Federica Irene Falomi in Cappadocia

Turchia. Un desiderio nuovo

Sette anni fa, l’incontro che ha cambiato la sua vita. Poi, il trasferimento in una terra lontana. E tutto ciò che oggi la mette "in movimento". Federica Irene racconta la sua storia (da "Tracce", ottobre 2022)
Federica Irene Falomi

Vivo a Istanbul da due anni, dove mi sono trasferita per lavoro: ho 33 anni e sono funzionario delle Nazioni Unite. In tutta la Turchia, del movimento siamo in due: io e Paolo, che vive sulla costa a Sud, a qualche centinaio di chilometri da me. Ma posso dire che non è mancata una compagnia alla mia vita: in questi due anni, non sono mai stata “sola”. Qui in Turchia ho riscoperto e approfondito la mia affezione al carisma, al movimento, cioè alla fede e al perché sia essenziale per la mia vita.

Io ho incontrato il movimento sette anni fa: non vengo da una famiglia cattolica, vivevo abbastanza lontana dalla Chiesa, pur avendo ricevuto il Battesimo. Pochi mesi dopo l’incontro con CL e l’inizio di una pienezza di vita nuova, sono partita per il Kenya, sempre per lavoro: è stata l’occasione per chiedermi cosa fosse veramente accaduto nella mia vita. In quel tempo ho maturato la decisione di chiedere la Prima Comunione e la Cresima: è stato un anno in cui ho scoperto che vado bene così come sono, che il mio desiderio può incontrare una realtà che gli risponde. Sono poi rientrata in Italia, fino all’ottobre 2020 quando sono partita per Istanbul, dove ora spero di restare per la bellezza di vita che ho visto accadere in me e intorno a me. Innanzitutto, l’evidenza che non sono mai abbandonata, che nulla di me e della mia umanità è dimenticato o lasciato al caso.

Mi sono trasferita durante la pandemia, quindi anche conoscere persone non è stato semplice. Ho domandato a Dio per mesi una compagnia del movimento qui: è stato un dialogo serrato, di lotta con la realtà, e nei tanti momenti di solitudine mi assaliva spesso il dubbio di aver fatto una scelta sbagliata e aver corso un rischio troppo grande. Insomma, di aver scherzato col fuoco. Con il sospetto, in fondo, di starmi perdendo il meglio della vita. Un anno fa, sono iniziati a succedere alcuni fatti inaspettati: ho saputo che Paolo viveva da trent’anni qui; sono passati in Turchia degli amici in pellegrinaggio dall’Europa a Gerusalemme. Mentre io mi impuntavo ad affermare che non valesse la pena “muoversi”, mi sono trovata sotto casa delle persone che facevano sei mesi di pellegrinaggio a piedi! Poi è arrivata Ainhoa, una ragazza del movimento di Madrid in trasferta per alcuni mesi.

Così, per l’evidenza di una compagnia che già c’era, a inizio Avvento ho proposto loro di trovarci ad Antalya, nel Sud del Paese, per seguire in collegamento il ritiro dall’Italia. In un luogo di apparente deserto, avere dei volti da guardare è stato un grande regalo, l’evidenza di una risposta puntuale, ma che indica una Compagnia sempre presente. Abbiamo così iniziato una piccola ripresa di Scuola di comunità tra noi. E, in questo tempo e lavoro, ho scoperto meglio chi sono, dandomi le ragioni del perché mi muovo in un certo modo.

Quando è arrivato l’avviso della Messa per l’anniversario di don Giussani, mi sono accorta che per la prima volta nessuno l’avrebbe organizzata per me. Ho reagito con un’iniziale trascuratezza: «Va be’, non cambia la sostanza, se anche non c’è…». Ma poi, il riconoscimento della gratitudine per la mia storia e per tutto quello che stava accadendo mi ha mossa: ho desiderato chiederlo. Abbiamo parlato con il Vescovo di Istanbul che ha celebrato la Messa per Giussani con enorme gratitudine: ha fatto un’omelia stupenda e ha restituito a me la chiarezza dell’importanza di quello che ciascuno vive nella Chiesa e per la Chiesa.

A dicembre, le circostanze sul lavoro si sono complicate e, di fronte al rischio di rimanere senza lavoro, ho iniziato a cercare alternative: ho ricevuto due offerte molto interessanti, entrambe fuori dalla Turchia. Ma di fronte ad esse, mi sono accorta di avere un desiderio vivo di rimanere dove sono. È accaduto che, in uno di quei giorni di valutazione delle offerte, avessimo la Scuola di comunità e mi ha colpito ascoltare Paolo: lui ha 76 anni, con la Chiesa più vicina a duecento chilometri da casa, insomma è abituato a stare scomodo. Ma quella sera, per la prima volta, ha parlato di solitudine, della fatica di seguire la Messa in tv, di una pesantezza: mi ha fatto impressione l’evidenza del ridestarsi del suo desiderio. Così gli ho chiesto che cosa fosse accaduto, e lui, riferendosi a me e a Ainhoa, ha detto: «Siete arrivate voi». In quel momento ho capito di avere un compito qui, non come un dovere, ma come desiderio di rispondere alla realtà che mi chiama. Mi sono resa conto che se io ci sono o non ci sono non è uguale. Allora la domanda diventa: «Cosa mi interessa davvero?». A me, che attendevo un segno eclatante per “scegliere” un lavoro, la realtà risponde con il ridestarsi di un desiderio: il mio.

In tutte le cose, anche le apparentemente piccole, posso lasciare prevalere il lamento per le difficoltà o guardare al miracolo dei volti che mi vengono donati, anche semplicemente per un pranzo la domenica dopo Messa. Mi accorgo che la situazione per certi versi “scomoda” mi aiuta ad avere un’apertura maggiore a quello che c’è.

Il Vescovo già in due occasioni ha rinnovato la sua stima per il nostro carisma: mi sono chiesta cosa voglia dire e cosa chieda a me. C’è un dato di partenza: le persone che ho incontrato finora qui. Per cui innanzitutto si tratta di approfondire il rapporto e la comunione con loro, con coloro che ho già di fronte.

C’è un fatto più evidente di tutti: per me il cristianesimo è più interessante oggi di sette anni fa, quando l’ho incontrato; ed è ancora più radicalmente affascinante oggi di due anni fa, quando sono partita per la Turchia. Lo dico consapevole di tutto, anche di tutte le persone che mi hanno detto: «Sarai da sola, ma cosa fai?», e della mia stessa paura di questo, della paura di perdermi, di perdere la fede. E invece vedo crescere sempre più la mia coscienza.