adulto deve avere le ragioni per cui vale la pena iniziare la giornata e deve dirle anche al ragazzino che può non averle, è ancora assonnato. Ma gliele dice, così si inizia un cammino». Poi i giochi, lo studio, il pranzo insieme. «Li portavamo in giro a vedere la ricostruzione, perché c’erano delle maestranze che era uno spettacolo vederle lavorare. Una scuola a cielo aperto».

A fine giugno, solitamente, c’è la festa del patrono, san Pietro, che coinvolge tutto il paese. Nessuno pensa che ora ci sia un motivo per festeggiare. «La gente credeva fossimo matti. Ma non era una festa qualsiasi, era “la festa”. La festa religiosa del paese... Senza religiosità non si ricostruisce. Alla fine, c’erano un mare di persone, il Vescovo e tutte le autorità. Noi avevamo invitato Claudio Chieffo e altri amici».

A luglio nasce l’idea del pellegrinaggio. «Il Friuli lo scoprivamo piano piano, eravamo stati al santuario della Madonna a Castelmonte, sopra Cividale, un posto bellissimo e molto importante per quella terra. Per poterci portare tutti occorrevano dodici pullman. Ma sembrava impossibile trovarli. Alla fine siamo partiti in seicento, un caldo tremendo, ma una giornata indimenticabile. Un popolo che si scopriva unito». E così altre gite. Ad Aquileia a vedere i mosaici, in più di mille. Poi al Duomo di Udine: «Poteva cadere tutto... ma nessuno aveva paura e siamo entrati!». Neanche i bambini avevano più paura. «Vedevano un interesse vero a loro. Una novità. Un’amicizia. Erano contenti e scoprivano quel fattore che si chiama “gioia”. Per questo non temevano».

Passata l’estate, nessuno pensa al dopo. «Io non pensavo mai al giorno dopo. Ci eravamo impegnati a portare “una presenza fino alla completa ricostruzione”. Il manifesto che invitava alla mobilitazione aveva come titolo: “Dalle tende ai mattoni”. Non ci eravamo posti il problema di come andare avanti o quando andar via». Ma, a settembre, una nuova scossa rimette tutti in ginocchio. Il poco che era stato ricostruito viene raso al suolo. Lo sconforto è generale. Le autorità decidono per l’evacuazione e si propone alla popolazione di passare l’inverno sulla costa, per poter spianare e costruire. Si inizia la smobilitazione. Alla partenza, gli alpini, che si erano impegnati tantissimo, piangono.

Continua don Villa: «Alcuni genitori ci chiesero di rimanere. “A fare cosa?”, dicevo io... E loro: “A fare una scuola!”. Ma nessuno aveva idea di cosa volesse dire fare una scuola. Su un pezzo di carta iniziai a prendere le iscrizioni. Ci dicevano: “Se voi continuate a stare qui i nostri figli continueranno a essere contenti”. Cosa può chiedere di più un genitore? Vedevano i figli studiare in estate, mai successo! Così, non si sa come, siamo partiti. Avevamo in mente Il rischio educativo di don Giussani e ci sembrava che fosse tutto lì. Certo non avevamo pensato all’inverno, ai panni che non si asciugano, ai piatti congelati. Comunque, abbiamo iniziato». Prima in tenda, poi in un prefabbricato. «Si iniziava tutti insieme e si finiva allo stesso modo, ogni giorno salutandoci, come avevamo fatto tutta l’estate».

In tantissimi verranno ad aiutare negli anni a seguire. E alcuni non sono più andati via. Luciana, venuta da Cagliari appena laureata, subito dopo il terremoto, oggi è presidente della cooperativa. Eva è la preside delle medie: «Quando sono arrivata dalle Marche, nel 1977, don Villa mi disse che non c’era niente da fare e che potevo tornare a casa. L’indomani, mi propose di rimanere tutto l’anno. Ero affascinata da quello che si stava vivendo lì, ho rischiato, ho deciso di rimanere. Oggi sono ancora qui. Dopo quarant’anni. E sono contenta».

Anche il Villa non è più ripartito. «Non so esattamente quando abbiamo deciso di rimanere, ma è molto simile a quello che ci diceva don Gius. Era accaduto qualcosa che illuminava tutto. Un “bell’istante”. Meno di un minuto. E se lo fotografi, lo cogli, lo riconosci, quell’istante è per sempre. Ci vuole poco per riconoscerlo e quasi non ce ne siamo accorti. Un niente e non avevamo niente, come quando si nasce: non c’è bisogno di niente... Abbiamo provato a fare una scuola senza avere nulla, se non quella scintilla, come dice la canzone che è la sigla della nostra radio: Radio Camilla».

Dopo quarant’anni, oggi la scuola è in un edificio di mattoni e si è allargata con un nuovo salone che è il cuore della giornata. I ragazzi delle medie sono un centinaio. È una cooperativa gestita dai genitori, dagli insegnanti e dai ragazzi che sono coinvolti nella responsabilità di viverla insieme, ognuno secondo il proprio compito. «La scuola è un rapporto», continua don Villa che oggi è il “boss”, cuoco e riferimento ideale al tempo stesso: «Un rapporto impagabile, inestimabile. Per questo non abbiamo mai voluto mettere una retta, ci siamo arrangiati per trovare i soldi. Quello che portiamo non può avere un prezzo. La scuola è solo questo: un adulto che sa qualcosa e lo comunica agli altri. E noi abbiamo avuto la fortuna di incontrare un maestro da cui impariamo tutto».

Spesso gli chiedono come sono e cosa fanno i ragazzi dopo: «Io non lo so, mi preoccupo di essere vero con loro quando sono qui». Alcuni oggi fanno dei lavori bellissimi, come Andrea, che “vive sugli alberi”. Altri sono diventati imprenditori, magistrati, farmacisti... «Vengono ancora qui e portano i loro figli. Qualcosa accade, una scintilla c’è sempre. Tutto è così semplice, come ci hanno insegnato gli ultimi Papi e come sta testimoniando papa Francesco. Solo che “tutto” non è nostro. Non servono i ragionamenti o i discorsi. Ai ragazzi di oggi non basta una fede trasmessa come abitudine. È una vita, ma la vita è mistero, non si capisce: è come capire l’essere. O come quando si cerca di spiegare alcune parole ai bambini: cos’è il “nulla”? Il nulla è nulla... E cioè? O il “tutto”: cos’è il tutto?».

Ma c’è una scintilla, basta un attimo ed è per sempre, come ricordava don Giussani all’incontro per i dieci anni dal terremoto: si è partiti con una ragione più grande che non era rispondere al bisogno. E così, si è guardato a tutto senza misura. La carità costruisce per sempre: si parte, è un attimo e non finisce più.


Da Tracce, maggio 2016