TJ Berden sul set di uno dei suoi film

Con il cuore al lavoro/2. Miracoli a Hollywood

Americano di Los Angeles, produttore e sceneggiatore, TJ porta sul grande schermo storie come "Full of Grace" e "Paolo, apostolo di Cristo". Qui spiega che cosa significa fare cinema su questi temi, provando ad arrivare al cuore di tutti
Anna Leonardi

The village voice, la storica rivista culturale della sinistra newyorkese, lo ha definito “un miracolo”. Ed è forse una delle recensioni del suo ultimo film, Paolo, apostolo di Cristo, di cui TJ Berden va più fiero. Il film, uscito negli Usa nel 2018 e proiettato sugli schermi italiani nel 2019, è una produzione della Odb film, casa cinematografica californiana specializzata in temi religiosi, di cui TJ è vice presidente e produttore. «Credo che con “miracolo” non si riferissero tanto al film in sé, quanto a qualcosa che hanno scoperto dentro al film e che li ha spostati da alcuni pregiudizi», spiega TJ, nato a Los Angeles 34 anni fa e battezzato con due iniziali che da quelle parti non destano alcuna curiosità. «C’è un punto originale da cui prendiamo le mosse e che cerchiamo di mettere dentro al nostro lavoro che non è una semplice premessa religiosa. È qualcosa a cui vogliamo dare spazio, che lasciamo accadere nel film, permettendogli di cambiare tutto: trama, personaggi e spettatore», racconta TJ, sorpreso che di tutto ciò si accorgano più facilmente i non credenti, come si intuisce leggendo le pagine di The village voice: «È un film che chiede di essere preso sul serio, che è la posizione più dura per un ateo perché è un film che non evade la complessità. Quando san Paolo pronuncia le parole sulla carità della Prima Lettera ai Corinzi - che noi siamo abituati a sentire ai matrimoni condite dai soliti sguardi languidi - nel film ci si accorge che quelle parole sgorgano da un uomo vero, provato, in attesa della propria esecuzione. La misericordia qui diventa reale».

Il regista Andrew Hyatt con Jim Caviezel sul set di “Paolo, apostolo di Cristo”

C’è una fase del lavoro che precede la realizzazione dei film che è forse la più delicata. E spesso anche più lunga delle riprese. «È una fase di perlustrazione che abbiamo chiamato “esplorazione creativa”», racconta TJ, che, da giovane e promettente attore di teatro a Chicago, si lasciò tentare dall’industria del cinema e ritornò a Hollywood dove iniziò a fare la gavetta in diverse produzioni, tra cui The tree of life di Terence Malick. «Io non scrivo, mi occupo di sviluppare le sceneggiature per renderle funzionali. È un lavoro simile a quello di un architetto, devo individuare il punto di appoggio della storia e cosa le permetterà di crescere. Nel fare questo, mi lascio guidare da due domande: “Qual è la cosa più vera che possiamo raccontare? Cosa è più probabile che sia accaduto?”. È un cammino che parte da un’immedesimazione coi fatti e i personaggi che vogliamo raccontare».

Con il film su san Paolo è stato così. La sceneggiatura iniziale era di 140 pagine, che sullo schermo equivalgono a 140 minuti: TJ e la sua squadra sono arrivati a 90 a suon di domande, scartando quello che non serviva e trattenendo solo ciò che funzionava. Un lavoro di rifinitura che è durato due anni. «Volevamo toccare l’aspetto più interessante della vita di Paolo, cioè il suo cambiamento da carnefice a vittima. Il limite di certi film epici è che l’umanità dei personaggi viene un po’ messa da parte. Io ho voluto prendermi cura di Paolo in modo da poter far emergere la profondità della sua persona e far vibrare in lui quello che Giussani chiama “il senso religioso”. È venuto fuori un personaggio vivo, segnato dal peccato, ma proprio per questo profondamente autorevole». L’intero film è stato girato a Malta e TJ ha voluto che la troupe e gli attori (tra cui Jim Caviezel, il Gesù in The passion di Mel Gibson, che qui veste i panni di san Luca) si lasciassero ispirare dal dipinto di Caravaggio conservato nella cattedrale di La Valletta. «La Decollazione di San Giovanni Battista è un’opera scioccante: è orribile e bella nello stesso tempo. Anche noi abbiamo cercato di dipingere le scene più violente del film provando a tenere quel livello di dignità e di bellezza nel racconto. Abbiamo utilizzato una camera speciale per creare sequenze in super slow motion, proprio per dare l’effetto di un dipinto in movimento».

Anche Full of Grace, girato tre anni prima nella brulla natura californiana, è venuto alla luce seguendo lo stesso cammino. Il film racconta gli ultimi giorni di vita della Madonna, scanditi dal dialogo serrato con Pietro, turbato dai numerosi problemi che affliggevano le prime comunità cristiane. Il lavoro sulla sceneggiatura, giorno dopo giorno, ripartiva sempre da una domanda che TJ proponeva a tutta la squadra: «Come l’incontro con Cristo ha continuato a segnare le loro vite? Come hanno potuto seguire, dopo che Cristo se n’è andato?». «Il lavoro di quei mesi assomigliava tanto a una Scuola di comunità», ricorda TJ. «Ho ancora in mente il regista, Andrew Hyatt, e il produttore esecutivo, Eric Groth, seduti in ufficio immersi nella lettura de All’origine della pretesa cristiana di Giussani. Per loro l’idea di cristianesimo come incontro era qualcosa di rivoluzionario e la volevano dentro al film».

Ed è proprio l’idea di incontro che segna la svolta della trama. Gli apostoli iniziano a farsi carico di tutto solo per quella esperienza di pienezza che nasce dal rapporto con Gesù. «Per questo nel film ci sono sei flashback che riportano Pietro a quel primo giorno in cui si è sentito chiamare per nome dal Signore. Lui non poteva continuare a vivere senza ritrovare quello sguardo». Un’ora e dieci minuti di film, girato con pochissimi soldi e in pochissimi giorni, imbastito “solo” su questo avvenimento. «Abbiamo ridotto tutto all’osso, prendendoci un bel rischio. Ci siamo chiesti mille volte: “Ma questo basta? E questo, invece, è davvero necessario?”. L’unica cosa chiara a tutti, però, era che non c’è idea più forte, per spiegare come accade la fede, dell’innamoramento. Non vuoi bene perché lo studi sui libri, ma ti imbatti in una persona che suscita in te il desiderio di rimanere con lei. E il pubblico ha apprezzato questo modo esistenziale di vivere la fede».

TJ con il produttore esecutivo del film su san Paolo, Eric Groth

Oggi TJ Berden sta lavorando a una nuova produzione. La vita di san Patrick, patrono d’Irlanda, è stata passata meticolosamente al vaglio di tutta la squadra. «È un personaggio spesso frainteso, ridotto alle parate e alle celebrazioni nei vari Paesi anglosassoni», spiega TJ. «In un momento storico come il nostro, dove il cristianesimo rischia di non essere in grado di attrarre gli uomini, mi interessa scoprire la natura della fede di quest’uomo. Perché fu in grado di affascinare le popolazioni celtiche?». Nella biografia del santo c’è un buco temporale che nessuna fonte storica è mai riuscita a ricostruire. Rapito all’età di 16 anni, tornò a casa dalla sua famiglia sei anni dopo, con la fede. Come e perché, nessuno lo sa con certezza. È proprio all’altezza di questo anello mancante che si sono concentrate le domande degli sceneggiatori: come Dio è entrato nella sua vita? Cosa gli è accaduto? «Certo, potevamo immaginarci un Dio che gli parla: sarebbe stato qualcosa di compatibile con la cultura del suo tempo, ma ci siamo chiesti se una modalità del genere può ancora suggerire qualcosa di significativo all’uomo d’oggi. E così abbiamo rischiato», racconta TJ, facendo attenzione a non svelare troppo della trama. «Il “nostro” Patrick è un uomo molto moderno che ha rifiutato la fede dei padri, ma l’ha riscoperta, riguadagnata attraverso un cammino fatto di libertà e ragione».



Nel 2008, anche la vita di TJ interseca un fatto che gli farà percorre strade inaspettate. Si trovava a un party in un locale di Los Angeles, con i soliti amici. Davanti alla quarta birra, gli animi si scaldano. «Non so perché, ma in quella occasione avevamo cominciato a parlare di grandi temi etici e del Papa. I miei amici sapevano che ero cattolico, e ogni tanto mi stuzzicavano». Attorno a loro si forma un piccolo capannello, una ragazza piena di tatuaggi ascolta con interesse gli argomenti di TJ. A fine serata gli si avvicina e gli dice: «Senti, tu dovresti incontrare delle persone, sono di Comunione e Liberazione».

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Lui non sa di che cosa stia parlando, ma la settimana dopo va con lei ad un incontro. «Lì conobbi Carlo e diventò mio amico. Un amico come non avevo mai avuto. Andavamo ai concerti, al ristorante, alle partite. Era attento ai bisogni di tutti e amava il suo lavoro. Presto mi accorsi che si godeva la vita davvero, per quel rapporto unico che viveva col Mistero». È stato l’incontro che lo ha reso certo della sua fede. E che nel tempo, lo ha tenuto sempre di più incollato alla strada che rendeva questi amici così interessanti. «In fondo, nei miei film, non ho fatto altro che raccontare ciò che mi è accaduto quel giorno».