(Foto: Ricardo Arduengo/afp/Getty Images)

Una strada per Haiti

L’assassinio del Presidente, la corruzione, i rapimenti, il Covid, il terremoto. Il Paese è in una situazione estrema. Qui le Tende Avsi di quest'anno aiuteranno progetti di aiuto all’infanzia e alle famiglie (da Tracce di dicembre)
Davide Perillo

Il trenino è partito anche stamattina. Tutti in piedi alle cinque: acqua, sapone, colazione. E poi in fila, davanti al portone che si spalanca e li fa uscire dalla missione per attraversare le baracche di Waf Jeremie, verso la scuola dei salesiani. Ottantotto bambini, dai 5 ai 13 anni. Compreso Jefferson, che non ha più un femore. O Daniela, che è senza un piede. «Ho sempre guidato io, ma non posso più azzardarmi: troppo rischioso per una donna bianca», racconta suor Marcella Catozza con una voce che arriva piena e rotonda anche quando la linea zoppica: «E gli autisti ormai hanno paura di lavorare per gli stranieri». Risultato: i bimbi vanno a scuola senza pullmini, solo una scorta di educatori. E lei resta lì ad aspettare che tornino all’ora di pranzo, «affamati e bellissimi, quando ti corrono incontro per dirti che hanno preso un bel voto o sono in lacrime perché è arrivato un 4 e magari una bastonata. Sai, qui si usano ancora…».

Ad Haiti, ormai, si vive così. Era già nella lista dei Paesi più poveri del mondo (al numero 16, per reddito pro-capite), negli ultimi mesi è peggiorata. La crisi sociale e politica si è incancrenita, dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moïse, il 7 luglio scorso: le istituzioni sono debolissime, la corruzione è pari solo alla sfiducia. A controllare le città, ormai, sono le bande armate, come i 400 Mawozo o i G9 An Fanmi: in molti quartieri la polizia non entra, le statistiche ufficiali dicono che dall’inizio dell’anno ci sono due rapimenti al giorno, la realtà suggerisce di moltiplicare almeno per quattro. Aggiungeteci il Covid e un terremoto che il 14 agosto ha colpito il sud dell’isola (2.500 vittime, ma qui la gente dice che sono molte di più), e il buio diventa fitto.

«Non si capisce dove stiamo andando», dice suor Marcella, missionaria francescana: «Io vivo qui da 17 anni, ma è la prima volta che sento un’incertezza così grande sul futuro. Nessuno si interessa di nulla. Come ne usciamo? A che vita stiamo preparando i nostri bambini?».

Nel “Villaggio Italia” e nella casa Kay Pè Giuss ce ne sono 145, dai 3 ai 18 anni. «Erano 150, ma due sono morti e tre sono riusciti a rientrare in famiglia». Li seguono settanta persone, tra educatori e staff a supporto: mandano avanti una scuola materna, le residenze per i bimbi disabili («sono 32: lo splendore della missione»), le attività per i più grandi, quelli che escono per andare a scuola e poi ritornano qui, in una piccola oasi di bellezza che la gente di Port au Prince continua a vedere come un posto sicuro, ma in realtà è appesa a un filo, come tutto. «Le richieste aumentano, abbiamo bebè in lista di attesa, molti sono denutriti: li prenderesti tutti, ma come fai? Non siamo in grado di accogliere, ora. C’è gente che rischia la vita per venire al lavoro o che si ferma a dormire qui, perché non può tornare a casa col buio. Non possiamo appesantire il loro carico prendendo altri bimbi».

In queste giornate difficili, in cui «la mattina non sai se troverai il pane per tutti o, se l’idraulico sbaglia una martellata, devi chiudere l’acqua per giorni, finché non recuperi un rubinetto di ricambio», suor Marcella racconta che si vive come sospesi: «Si canta, si ride, si fa una festa di compleanno magari con tre patatine, perché non hai trovato altro; la voglia di vivere c’è, non siamo terrorizzati. I capi delle bande li conosco da quando erano bambini, hanno rispetto per la nostra storia. Ma se decidessero di entrare e prenderci tutto, potrebbero farlo in un minuto». La fatica della gente è enorme. «Pensa che una nostra maestra, oggi, è arrivata in barca. Vive a Martissant, un quartiere lontano: ha preferito allungare il giro e passare dal mare, pur di non attraversare Waf Jeremie».

Martissant. È la stessa zona di cui ti racconta Fiammetta Cappellini, che invece lavora per Avsi. La ong è ad Haiti dal 1999, quest’anno ha scelto l’isola caraibica tra le realtà sostenute dalle Tende di Natale, la raccolta fondi annuale. A Martissant c’è un progetto seguito da un piccolo ufficio, rimasto vivo anche quando intorno ci sono stati scontri pesanti. «Una guerra tra bande, ma hanno attaccato pure i civili: di solito non succede», racconta Fiammetta: «Sono scappati in tanti, migliaia di persone rifugiate in un’altra periferia. Noi siamo andati per dare una mano. E abbiamo trovato vecchi e bambini che dicevano: “Sapevamo che sareste venuti”. Avevano in mano la tessera del nostro progetto». Scalzi, buttati fuori di casa, senza niente, ma con quel pezzo di carta che aveva un valore enorme: «Era il segno che qualcuno si sarebbe occupato di loro, voleva dire speranza. Mi ha colpito molto».

Le Tende 2021 ad Haiti aiuteranno progetti di aiuto all’infanzia, sostegno alle famiglie e una presenza che, in generale, è cambiata molto: «La nostra vocazione è lo sviluppo, non nasciamo come ong di risposta alle emergenze», dice Fiammetta: «Ma qui, in qualche modo, lo siamo diventati, perché la differenza è sempre più difficile da tracciare. Tanti interventi si sono convertiti in supporto a bisogni primari: distribuzione di cibo, kit per la sicurezza alimentare, voucher sanitari. Sono indispensabili nell’immediato: però sai già che, finita la crisi, la situazione generale non sarà migliorata».

Anche per la Chiesa sono tempi duri. «Gli haitiani sono un popolo religioso», dice Fiammetta: «Difficile svincolare fede e vita sociale. La Chiesa resta un punto di riferimento: ha una rete di attività educative, c’è la Caritas. Ma pure loro sono sempre più poveri». In più, il terremoto ha colpito duro: «Sono crollate chiese e scuole. Noi lavoriamo con l’Università Cattolica, per dire: la facoltà di Scienze infermieristiche è completamente distrutta. L’Arcivescovado del Dipartimento Sud è venuto giù. Persino il Cardinale è rimasto ferito». È Chibly Langlois, vescovo di Les Cayes e primo porporato della storia di Haiti.

Eppure, anche in questo caos si aprono spazi per quello che resta il lavoro più importante di Avsi, il più necessario: l’educazione. «Cerchiamo di riconvertirlo: dai progetti strutturati, come i centri educativi, al rapporto diretto con le comunità. Che per certi versi si è addirittura rafforzato». In tanti posti, in particolare nelle zone rurali a sud, si sono avviati piccoli centri di ascolto: si va lì e si parla con la gente, per raccogliere le loro necessità e rispondere come si può, ma soprattutto per fare sapere che non sono soli. «Troviamo chi ci aspetta anche solo per parlare. E sono persone che soffrono, molto».

È qualcosa a cui non ci si abitua mai: «Ci si adatta al lavoro che aumenta, al fatto che non ci siano pause, alla necessità di non essere reattivi. Ma l’abitudine a vedere soffrire la gente, no. Il dolore ti prende alla stessa maniera. Ti fa venire un sacco di domande. Perché sempre loro? Perché questo Paese?». Dice che «la risposta non sta a noi. A noi tocca fare quello che possiamo e chiedere che questo popolo non sia dimenticato: “Vabbè, è Haiti, lo sappiamo…”. Ecco, di fronte a reazioni del genere scatta la rabbia».

Che spazio c’è, in un posto così, per la speranza? «Qui la dicono con parole diverse», dice Fiammetta: Espoir è l’attesa basata su qualcosa di concreto, dei segni. Espérance, invece, è il voler credere che le cose andranno meglio. Oggi forse l’espoir non è di grande attualità. Ma l’espérance resta forte. La trovano nelle famiglie, nei bambini. Nel sentimento di dover rispondere ai loro bisogni e farli crescere». E tu, dove la trovi? «Preferisco chiedermi qual è il nostro dovere. Ed è quello di restare».

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È un verbo che usa anche suor Marcella. A lei non è venuto mai in mente di andar via. Non è successo quando ha dovuto riportare i suoi bambini ad Haiti, dopo due anni passati in Italia, perché erano scaduti i permessi e si erano chiuse porte che parevano aperte. Non succede ora, nella crisi più buia di sempre. «Guardo Chico, l’unico che ha 18 anni e ormai pensava di fermarsi da voi, o gli altri più piccoli, e sento tutto il dramma. Desidero qualcosa di grande per loro, e non so: non so se riusciremo a vivere, non so cosa sarà di questo Paese. L’unica cosa di cui sono certa è che c’è un destino di bene anche per loro. La vita di Chico ha una promessa da compiere: se no, sarebbe fregato. E l’avremmo fregato anche noi: per cosa l’avremmo tirato su?».

E tu, non ti senti mai fregata da Haiti? «No. Io sono tranquilla. La situazione dà forma alla mia vocazione. Non sono qui perché non sapevo cosa fare, e l’opera non è nata perché “suor Marcella trova i soldi e sa gestirli bene”: è nata perché Qualcuno la vuole. È un miracolo voluto da un Altro. Io dico “sì” al luogo in cui Dio mi pone». Anche quando non può uscire neppure per andare a Messa: «Troppi rischi. Mi accontento di quelle via Zoom. La fatica c’è, ovvio. E la mancanza la senti. Ma quel gesto non è meno vero. Fa parte della forma che è data alla mia vocazione ora, come dire il Rosario per la pace o chiedere che la situazione cambi. E sono lieta di poter dire di sì».

Ci sono altre cose di cui è lieta: «Gli strumenti che ci dà la nostra amicizia, il movimento: ti ci attacchi con unghie e denti». La Giornata d’inizio anno, per dire: «Averla seguita non è scontato, per altri amici qui non è stato possibile. Ma io passo l’ora di silenzio a riprenderla, perché è un punto fermo. Vivo di quello. In un contesto in cui l’emergenza ti mangia, potresti passare quell’ora a rispondere a qualcuno dei mille problemi. Invece no. Decidi che quel tempo è per te, qualsiasi cosa succeda, perché è ciò che regge tutto. Ti permette di fare una strada. E di chiedere che questo popolo trovi la sua».