Il titolo di quest'anno era "Something to start from"

New York Encounter. Quel "qualcosa" che conquista la vita

Nella Grande Mela per capire da dove si riparte nel caos quotidiano. Gli interventi del nunzio Pierre, Austen Ivereigh e Julián Carrón. Quello del giornalista David Brooks e del poeta Paul Mariani. Tre giorni per riscoprire cos'è il cuore e Chi lo fa
Davide Perillo

«An explosion of life». È arrivato da un’ora scarsa, Paul Mariani. Settantotto anni, newyorkese, poeta vero, sa bene che peso hanno le parole. E quelle gli sgorgano dal cuore di colpo, dopo un po’ che si guarda intorno: «Questo posto è un’esplosione di vita!». Popolato da gente variegata e, a colpo d’occhio, molto felice di esserci: millennials e pensionati, liceali e scienziati di fama, famiglie con bimbi e capannelli di suore... Tutti impegnati in un viavai continuo, sui tre piani del Metropolitan Pavilion di Manhattan dove pulsa il New York Encounter 2019.
È cambiata la data - spostata in avanti di un mese -, si è infittito il programma (23 eventi in poco più di 48 ore, più le mostre, gli spettacoli, il premio di poesia), sono aumentati i volontari (350, nelle loro t-shirt rosse o blu). Ma lo spirito resta proprio quello: un weekend pieno di vita, vera. Di quella carica di domande e attese, assetata di risposte. Già dal titolo: “Something to start from”, qualcosa da cui partire. Esiste ancora, nel caos in cui siamo invischiati oggi? Rimane lecito attendersi che il proprio desiderio di felicità si compia? E come, dove? Cosa lo permette?

L’ipotesi sta tutta in un punto rosso: quello che spicca nel petto dell’Icaro di Matisse, manifesto di questa edizione. È il cuore, come lo chiamava la Bibbia e ci ha fatto riscoprire don Giussani: desiderio di totalità che non possiamo strapparci di dosso, capacità di giudizio intatta, anche sotto la cenere di una società che sembra fatta apposta per farla assopire. «E invece di cuori accesi, di uomini vivi, ne esistono, eccome», dice Riro Maniscalco, presidente della kermesse organizzata dalla comunità americana di CL: «Bisogna incontrarli, per imparare».
Si parte da lì, allora. Da quel cuore che a volte si sente «come un bimbo senza madre», parole di un celebre spiritual cantato proprio all’avvio dei tre giorni. È l’inizio di un incontro semplice e toccante: tre testimonianze - un documentario sulle Apac, le carceri brasiliane senza guardie; una videotestimonianza di padre Ibrahim Alsabagh da Aleppo; un racconto “in diretta” del percorso fatto da Miriam, universitaria, e dai suoi amici prendendo sul serio e proponendo a colleghi e professori di lavorare sull’invito a «pensare con la propria testa» fatto da alcuni docenti in una lettera aperta («una sollecitazione a capire chi sono»). In mezzo, un pezzo di violoncello. E le parole di Maniscalco, a introdurre quello che verrà: «Cosa muove persone così? Da dove viene fuori questo desiderio, questa attesa? Ecco, è questo qualcosa che vogliamo conoscere nei prossimi giorni. Teniamo aperti occhi, cuore e mente». La prima serata si chiude con le note di un tributo a John Coltrane, icona del jazz.



Il giorno dopo, raffica di incontri: dodici. Più le mostre. Una è sulla musica di Bob Dylan, di cui basterebbero quei due versi di Ballad of a Thin Man per raccontare il Mistero che siamo ( «Something is happening here, / But you don’t know what it is»). Un’altra sulla “cura dal volto umano” di medici come Giancarlo Rastelli, Takashi Nagai, Cicely Saunders. E un’altra ancora, strana e bellissima: si chiama Lost in the cosmos, prende il titolo da un libro di Walker Percy e sviluppa un percorso di domande, scoperte, osservazioni alla ricerca di «un rapporto vero tra l’io e la realtà», per uscire dall’immagine che abbiamo di noi e della vita - come se la persona fosse riducibile all’“uomo di successo”, al “buon cittadino”, al “virtual self” o ai tanti modelli a cui ci adattiamo - e riscoprire la dimensione più profonda del reale. Spiegarla rende poco, vederla spalanca. Come capiterà la seconda sera all’inserviente delle pulizie, che si ferma a leggere i pannelli: «Ma questo sono io... Cavolo, anche questo... E pure questo sono io! Ma chi siete voi?».

Ce n’è anche un’altra, di mostra: su don Giussani. Stessa porzione di Pavilion, stessa foto intensa in apertura e stesso titolo del percorso proposto un anno fa: «Dalla mia vita alla vostra». Gli autori, però, stavolta sono i giessini, i liceali. Ragazzini di 15-16 anni che ti spiegano perché «l’evidenza più grande che Cristo esiste è il mio cuore che brucia», come scrive in un pannello Maddie di Crosby, Minnesota: «La prova che ci sia qualcosa fuori di me è che il mio desiderio e il mio bisogno di tutto è così forte». Ed è impressionate sentirli raccontare di come un prete italiano nato quasi un secolo fa li accompagni ora a fare i conti con quel desiderio.
Sul palco, intanto, sfilano domande ed esperienze. Non sono i soliti talks; sono testimonianze. Tutte, ognuna a modo suo. Kerry Cronin e Emily Esfahani, una insegnante e l’altra scrittrice, discutono dell’“epidemia di solitudine” da cui siamo aggrediti. Ma si parla anche di arte, di non profit, di ricerche spaziali. E di lavoro, negli short talks di un piccolo spazio ricavato apposta.

Fino all’incontro principe. Il titolo è preso dalla Gaudete et exsultate, l’esortazione apostolica di papa Francesco che invita alla santità: «Non avere paura di puntare più in alto». « Set your sights higher », perché è solo così che si può «scoprire nel profondo dei cuori la risposta al proprio desiderio di felicità e di significato», come augura il messaggio inviato all’Encounter proprio dal Papa attraverso il cardinale Parolin. A discuterne, monsignor Christophe Pierre, nunzio apostolico negli Stati Uniti e amico di lunga data dell’Encounter, assieme ad Austen Ivereigh, giornalista inglese e biografo di Francesco, e a Julián Carrón, la guida di CL. Incontro ricchissimo, meriterebbe un altro articolo.
José Medina, responsabile del movimento negli Usa, lo introduce così: «Vogliamo conoscere di più Francesco chiedendo a chi lo conosce bene». E il quadro comincia con Ivereigh, che fa notare come «l’umanità sorprendente del Papa non dipenda solo dal temperamento, ma dal fatto che lascia spazio allo Spirito». Pierre ricorda l’impressione che gli fece il documento di Aparecida, il testo dei vescovi sudamericani a cui Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, diede un contributo decisivo: «Quando l’ho letto, mi sono detto: finalmente qualcosa di nuovo. Si vedeva il desiderio di rispondere alle aspettative reali della gente di oggi, là dove vive. Si sentiva l’inizio di un periodo nuovo». Nel Papa, ovviamente, vede lo stesso impulso: «Dobbiamo aiutare la gente a incontrare Gesù. Se non si incontra Cristo, non esiste la Chiesa. E se la Chiesa non risponde al desiderio delle persone, non serve».
Ivereigh sottolinea che il problema è esattamente quello: «Perché il Vangelo non arriva più? Il punto è la trasmissione della fede. I vecchi meccanismi non funzionano. Che cosa ci sta chiedendo lo Spirito in questa circostanza? Forse abbiamo bisogno di cambiare per incontrare l’uomo». Cambiare e uscire, altra parola-chiave del Pontificato. Pierre fa osservare che «la Chiesa non è un’azienda. È il mistero della presenza di Dio nella storia. Se restiamo tra quattro mura, ben protetti, cosa possiamo pretendere di dare alla gente? Non lo ascolteranno».



Anche Carrón sottolinea che la Chiesa «ha un problema con la modernità». E lo riassume così: «Il valore più importante del mondo moderno è la libertà. Possiamo offrire qualcosa alla libertà dell’uomo?». Se è vero che, come diceva Péguy, siamo «la prima generazione senza Cristo dopo Cristo», la sola possibilità di rispondere a questa situazione è «tagliare corto: fare il cristianesimo. È l’annuncio dell’evento cristiano come se fosse la prima volta», dice Carrón. Ed è una grande occasione: «L’epoca che stiamo vivendo ci dà la possibilità di capire che cos’è il cristianesimo». Sfida che tocca tutti i cristiani, non solo la Chiesa: «In ogni occasione in cui incontriamo l’altro - lavoro, vacanza, studio -, possiamo offrirgli un modo di stare nella realtà, di vivere, che lo abbracci? Non dobbiamo preoccuparci della riforma della Chiesa, ma della conversione di noi stessi».

Pierre sottolinea che «la fede è basata su un incontro», e che per questo «servono discepoli missionari». Ivereigh approva, e ricorda che il ribadirlo è un filo rosso che lega gli ultimi Pontefici. Medina chiede di approfondire il rapporto tra libertà e autorità. E Carrón risponde: «Siamo come ai tempi dell’Impero: viviamo in una società multiculturale, in cui ognuno fa quello che vuole. Ma abbiamo qualcosa di cruciale per rispondere al desiderio di compimento dell’uomo? Questa è la sfida». Conclusione: «Per noi è un momento straordinario: siamo chiamati a uscire per verificare se la natura originaria della fede può essere interessante per tutti». C’è una sola condizione: «Che il cristianesimo sia cristianesimo. Non sia ridotto a sentimenti, etica, regole, ma resti un fascino. È da Giovanni e Andrea che si comunica così». E il nostro compito è chiaro: «Offrire a tutti quello che abbiamo ricevuto per Grazia, perché lo abbiamo ricevuto non solo per noi, ma per tutti».



Tempo poche ore, e arriva un nuovo incontro clou: «Un’attesa irriducibile». È il ritorno al NYE di David Brooks, editorialista del New York Times. Dialoga con Javier Prades, rettore della San Damaso di Madrid. Ma anche qui, non è un classico talk. Brooks sorprende tutti parlando di sé. Di un contesto segnato dalla «perdita del desiderio» e insieme da un punto irriducibile che resiste nell’umano. Di domande di cui si è reso conto negli anni («cerchiamo un senso, una direzione: ma su questo punto così urgente ci ritroviamo senza niente da dire») e di un percorso che, attraverso tante ferite, gli ha fatto scoprire come non bastino le capacità, il successo, quello per cui ci si batte cercando un’indipendenza che rischia di diventare una condanna («alla fine una persona senza legami è una persona di cui non si ricorderà nessuno»). Racconta di «un cuore che cerca l’altro e un’anima che cerca il bene». E dell’importanza di ritrovare dei rapporti, per essere se stessi: «La risposta all’individualismo è una comunità sociale». Come quella in cui è si è ritrovato impegnato lui, per un progetto di formazione di giovani nelle periferie. Come Cometa, la casa-famiglia di Como che ha visitato mesi fa. E come CL, che cita esplicitamente.

Prades delinea uno scenario ampio, cita un contesto segnato dall’incertezza, dalla mancanza di coordinate per capire un mondo che diventa incomprensibile; dalla necessità di ritrovare «spazi di azione». E di una strada per riscoprire la propria umanità «che non passa dalle teorie, ma dall’esperienza. A un bambino non basta sapere che le mamme amano i figli: vuole essere amato dalla sua». Per questo è decisivo accorgersi «del valore conoscitivo dell’incontro: deve succedere qualcosa nelle nostre vite, perché solo quello rimette in moto il nostro io». Racconta anche un episodio personale: il primo viaggio a New York, a 14 anni, sbarcando da una Spagna che era un altro mondo. «Ricordo bene lo stupore per una grandezza mai vista. Ma ti accorgi che in qualche modo la vita ti chiama a decidere: se quella grandezza basta, o se devi andare ancora più a fondo per rispondere a tutto il tuo desiderio. Fare un incontro che contenga qualcosa di ancora più grande di New York, che abbracci il mondo intero. Il senso di tutto».

Anche a cena con Brooks e la moglie Anne, è un bell’incalzare di domande: sull’Encounter, il lavoro che c’è dietro, il titolo... Ma colpisce soprattutto sentirlo dire che ha raccontato di sé senza maschere perché «il cammino che sto facendo mi chiede di essere leale» e perché qui c’è un contesto che permette di parlare così. Sono più o meno le stesse parole che dirà il giorno dopo Steven, marito di una degli ospiti, che a tavola si mette a raccontare fatti decisivi della sua vita, davanti alla moglie che lo guarda stupita: «Di solito parlo poco, ma qui ho trovato orecchie che sanno ascoltare». Lo aveva detto anche la Esfahani, la scrittrice: doveva andare via subito dopo il suo incontro, si è fermata a lungo. E a un certo punto si è commossa: «Non sapete che regalo è stato oggi essere qui». Ecco, qui è «un luogo dove chi è venuto ha potuto aprire il cuore», dice Angelo Sala, tra gli organizzatori dell’Encounter: «La gente è assetata di questo». E non è solo questione di folla, di sale piene e spazi fitti: è un clima, «un ambiente in cui chiunque viene, dal volontario allo speaker, finisce per dare il meglio di sé»



Domenica mattina, la messa. In memoria di don Giussani, a ridosso dell’anniversario della morte. Celebra monsignor Pierre, il Vangelo è quello delle Beatitudini. È la chiamata «a vivere in modo diverso». E a fare la scelta che indicava lo stesso Giussani, semplice ma decisiva: «L’uomo dipende, sempre», ricorda Pierre: «Deve decidere se dipendere da Chi fa tutto, o dal potere». Alla fine tocca a Medina ringraziarlo da parte di tutti: per la sua amicizia e «per come ci sollecita a essere sempre più figli di don Giussani».

Torna anche dopo, il nome di Giussani. Speso sul palco di un incontro dove si parla dell’educazione del cuore. Protagonista lo stesso Pierre, assieme a Jon Balsbaugh, presidente del Trinity Schools Network. E a Stanley Hauerwas, teologo famoso, uno dei primi, da queste parti, ad accostarsi all’opera del fondatore di CL. Compare in video, intervistato da Holly Peterson. Parla di educazione come aiuto a scoprire la realtà in un rapporto («nessuno ha bisogno di essere formato, ma amato»); e riconosce a Giussani questa grande «capacità di parlare ai ragazzi - a tutti - in un modo che chiamava a essere se stessi», perché «solo un’educazione del cuore crea un io autonomo, libero, che è altra cosa dall’essere indipendente», come osserva Balsbaugh.

Pierre, invece, parte da suo nipote, che doveva fare una ricerca su Cartesio e si è ritrovato alluvionato da pagine di Google. «Un mare di risposte difficile da fronteggiare, se non abbiamo le domande giuste». Ecco, il cuore come ne parlava Giussani è decisivo per questo: «Il maestro è chi ti aiuta a entrare in rapporto con la realtà che hai intorno».
C’è ancora tempo, nel pomeriggio, per vedere Robert George, celebre giurista di Princeton, suonare e cantare con gli amici, dopo aver parlato di Bob Dylan. O per sentire Francis Greene, storico dell’arte, raccontare di Andy Warhol. E, ancora, per ascoltare testimonianze che colpiscono tutti. Suor Laura Girotto, arrivata dall’Etiopia, racconta la sua storia di missione in Africa. Dawn Ford, professoressa, e Jenny Hubbard, madre di una delle vittime, raccontano cosa ha voluto dire vivere «un nuovo inizio» dopo il massacro di Sandy Hook (27 bambini uccisi da un ventenne in una scuola elementare, sei anni fa): «Arrivata al fondo delle tue forze, non hai più niente», dice la Hubbard: «Ecco, lì capisci che è Dio che fa».



Sono parole simili a quelle che si ascoltano nell’ultimo incontro. È dedicato a Chiara Corbella, la giovane mamma di cui è in corso la causa di beatificazione. Storia famosa: Chiara è morta di cancro nel 2012, a 28 anni, dopo aver rifiutato le cure che avrebbero potuto danneggiare Francesco, il bimbo che portava in grembo. Altri due bimbi erano morti poche ore dopo la nascita. Ma è una letizia strana quella che si coglie nel racconto di chi è sul palco e nel volto della stessa Chiara, che compare nel video di una testimonianza fatta a Medjugorie due mesi prima di morire. Angelo Carfì, medico che le è diventato amico durante la malattia, racconta di essere stato colpito da quello che ha visto al funerale del secondo bimbo: «Mi sono detto: la fede non è un’anestesia qui. Non sono matti: stanno soffrendo. Ma allora da dove arriva questa gioia?». Ed Enrico Petrillo, il marito di Chiara, spiega da dove veniva la forza che le faceva chiedere con il sorriso sulle labbra «la grazia di accettare la Grazia», di dire sì alla volontà di Dio: «Il centro della sua vita era un altro. Chiara è una figlia, ha vissuto da figlia tutto quello che il Padre portava nella sua storia. Aveva questa capacità di fare spazio alla grazia, di lasciarsi amare. Ma anche noi siamo chiamati alla stessa cosa: a vivere questa figliolanza». Ecco, il qualcosa da cui si può ripartire, sempre: il cuore, alla ricerca di Chi lo ha fatto.
Si chiude l’incontro, si annuncia la festa finale. Ma a fondo sala ti sorprende un’ultima battuta. È Paul Mariani, il poeta, che abbraccia commosso uno degli organizzatori: «Qualsiasi cosa possa fare per aiutare, fatemi sapere. Venire qui mi ha cambiato la vita».