Una festa de La Mongolfiera

La vita in Mongolfiera

Il desiderio di sostenere altri genitori con figli disabili. L’aiuto economico per la scuola. Il coinvolgimento con la vita dell’altro. Dall’esperienza di Davide e Sara è nata un’opera, che è un’amicizia (da "Tracce" di ottobre)
Paolo Perego

Si potrebbe parlare de La Mongolfiera come di tante altre associazioni che hanno scopi benefici, mettendo in fila qualche dato. Per esempio che da undici anni, sempre in crescendo, assiste e sostiene famiglie (quasi 180 oggi) con figli disabili attraverso bandi che ridistribuiscono i fondi raccolti con l’organizzazione di eventi e fundraising. Parliamo di circa 200mila euro dei 400mila che servirebbero per fare fronte a tutte le richieste di aiuto per pagare sostegno a scuola, terapie, attrezzature…

Oppure, su quella Mongolfiera ci si può salire, per conoscere qualcuno dei protagonisti. Da quelli della prima ora agli ultimi arrivati. A scaldare l’aria del pallone per farlo volare ci pensa la griglia, sempre accesa in questi anni a dar gusto ai momenti organizzati per raccogliere aiuti. Così ci troviamo intorno al barbecue di casa De Santis, una villetta a Castel Bolognese, a due passi da Imola, dove Davide e Sara hanno radunato alcuni degli amici incontrati in questi anni. In fondo, la Mongolfiera è nata qui, in questa casa, racconta Davide: «La vita era perfetta. Sposati da poco, la prima gravidanza, due gemelle Simona e Teresa... E poi la doccia fredda». Era il 2008. L’ecografia mostrava problemi: «Una, Teresa, non cresceva. Ci consigliarono un aborto selettivo. In quel momento sei come al buio, non capisci. Perché a me?». Ma c’erano gli amici, chi con lui vive l’esperienza di CL, respirata fin da bambino in casa, all’università, e poi con la Fraternità: «Come con Chiara, pediatra. Parlammo con lei, forse si poteva portare a termine la gravidanza». E così è stato, Teresa e Simona sono cresciute nella pancia della mamma. Un percorso difficile per Davide e Sara, mai da soli. Anche quando lei era ricoverata tra altre madri con gravidanze a rischio: «Ti accorgi che l’idea che si ha della maternità, qualcosa di naturalmente bello, non è scontata, che non va sempre bene. E che davvero un figlio è un dono». Teresa nasce sanissima. È Simona che finisce in terapia intensiva e si scopre che probabilmente si porterà dietro la disabilità. «Lì è successa una cosa. Ero in terapia intensiva da solo con lei, non mangiava da tre giorni. Piangeva disperata. Tu sei lì, la vedi. Ho cominciato a chiamare le infermiere, urlavo contro di loro e contro tutto l’ospedale, minacciavo di fare causa». Una volta Enzo Piccinini, chirurgo modenese morto nel 1999 e grande amico di don Giussani, aveva raccontato di come quest’ultimo lo avesse provocato su cosa voleva dire voler bene ai figli, dice Davide: «“Amare il loro destino”. E Destino, per don Giussani era Cristo. Ecco, quelle parole, all’improvviso, erano mie, lì davanti a quella culla. Quella bambina poteva essere salvata solo amandola così com’era. Ed era mio il fatto che c’erano gli amici, e che questa cosa non la portavo da solo».

Davide De Santis turante un torneo dell'associazione

Anche nelle questioni pratiche. Quando Simona inizia l’asilo, per esempio: è una scuola paritaria, dove per il sostegno ogni famiglia si deve arrangiare pagando di tasca sua l’insegnante. «Io ho chiesto una mano ai miei amici, alla mia famiglia. Ci hanno aiutati. Ma quanti genitori nella stessa situazione hanno bisogno e sono soli?». Ne avevano incontrati tanti, tra ospedali e centri specializzati. Tra una cena e una birra, Davide condivide con chi gli è vicino il suo struggimento per le altre famiglie. È così che, negli anni, la storia è cresciuta: da una cosa “tra amici” alla forma associativa con volontari, bandi, la collaborazione con le istituzioni, gli eventi, le cene, i tornei.

Non ci sono strutture fisiche per ora. «La nostra sede sono i rapporti che viviamo». Ma c’è una “regola”, perché non basta aiutare economicamente: i volontari dell’associazione sentono le famiglie che seguono una volta ogni due settimane e mangiano con loro una volta al mese. L’hanno chiamata La Mongolfiera, riprendendo un’espressione di Enzo: «Diceva che la sua vita era come una mongolfiera», racconta Davide, mentre serve costine e salsicce: «Quanto più s’innalzava, quanto più entrava dentro questa vita, tanto più scopriva aspetti dell’umano impensabili: amicizia, fedeltà, indomabilità. E parlava di una gratitudine per cui non aveva paura di donare tutta la vita».

Quella gratitudine la rivedi in faccia a Davide, quando a cena iniziano i racconti di chi ha incontrato negli anni. Come Alessandro e Fortuna, con il loro Christian di 16 anni. «Ho conosciuto Davide cercando aiuto in parrocchia», dice Alessandro prendendo in braccio Christian che non smette di abbracciarlo e accarezzarlo. All’inizio si trattava di un aiuto per fare delle terapie in America, ma poi «ho scoperto cosa sia l’amicizia. Quando vivi una difficoltà del genere, il problema non sono appena i soldi, ma non essere solo: avere qualcuno di cui fidarti, qualcuno che ti parli di speranza. E qui con voi, c’è qualcosa che mi fa essere “spensierato”, mi fa respirare». Lo incalza Salvatore: «Qui mi vogliono bene». Con sua moglie Marianna, frequentano da anni La Mongolfiera, per i problemi del figlio Diego: «Non riesco a staccarmi da questi amici. Ogni volta che li vedo, torno diverso, vado a lavorare e mi vengono in mente i discorsi con loro, sulla Chiesa, sulla fede, sull’educazione dei figli. E poi ci sono sempre». Racconta di un periodo di crisi prima del lockdown: «Vedevo tutto nero. Ho chiamato Davide e Marco, un altro amico. Poche ore dopo, eravamo davanti a una birra. “Ma se io non dovessi farcela? Se morissi? Chi penserà alla mia famiglia?”. E loro: “Noi ci siamo”. È bastato questo per me. Sono stato adottato, cresciuto tra collegi e riformatori. Con mio padre, medico, che alla nascita di Diego mi aveva detto di non affezionarmi, mia madre che eravamo stati incoscienti a farlo nascere… Poi arrivi qui e uno ti vuole bene».

Si sente voluto bene “Davidino”, 13 anni, anche lui con i suoi problemi, che offre a tutti la torta per festeggiare i Sacramenti appena ricevuti. Li ha chiesti lui, con insistenza: «Perché io voglio vivere nel bene». Il suo papà, Fabrizio, è andato in cielo l’anno scorso. Un grande uomo, un grande amico. «E un grande grigliatore», dicono qui. E non solo perché era bravo con la carne, ma «perché donava tutto se stesso anche in quello». Dice Cristina, la mamma di Davidino: «Lui era così. Ma perché qui, tra questi amici che ci hanno aiutato, abbiamo vissuto una gratuità enorme su di noi. E la viviamo ora». «Fabrizio ci ha lasciato il grande dono di suo figlio», dice Davide. E al ragazzo, in fondo, ha lasciato questa grande famiglia.

Francesco conosce Sharon undici anni fa: «Aveva già una figlia di 4 anni, Asia, con una disabilità. Ci siamo innamorati». Amici e conoscenti provano a metterlo in guardia dall’infilarsi in un rapporto complicato: «Una ragazza madre, per di più di una bimba con dei problemi. Io avevo la mia vita da trentenne, vivevo da solo, facevo quello che volevo. Per capirci, tutt’altro mondo rispetto a quello di Davide…». E invece? Francesco guarda Asia, che ora ha 15 anni, con la coda dell’occhio: «Invece ora sono qui, implicato in questa amicizia in cui ho trovato una umanità che non avevo mai visto». Poi racconta della sua passione per il padel e del torneo che ha organizzato a Bologna per La Mongolfiera, coinvolgendo vip e personalità. «Qui viaggiamo a iniziative», interviene Davide: «Grigliate, tornei, incontri… Come quelli del ciclo raccontato nel libro per i dieci anni (di Caterina Giojelli, Chiedimi se sono felice, Itaca). Il main event è un torneo nato come triangolare anni fa e che ora conta venti squadre di vecchie glorie, ordini professionali, corpi dello Stato, aziende…».

Gli scoraggiamenti e le fatiche ci sono, «ma c’è qualcosa…», riprende Francesco: «Per esempio, ho provato a insegnare ad Asia ad andare in bicicletta per mesi. Zero. Poi lei va al mare con la nonna. E mi arriva un video di lei che pedala. Mi sono messo a piangere. Tu provi a fare del tuo, ti impegni. E quando pensi che sia un fallimento, che non ce la fai, capita sempre qualcosa che… ti ripiglia. Non so bene cosa sia. Ma c’è».

«Quando ci siamo trovati in difficoltà con le gemelle è stato lo stesso per me», dice Sara, la moglie di Davide: «Nella fatica, nel dolore, da solo non ne esci. Ma proprio lì, nel punto più faticoso, ricevi una grazia che non ti sei meritato. Quello che ha salvato noi è stato qualcuno che ci veniva a riprendere ogni volta che arrivavamo a non farcela più. E prendeva sul serio e su di sé quello che stavamo vivendo».

Tanti di quegli amici sono quelli che ancora oggi li accompagnano nell’avventura della Mongolfiera. Negli anni, se ne sono aggiunti altri: «Non saprei dire quanti, onestamente», sorride Davide. C’è Marco, imprenditore, uno della prima ora: «Anche se non sono così implicato operativamente, vedo ciò che accade. Il bisogno di uno è diventato un’opportunità per tutti: questa è l’espressione più compiuta dell’amicizia». E tocca ogni aspetto della vita. Come per Chiara, la pediatra di cui raccontava Davide: «In reparto, davanti al bisogno di pazienti e famiglie, davanti alla loro domanda di felicità, ti accorgi che la risposta non può essere solo una cura. Perché magari puoi aiutarli solo fino a un certo punto. Ma chi può rispondere allora? Chi compie quel desiderio? Per me è sempre più chiaro che la Mongolfiera è un luogo in cui è possibile scoprirlo».

Lo stesso vale per Isacco, che parla di un’idea di amicizia ribaltata, che si apre e che ha come orizzonte il mondo. «L’opera, se si può chiamare così, non è “tua”, ma di chi si coinvolge, al punto da farla sua, e spesso è gente che arriva da altri mondi che si dona nel darti una mano», aggiunge Paolo, che si occupa della parte più tecnica e amministrativa dell’associazione: «Ti chiedi qual è l’origine e cosa ci tiene insieme». Perché i conti non tornano se la misura sono le capacità o le intenzioni. Vedi Fabio, per esempio: «Quando Davide mi ha chiesto se anche da me, a Forlì, ci fosse qualcuno che aveva bisogno di una mano, io ho storto il naso. Non è nelle mie corde…». Ma ti fidi di chi te lo chiede, della sua amicizia e «in due abbiamo cominciato. Magari non sei capace di fare le cose per bene, ma quel “poco” che fai diventa punto di memoria di quanto diceva Paolo. Cosa vale? Cosa tiene nella vita?». Lo stesso accade a Rimini, con Maria Grazia, che di fronte all’impossibilità di pagare il sostegno per la figlia ha visto muoversi le famiglie della scuola tra iniziative e cene per raccogliere soldi: «Che il mio bisogno possa diventare il bisogno di tutti, che altri ti accompagnino è stupendo. È un dono al mondo». E poi a Ferrara, dove ci sono Enrico e sua moglie, dopo la perdita di un figlio appena nato l’anno scorso. Un incontro casuale, quello con Davide e i suoi amici. «Ma rivoluzionario. Di quelli che ti fanno “tornare” a cosa ha preso te nell’incontro con don Giussani e il movimento. Per cui è subito “sì”, quando ti propongono di aiutarli, lì dove sei».

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«È un’amicizia che si allarga e non smette di convertire me», dice Tommaso, compagno di Davide all’Università di Bologna e che ora vive a Monza: «Qui non c’è La Mongolfiera, con mia moglie non siamo “operativi”. Ma vivere il rapporto con loro ci ha aperti a nuove amicizie». Con Samuele, per esempio, di Milano. Ha un figlio con disabilità, ha letto il libro del decennale e ha scritto una mail: «Avevo le stesse domande di Davide: perché a me? Mio figlio potrà essere felice? E io?». Pochi giorni ed è finito a cena da Tommaso: «E abbiamo fatto un incontro a Milano. Oltre ogni attesa, c’erano 250 persone…».

«Io non sono legato a loro per loro, ma perché ho vissuto una cosa grande io», dice Davide guardando i suoi amici, vecchi e nuovi: «Ho scoperto, e scopro ogni giorno, che abbracciare quello che hai davanti è abbracciare chi te lo dà, Cristo. Tua figlia è un tesoro. Don Giussani ha portato a me e alla mia famiglia qualcosa di incommensurabile: ha dato un nome, un volto a Chi dà il tesoro, a Chi ti dà tutto».