Aaron Richies, classe 1974, insegna Teologia al Benedictine College di Atchinson, Kansas.

Stati Uniti. Ragione di vita

Un teologo si imbatte nel pensiero di don Giussani. E poi in un giovane, che travolge la sua fede e la sua vita. Fino a proporre un corso in università sul sacerdote italiano (Da "Tracce" di Ottobre)
Aaron Richies

Quando don Julián Carrón ha annunciato il Centenario di don Giussani, ha proposto di interessarsi personalmente al gesto per un unico ed essenziale motivo: «Testimoniare ciò che lui ha generato in noi». Così sono stato provocato a considerare quale cambiamento il carisma ha generato in me. Cosa c’è nel mio “io” che ora esiste solo grazie al dono della Presenza di Cristo, che mi è stato comunicato attraverso la vita di questo prete milanese, un uomo che non ho mai conosciuto, che è morto nell’anno in cui sono stato accolto nella Chiesa cattolica? Come è passato da lui a me?

Ho sentito parlare per la prima volta del movimento nell’autunno del 2005. Vivevo in Inghilterra, dove avevo appena incominciato a studiare per il dottorato in Teologia all’Università di Nottingham. Il mio relatore di tesi, il professor John Milbank, aveva conosciuto l’arcivescovo di Granada, monsignor Javier Martínez, e stava diventando amico di alcune persone di CL all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Per curiosità, avevo comprato Il rischio educativo di don Giussani. Certo, non capivo cosa fosse CL, ma stava crescendo in me un interesse, soprattutto per un modo di vivere la fede che aveva molto a che fare con i teologi che studiavo, come De Lubac, Ratzinger e Von Balthasar.

Il vero incontro con il movimento avvenne per me nel 2009, quando Alessandra Gerolin, che insegnava Filosofia in Cattolica, mandò un suo studente a Nottingham a studiare con Milbank per un semestre e mi chiese di aiutarlo a trovare un posto dove vivere. Non ero preparato al modo in cui questo giovane italiano avrebbe conquistato me e la mia famiglia.

Michelangelo Mandorlo aveva poco più di vent’anni. Quando arrivò a Nottingham io ero professore a contratto di Teologia. Io e mia moglie Melissa avevamo un figlio, Basil, e aspettavamo la seconda, Edith. Ci eravamo entrambi convertiti al cattolicesimo, io dall’ateismo attraverso l’anglicanesimo (due anni prima di diventare cattolico ero stato battezzato in una chiesa anglicana) e lei dal protestantesimo in cui era cresciuta. Quindi nel 2009 ci siamo ritrovati in Inghilterra dopo aver già compiuto un inaspettato e singolare cammino di fede. La nostra storia, i miei studi di teologia, il fatto di essere ormai genitori e di avere oltre dieci anni in più di Michelangelo avrebbero dovuto renderci autorevoli in materia di fede e di vita. Ma il nostro incontro con lui ha dimostrato il contrario. Michelangelo ci ha introdotti a un percorso in cui abbiamo cominciato a reimparare la fede da zero. Attraverso l’incontro con lui abbiamo scoperto la “familiarità con il Mistero”, l’esperienza interiore dell’efficacia che Dio ha voluto ottenere assumendo la carne umana.

Michelangelo era un tipo diverso di cattolico. Non era bigotto, ma pregava con più devozione di chiunque altro avessi conosciuto. Provava una vera gioia nel fumare i suoi toscani, nel bere birra e cantare, nel divertirsi con il nostro bambino, ma anche nel cucinare e lavare i piatti. Faceva tutte queste cose con un’immediatezza e un’intensità che significava che per lui tutto aveva un grande valore per la sua persona e per i suoi amici. E tutto (fumare, cucinare, amici: tutto) gli sembrava in qualche modo intimamente connesso con l’andare a Messa. Questo giovane straordinario, lieto e vivo, ci ha travolti. Aveva davvero a cuore chi eravamo e ha voluto conoscere la nostra storia.

Ci portò anche nella sua casa di famiglia a Rimini e incontrammo lo stesso modo di essere nei suoi genitori. Attraverso di lui la mia storia, che allora mi era sembrata frammentata e a compartimenti stagni, cominciò ad assumere la chiarezza di una nuova unità. Senza un solo discorso, Michelangelo mi mostrò (quasi inconsapevolmente) la ragione profonda ed eccezionale che univa i momenti apparentemente disgiunti della vita in un unico disegno di fondamentale importanza. Lo fece anche insegnandomi a cantare e a suonare di nuovo la chitarra (cosa che avevo abbandonato dopo la mia conversione al cristianesimo). Una delle canzoni che mi ha insegnato a cantare è stata La strada di Claudio Chieffo: «Porto con me le mie canzoni / Ed una storia cominciata / È veramente grande Dio / È grande questa nostra vita». Questa strofa ha sbloccato qualcosa dentro di me. Chiariva che tutto ciò che portavo dentro era radicato in un’unica storia, una storia che appartiene a Dio ed è la mia vita.

A Nottingham, Michelangelo iniziò a fare una cosa chiamata “Scuola di comunità”, ogni settimana con alcuni amici: si sarebbe svolta nel nostro salotto, ed essendo suoi amici eravamo invitati. Aveva scoperto che a Nottingham viveva una donna polacca di nome Ania, appartenente alla Fraternità. C’era anche un italiano, Dario, che viveva a Milano ma lavorava durante la settimana alla Rolls-Royce di Derby. Al primo incontro eravamo, quindi, in sei: Michelangelo, Ania e suo marito Marek, Dario, Melissa e io.

L’esperienza di completezza che la Scuola di comunità ha generato in me mi ha portato a riconoscerla come qualcosa di più intimo di me stesso. Il gesto e la compagnia che creava hanno dato corpo alle idee più affascinanti di Giussani e le hanno rese dei fatti della mia vita.

Michelangelo, dopo aver fatto da padrino a mia figlia Edith, è entrato nel monastero benedettino della Cascinazza, a Milano. Nello stesso periodo noi ci siamo trasferiti a Granada, in Spagna, dove monsignor Martínez mi invitò a insegnare nel suo seminario e a entrare nell’Istituto di Filosofia Edith Stein. Sotto la sua paternità è continuata l’esperienza di CL che era iniziata a Nottingham.

La trasmissione del carisma per me non può essere distinta dalla mia vocazione di educatore. In un certo senso, ho imparato a insegnare immergendomi in ciò che ho appreso da Giussani, per quanto imperfettamente io lo comunichi. Spesso dico alle persone che qualsiasi cosa buona io faccia in classe la devo interamente alla Scuola di comunità. Ho scoperto che, per comunicare qualcosa di vero e di valido, per essere minimamente convincente per i miei studenti, ho dovuto aderire all’insistenza sull’esperienza proposta da don Giussani.

Nel 2015, non appena fu pubblicata la traduzione in spagnolo della biografia di Alberto Savorana, lessi subito l’introduzione, ma nel tempo mi bloccai. Fino a quando la proposta di Carrón in occasione del Centenario mi ha raggiunto in un momento particolare. Da qualche anno abitavamo di nuovo negli Stati Uniti, ad Atchison. Padre José Medina mi aveva chiesto di tenere la Scuola di comunità, il che mi aveva già posto di fronte alla mia responsabilità verso il carisma. Come potevo, inadeguato come so di essere, assumermi la responsabilità del movimento in questo luogo? Decisi di affrontare in modo nuovo il librone di Savorana. Ed è allora che nacque l’idea di preparare un corso basato sulla biografia. L’ho proposta alla mia docente al Benedictine College, Jamie Blosser, che l’ha accolta con favore, proponendomi un corso di Teologia per la laurea magistrale. La maggior parte degli studenti del Clu, che mi aspettavo riempissero la classe, non avrebbero potuto frequentarlo. Ma con loro abbiamo comunque deciso di incontrarci per leggere la biografia insieme. È nato così, accanto al seminario ufficiale, un “corso da bar” che, con l’avanzare del semestre, ha finito per attirare studenti che non appartenevano al movimento.

Il corso ufficiale prevedeva due incontri a settimana: il martedì, prima di discutere la sezione della biografia letta per quel giorno, ogni studente aveva l’opportunità di fare una presentazione su uno dei capitoli di Cristo compagnia di Dio all’uomo; il giovedì iniziavamo la lezione ascoltando un brano musicale di Spirto gentil con il commento di Giussani, per poi passare alla biografia. Abbiamo interrotto il ritmo per leggere L’Annuncio a Maria e Miguel Mañara.

Forse il modo migliore per capire cosa è accaduto nel corso è leggere una mail che ho ricevuto subito dopo l’esame finale, da uno degli studenti: «Non c’è corso che abbia frequentato all’università che abbia avuto un impatto maggiore sulla mia vita spirituale quotidiana e sulla mia visione complessiva della fede di questo incontro con Cristo attraverso Giussani. Questo corso ha aperto il mio cuore a Lui in un modo che non avevo mai sperimentato. Grazie per avermi dato questa opportunità e sappia che nel mio insegnamento vivrò nello spirito di Cristo attraverso Giussani e condividerò questo incontro con i miei studenti per gli anni a venire. R.».

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Credo riassuma ciò che molti studenti hanno scoperto. È sorprendente imparare un nuovo modo di guardare a Cristo, imparare a vederlo di nuovo per la prima volta. È questa la grande utilità che gli studenti hanno scoperto in Giussani: ha insegnato loro la libertà nel guardare alle difficoltà, alla disaffezione, alla noia, alla monotonia, al peccato e alle sofferenze della vita, una gamma di esperienze umane che troppo spesso è bloccata, come se non potesse essere accolta dentro l’abbraccio di Gesù. Lì hanno trovato la novità dell’avvenimento dell’incontro. Ciò che più li ha colpiti è stato il modo in cui Giussani scommette sulla bontà di tutta la realtà e insiste sul fatto che è sempre e solo lì che Lui può essere incontrato. Ogni grido a Cristo è già un segno della sua presenza e una tensione che mette l’io in cammino verso il Destino, che è Lui.

Questo aspetto è stato sottolineato da una studentessa che si è soffermata sul modo in cui Giussani ha affrontato la sofferenza finale del Parkinson. Nell’ultima lezione ha detto: «Lui ha questa certezza che ciò che gli viene dato è un dono. Un dono che vedeva negli infermieri, nei suoi amici e nelle persone che conosceva appena. La cosa che voglio portare con me da questo corso è il desiderio di vedere tutto come un dono».