La caritativa alla Casa Gialla di Kayrós, alle porte di Milano (Foto Giovanni Dinatolo)

Kayrós. «Il fare per gli altri è nudo»

Una sera con chi prepara la cena per i ragazzi accolti da don Claudio Burgio. Su Tracce di Aprile, il racconto della caritativa nella comunità alle porte di Milano
Paola Ronconi

C’è una caratteristica nelle case di Kayrós: non ci sono coltelli. E se decidi di fare il risotto con la zucca per la decina di abitanti della Casa Gialla, la devi sbucciare e tagliare con il coltello da tavola prestato dalla casa accanto, di quelli con la lama stondata. Quindi, l’impresa è ardua, ma la sicurezza, per i ragazzi ospitati e per chi viene a cucinare, ha la precedenza. Siamo a Vimodrone, periferia di Milano. Qui da don Claudio Burgio (che molti lettori di Tracce conoscono) è nata Kayrós, una residenza per minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i minorenni, dai Servizi sociali e dalle Forze dell’ordine. Oggi accoglie ragazzi con procedimenti penali in atto, in collaborazione con il Centro di giustizia minorile di Milano. La Casa Gialla è quella che ospita i nuovi arrivati, quindi dove ci sono i più giovani, ma non solo, spesso i più ribelli. Gli spazi interni portano i segni degli umori degli abitanti: sulle porte e sui muri, le impronte della rabbia. All’appello manca qualche sportello della cucina. Un educatore passa con una tavoletta del water nuova…

Stefano e Agnese sono di casa. Lui dottorando in Fisica, lei insegnante di Matematica, ogni due settimane vengono a preparare la cena per i ragazzi. Da qualche anno diversi gruppi si alternano qui a Kayrós in caritativa, a cucinare. Sono le 19. Prima di darsi ai fornelli, leggono Il senso della caritativa. In piedi, appoggiati al bancone della cucina: «La carità è legge dell’essere e viene prima di ogni simpatia e di ogni commozione…». Si affaccia qualche ragazzo. Un saluto veloce, una stretta di mano, poi sparisce. «Il fare per gli altri è nudo e potrebbe non esserci nessun risultato cosiddetto “concreto” – per noi l’unico atteggiamento “concreto” è l’attenzione alla persona», si legge.



«Carità, attenzione alla persona», ripete Stefano, e commenta: «Ma questo basta veramente? No, per i miei parametri, nell’amare ci vuole un riconoscimento, che l’altro in qualche modo lo percepisca, e contraccambi. Se io ho attenzione a te e tu manco te ne accorgi, io mi chiedo se sto sbagliando qualcosa. Ecco, qua siamo costantemente davanti al fatto che siamo trasparenti, è raro che entrino in rapporto con te». È una bella provocazione con cui fare i conti: «Mi chiedo: cosa c’entrano queste serate a Kayrós con la mia vita, con la mia fidanzata?». C’entrano per imparare un altro modo di voler bene: gratuitamente. Una volta don Burgio parlando con loro che vengono in caritativa diceva che i suoi ragazzi hanno bisogno della “normalità”, gente che si tratta in modo “normale”. Perché loro hanno sempre vissuto in contesti violenti, in situazioni drammatiche. Ma anche capire cosa voglia dire “normale” non è scontato.

«Raramente ci dicono “grazie”», e Agnese sostiene che capita quando mangiano particolarmente bene... Una volta Myrko (i nomi sono di fantasia), un ragazzo rom, ha accettato di cucinare con Stefano. Quella sera friggevano, ma lui ha buttato tutte le patate tagliate in una volta sola. L’olio si è raffreddato. Risultato: una poltiglia gialla. Dopo cena, Stefano gli dice: «Non è venuto buonissimo, ma ti è piaciuto cucinare con me?». «No, mi ha fatto schifo». Però lui non ci è rimasto male. Forse perché sta imparando che «non siamo noi a farli contenti», come dice il libretto. Il fare per gli altri è nudo e crudo.

Agnese da settembre insegna in un liceo che è noto per essere la scuola dell’élite milanese, gente molto ricca. «I miei studenti hanno problematiche apparentemente diverse da quelle di chi vive qui. Ma al fondo sono soli anche loro. Hanno tanti soldi, i vestiti di marca che i ragazzi di Kayrós vorrebbero, ma la fatica del vivere la vivono per conto loro». E per Agnese lo scarto tra una sua classe e questa cucina, tra ragazzi che hanno tutto e altri che spesso fuori da qui non hanno nessuno, è una sfida: «Io vengo in caritativa e il giorno dopo mi chiedo: “Ma cosa ho visto?”. Magari solo tanta rabbia. Per cui poi davanti ai miei alunni ho un desiderio: voglio che incontriate al mattino qualcuno che vi vuol bene. Ecco perché preparo la cena qui a Kayrós. Per impararlo».

In cucina entra Alex, ogni falange delle mani un tatuaggio. Una croce disegnata anche accanto all’occhio. Tiene il cappuccio della felpa in testa. È più taciturno del solito. Non è molto in forma, non farà neanche due tiri a calcio con gli altri dopo cena, ma quello sguardo… Gli occhi non raccontano cosa ha visto nella sua giovane vita, ma dicono di un abisso riempito fino all’orlo di cose sbagliate, di bisogno di riscatto. Però sempre abisso rimane. Solo un bene esagerato può riempirlo e pacificarlo. Un po’ come la samaritana. L’aveva riempito, il suo vaso, di cinque mariti. Ora ci provava con un po’ d’acqua. Finché arriva Lui.

Una sera, raccontano, «un educatore ci dice: “Per lui non è serata, lasciatelo stare”, indicando Samir, seduto in un angolo». Quel giorno era morto un suo amico investito da un treno. Stefano gli chiede ugualmente se vuole parlarne: «Ma ti frega veramente?», dice lui. Quando si sente rispondere «sì», estrae dalla tasca dei jeans una foto. È il suo amico. «Neanche una bella tipa mi tirerebbe su». Quella sera Agnese capisce le parole del libretto: «Qual è il bisogno altrui? Ciò di cui hanno veramente bisogno non lo so io. È una misura che non possiedo io: è una misura che sta in Dio».

LEGGI ANCHE - Il contraccolpo di qualcosa di grande

Intanto, il risotto borbotta. Accanto, in un’altra padella sfrigola la salsiccia per chi non è musulmano. Stefano e Agnese si occupano anche di preparare la tavola. Non ci sono due piatti uguali, devono aver fatto una brutta fine. Tutti seduti, il risotto è apprezzato. Intanto i discorsi sono dei più vari, e molto coloriti. «Vi devo dire una cosa», interrompe Stefano alzandosi per dare un annuncio: «Ho dato l’anello alla mia ragazza. Mi sposo!». Congratulazioni e qualche applauso poco convinto. Dai commenti di chi è seduto intorno al tavolo si capisce che è una cosa così lontana, sposarsi, non solo perché sono giovani, ma perché è così “normale” da sembrare impossibile

È ora di andare. Si risale in macchina per tornare alle proprie case. Nella mente rimangono i volti, gli occhi. Uno struggimento al pensiero di ciascuno di loro. Così ritornano al cuore le parole di un amico: «Che qualcuno si innamori di ciò che ha innamorato noi! Ma perché sia così, dobbiamo ardere di passione per l’uomo, perché Cristo lo raggiunga».


La lettera
«Li ho accettati come sono e siamo cambiati assieme»
A settembre di tre anni fa, la mia amica Elena mi ha proposto di andare a cucinare insieme a lei a Kayrós. Da tempo pensavo di ricominciare a fare caritativa, senza mai prendere una decisione. Davanti al suo invito, ho scelto di andare.
L’inizio è stato difficile: il mio problema era cosa dire e cosa fare. Ma che sarà mai?!, mi dicevo: Ho quattro figli, saprò bene come trattare questi ragazzi! Invece, tutt’altro. Arrivavamo, cucinavamo, mangiavamo con loro, ce ne andavamo. Mi sentivo trasparente, come se non ci fossi. Frustrante è dir poco. I ragazzi stavano a tavola giusto il tempo di mangiare, avanzavano cibo, urlavano tra loro e agli educatori. E io stavo più con gli educatori che con loro.
Nel tempo, il numero delle persone che vengono in caritativa è aumentato, così ci siamo divisi in gruppi. E, sempre nel tempo, i ragazzi hanno iniziato a cambiare. O forse a cambiare sono stata io: a un certo punto, mi sono accorta di non avere più il problema di cosa dire e cosa fare, ho iniziato a stare con loro e basta, e forse anche loro se ne sono accorti. Ricordo la prima volta che, mentre me ne andavo, uno mi ha detto: «Ciao, Lidia». Mi sono commossa, infatti l’ho scritto sulla chat degli amici.
Sono passati tre anni e mezzo, durante i quali quasi ogni settimana sono lì a cucinare. Abbiamo fatto anche le vacanze insieme, sempre a cucinare; si sono avvicendati molti ragazzi: alcuni vengono mandati a casa, altri compiono nuovi reati e tornano in carcere, ne arrivano di nuovi. Questo, paradossalmente, mi aiuta ad andare a fondo del gesto stesso, che è bellissimo. Tanto che poi fiorisce con loro anche una confidenza che permette di scherzare, abbracciarli, sorridere, anche rimproverarli, a volte. A tavola si riesce a parlare anche di cose importanti, come i progetti, il futuro… Fanno fatica a proiettarsi nel tempo, molti sono feriti da esperienze familiari dolorose. Ogni tanto escono pezzi di umanità e, per un attimo, qualcuno si lascia andare e racconta qualcosa.
Un giorno sono andata insieme a un’educatrice a parlare con i professori di uno di loro, che rischia di perdere l’anno; mi sono mossa per attivare l’alternanza scuola-lavoro e, quando lui lo ha saputo, mi ha detto: «Sono rimasto colpito, non pensavo arrivassi fino a questo punto!».
Un altro, che dice di non fidarsi di nessuno, scrive canzoni (tra loro molti lo fanno, sono rapper) e ogni tanto ci fa ascoltare i suoi testi; quando mi vede sorride, a volte mi abbraccia.
È un’esperienza densa e fatta di cose semplici. Anche il rapporto con le educatrici si è approfondito, nonostante il turnover. Stare con i ragazzi non è facile per nessuno, neanche per i professionisti, nemmeno l’università prepara a un’esperienza tanto intensa.
Con le amiche del nostro gruppo di caritativa, abbiamo l’abitudine di raccontarci dopo ogni serata le cose belle o faticose accadute. Questo aiuta ognuna di noi ad alzare lo sguardo e avere sempre presente il perché andiamo lì.
Lidia